TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 24 aprile 2010

La parte dei gesti perduti




Domani è il 25 Aprile. Abbiamo chiesto a Armida Lavagna di scrivere su Vento largo cosa significhi quella data per una giovane insegnante nata negli anni Settanta.

Armida Lavagna

La parte dei gesti perduti


“L'altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi”.

Per chi la Resistenza non l’ha vissuta, né la tragedia della guerra, né il ventennio da incubo che afflisse l’Italia, non c’è altro modo che farsela raccontare da chi ancora può farlo, o leggerla. Queste parole de Il sentiero dei nidi di ragno si finisce per rileggerle ogni volta. E per crederle, è sufficiente leggere dopo di quelle le perle pedagogiche contenute nel libro della seconda classe elementare di quegli anni:

“Fu domandato a un sapiente: ‘Quale dev’essere la prima virtù del bambino?’ Rispose: ‘L’obbedienza’. ‘E la seconda?’ ‘L’obbedienza’. ‘E la terza?’ ‘L’obbedienza’. Quale dev’essere il primo requisito del Balilla e della Piccola Italiana? L’obbedienza”.

Questi erano gli insegnamenti, questa era la scuola, questo era il “vangelo” fascista. Basta questo, anche senza tutto quello che venne dopo. E’ scomodo domandarsi che cosa avremmo fatto noi che non c’eravamo, quale parte avremmo scelto, quanto coraggio avremmo avuto, o dove ci saremmo nascosti e perché. Forse è domanda destinata a non trovare risposta. Ma serve almeno a darci la misura di quanto coraggio ebbe chi – nato cresciuto o maturato in un tale contesto - seppe farlo, fino alle estreme conseguenze, a volte poi affiancato da chi scelse quando scegliere diventò facile, quando scegliere significò per alcuni trasformare la propria paura in rabbia, o semplicemente sputare addosso o irridere chi fino al giorno prima si temeva, quando non fu più scelta ma convenienza, opportunismo, nei giorni in cui le parole giustizia e vendetta talvolta finirono per confondersi, fino a lasciar germogliare dubbi, fino a lasciar emergere domande che quei tempi non videro.



Certo, in quella fase particolarmente atroce di guerra – ma per quanti era già stato atroce tutto ciò che l’aveva preceduta? – vi fu violenza da un parte e dall’altra, fu versato il sangue dei vincitori e dei vinti, ridotti a cadaveri di fronte ai quali con Pavese probabilmente molti toccarono “con gli occhi che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.

Ma a guerra finita, a guerra finita per i morti, a chi resta tocca scrivere e narrare la storia. E a chi viene dopo tocca ascoltarla, studiarla, narrarla ancora. E qui i morti non possono, non potranno mai essere tutti uguali.

“L’altra parte” non scelse solo la sconfitta o un malinteso senso dell’onore o una coerenza rivendicata sulla pelle dei propri connazionali decimati o deportati. Scelse un posto nella storia che non può essere modificato dal tempo che passa. Ogni pagina di quei deliranti manuali scolastici dove si studiava l’agiografia del Duce, ogni numero della Rivista della razza inviato alle scuole per “educare” le menti dei fanciulli, bastano a dimostrare – già solo quelli! – che tale scelta non può essere nemmeno per un istante equiparata all’altra.

Chi la fece, non può oggi rivendicarlo. Non può pretendere di aver avuto ragione quanto chi stava dall’altra parte. Può certamente motivare la propria scelta, adducendo le ragioni più diverse, ognuna delle quali potrà trovare diversa comprensione in chi oggi appunto non può sapere davvero cosa voleva dire trovarcisi in mezzo. Ma non può chiedere più di questo. Non può reclamare onorificenze e medaglie. Non può essere equiparato a chi per mille ragioni fece la scelta opposta. A chi, in un regime chiaramente e dichiaratamente autoritario, violento, repressivo, ebbe il coraggio di opporsi.

“Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere” (Il sentiero dei nidi di ragno, prefazione all’edizione del 1964).


Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.