Nella città di Istanbul, magica e profumata, alla fine degli anni '50, la mente, il cuore e il gusto del piccolo Fanis vengono educati da suo nonno Vassilis, proprietario di un negozio di spezie. Un film in cui il cibo diventa metafora della vita e l'amore un ingrediente amaro ma indispensabile come lo zenzero.
Armida Lavagna
Un tocco di zenzero... può cambiare la vita?
Dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande. Dallo zucchero che rende più invitante a un neonato il seno della madre, con un primo piano tutto sul morbido primo sapore che ci offre la vita, alla polvere di stelle disseminata nell'universo, nell'armonioso movimento degli astri e dei destini che si intrecciano e si disfano.
Il film, nella sua prima parte, è un vero tripudio di forme colori e profumi che si annidano nelle cartoline illustrate come nei nostri occhi, davanti ai quali si alternano primi piani del regno della magia e della diplomazia, dell'antro delle spezie, e squarci di una città reale e immaginaria, quadri in movimento nei ricordi del protagonista, che ha perduto la città magica dal doppio nome e dalla indefinibile identità, Costantinopoli/Istanbul, e la ripercorre in una dimensione onirica affascinante, a tratti surreale, nella quale la accarezza con quella speciale forma di nostalgia che impone l'allontanamento forzato.
Chi parte non può tornare, chi resta non può partire, anche se vorrebbe. Anche se si parte e si resta legati da promesse impossibili da mantenere, alimentate solo dal ricordo di un piccolo movimento, di un voltarsi indietro che però costringe le persone - un po' come i corpi celesti... - a proseguire nella rotazione, e ad andare avanti sulla propria strada, o lungo un binario sorvegliato da carri armati. Chi parte non ha più radici, è greco per i turchi, turco per i greci, è destinato alla cifra del movimento, a voltarsi verso tutti i punti cardinali per indicare una strada che sa pensare solo immergendola in tutto il proprio viaggio, inserendola come nota in una musica di cui il pensiero della patria lasciata o perduta o sognata è il bordone.
Resta il piacevole inganno di un'arte che è memoria e patria e linguaggio, quando anche la lingua è negata o messa in discussione da altri. Un’arte sapiente che a volte si fa mania, a volte inganna se stessa, quando si rende necessario aggiungere una spezia impensata, quella messa volutamente a rendere stonato un piatto o quella aggiunta in segreto a renderlo unico e inimitabile. Il cibo si fa materia dei sogni, dei ricordi, persino dell’illusione fugace di un nuovo inizio, che riannodi un presente impolverato ad un passato scrigno di un amore infantile e carico di turbamenti, di una passione in erba abbandonata tra le polveri profumate e colorate di una soffitta. Ma quando in tavola arriva il dessert, il pranzo è inesorabilmente finito: le spezie sono lo spazio infinito, e lasciano spazio al dopo, alla fantasia, al sogno; il sale è la Terra e la vita che in essa cresce e muta e ride e soffre; della vita e dei sogni, invece, lo zucchero segna l’inizio e la fine.
Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.