Fanciulli di sabbia è
il romanzo d'esordio di Lorenzo Muratore, composto nell’arco di
alcuni decenni da questo scrittore particolarissimo, amico di Guido
Seborga, Francesco Biamonti, Elio Lanteri . Vi si raccontano
l’adolescenza e la vita interiore del personaggio di Gabriele negli
anni centrali del secolo scorso. Le pagine di Muratore, oltre che per
il contenuto, contano però soprattutto per la preziosità di una
lingua i cui arcaismi si rivelano fiammanti neologismi, com’è
stato osservato da uno dei pochi, autorevoli, lettori delle sue
pagine finora inedite. Il libro verrà presentato il 7 agosto a San
Biagio della Cima. Pubblichiamo la bella recensione di Marino
Magliani.
Marino
Magliani
Un romanzo che
nell’estremo ponente girava tra i pochi da parecchio, pare, l’ha
scritto Lorenzo Muratore, ed è uscito per l’editore piemontese
Nerosubianco. I luoghi non si menzionano, sono cittadine sul mare, ed
è ambientato nel dopoguerra. Romanzo di tormenti, di vite scomparse
nelle acque, ma fatto di una lingua che si inarca e implode, si
estende, si spezza quando gli archi non reggono, una lingua, insomma,
ed è la cosa che più conta.
Per il resto, personaggi
letterari che escono dalle pagine e vi fanno ritorno, con caratteri
ricercati eppure appartenenti a quel filone abbondante di invenzioni
tentate da certi narratori talentuosi, e tra questi, intendo tra i
personaggi, persino uno scrittore, chiamato Francesco, e poi gioventù
e intellettuali. Su tutti il protagonista, e l’io narrante,
esterno, che distribuisce il tempo e racconta di giochi estremi
lasciando che i personaggi appaiano come per scoprire un eccesso del
mondo, un disordine, e bruciare un’epoca, e qua e là persino un
ambiente religioso. Questo è ciò che trovai quando mi apparve la
fragilità sognante di Gabriele, il protagonista. «… e Gabriele
scopriva nel breve silenzio tra una parola e l’altra uno spazio
smisuratamente ingrandito dagli abissi interiori o piuttosto vi
rimaneva intrappolato».
L’incipit, un brano
dalla lingua che mostra tendine rigonfie d’arie dissolute,
imbarazzi e scivolosi pericoli, abissi, e di nuovo archi e porpore e
barocchi, era uscito sulla gloriosa rivista degli Atti Impuri, a cura
di Claudio Panella e dei ragazzi di Sparajurij.
In un mio dossier sulla
letteratura del Far West ligure avevo parlato, per quel che posso
dire, delle mie Macondo e delle mie Combray, e di quella scheggia di
terra, e delle pagine che a volte altri scrittori mi danno in
lettura, e tra queste l’opera letteraria di Muratore. L’editore
di Fanciulli di sabbia mi ha chiesto di poter utilizzare un piccolo
brano di quel dossier che è ormai archeologia, per raccontare il mio
rapporto di affetto con quel mondo a ridosso di montagne, frontiere,
la Val Nervia, o appena lontano, Sanremo, fin su a Corte e Realdo, e
poi di nuovo giù alle spiagge di scogli, come a chiudere un cerchio
di luoghi e romanzi.
Qui ho l’occasione per
aggiungere, e credo sia stato anche per Claudio (come per chi ha
letto), che è stata la lingua, anche se talvolta nella sua
forzatura, a catturare. Il resto, s’è detto: c’è un io narrante
esterno che sa tutto, e ci parla di un Gabriele ragazzino che vaga,
smarrito, alla scoperta o al rifiuto dei sensi, anzi neanche alla
scoperta, ma è come se fosse il mondo intero che lo circonda ad
attirare Gabriele nei suoi meandri più oscuri, e in tutto questo
tempo che passa, qua e là, in alcune occasioni, egli se ne va un po’
ammirato e a tratti anche irritato da questo scrittore che appare,
spiega le cose vissute, e viene definito Grande, ma grande in
proiezione, perché non ha ancora scritto nulla, e al quale futuro
scrittore, un giorno (come se l’io narrante esterno provasse a
forzare le catene della narrazione e a balzare nel futuro per farci
sapere che più che una fauna c’è un mondo in luogo nascosto non
si sa dove, in un altro secolo), cinquant’anni dopo circa, verrà
dedicata una via della città.
Romanzo di rotoli, di
anse rocciose e spiagge e orizzonti languidi (ma senza dipingerceli
perché la lingua franerebbe nella realtà), di estati sonnolente e
pomeriggi e brusii come per Il Peccato di Boine, quando al cadere dal
muretto di cinta del convento, le mani del personaggio si aggrappano
ai filari, si feriscono, lordandosi di sangue e di grappoli d’uva
rotti. Credo che a Muratore premesse molto inventare un linguaggio e
accendere il fuoco accanto a quell’archeologico post-bellico (è
bello: post-bellico dell’estremo ponente, così, come l’ha
chiamato poco fa Claudio Panella mentre se ne parlava) e farlo
brillare un’ultima volta, semmai un’epoca possa brillare di luce
propria.
Perché, dunque, leggere
Fanciulli di sabbia quando la sabbia è già tanta, e anche di questo
genere, e di dissolutezze più o meno gravi; quando ci troviamo in
studi di dottori che diventano comitati di Liberazione, e poi
appaiono le parole di un Paul che è Paul Valery e poi anche un
«certo Paul» che fa sport; quando un personaggio che compare cinque
o sei volte può venir chiamato Francesco e aver parlato di poesia e
rivoluzione e corso tra le pagine le pericolose spiagge e le pinete
di un tempo che non si può calcolare come composto da cinquanta o
sessanta o settanta anni fa, ma come se nella sua rottura lo fosse da
secoli, e assomigliare a uno scrittore o essere chiamato Giorgio o
Guido, Elio, o che ne so, il vescovo diventare un Cardinale e il
dottore che ha ancora il fucile della Resistenza sparire; o i
personaggi venire chiamati, come talvolta capita in qualche
invenzione della narrativa italiana, Palmiro o Italo e aver fatto i
partigiani e da ragazzi essere scappati dalla quota del costone alla
ridacciana riviera; perché farci raccontare da Muratore di corridoi
all’ombra del Vaticano e preti e perpetue, e ci mancava poco che
non si arrivasse al papa, sempre con quell’occhio alla malinconia
di un Gabriele che « … imparò a farsi dottore ne la nuova
grammatica delle potentissime parole…»?
Per la lingua, mi ripeto,
che è il motivo per cui lessi una pagina dell’opera letteraria e
andai avanti, a volte tornando per capire, per poi scrivere, e prima
pensare, che là dentro, in quella lingua che poteva parlare di
estremità carnali inaccettabili, dette o compiute o solo immaginate,
o di cavoli in Estremadura o pontili fradici lungo un canale del
Nord, e persino di una scheggia ligure e remota nel tempo di una
soffitta dell’impero, secondo me c’era semplicemente quella curva
imperfetta delle parole, che non di rado, che è cosa rara,
scintillava come un cielo di settembre.
Certo, purtroppo, non
troverò mai – nel senso che finora non l’ho trovata mai nelle
due tre lingue in cui leggo – la prosa dell’opera letteraria di
Francesco Biamonti, quello vero, intendo, non «il Grande scrittore»
inventato, quello vissuto e che ci ha regalato capolavori. Però a
volte, come nel caso di Lorenzo Muratore ed Elio Lanteri, ci sono
riverberi che non si possono perdere, «luminoso spettacolo lungo lo
stradone…» i cui «arcaismi si rivelano fiammanti neologismi,
com’è stato osservato da uno dei pochi, autorevoli, lettori», ci
dice il curatore. Insomma, forse, per farla dire a Gabriele: «Quelle
cose per me sono un mondo d’echi lontani, la baldoria che resta
d’una notte».
Il libro di Muratore è
ordinabile qui: http://www.nerosubianco-cn.com/
Lorenzo Muratore è nato a Ventimiglia nel 1941, scrive da tutta la vita, ma come i suoi conterranei Francesco Biamonti ed Elio Lanteri ha iniziato a pubblicare qualche pagina solo negli anni della maturità: nell’antologia La mela di Newton (Gallino, 1998), in Over-Age. Apocalittici e Disappropriati (Transeuropa, 2009), dove è uscito il racconto Madagascar, con la plaquette Pitture nere e altre immagini. Studio sui romanzi di Marino Magliani (Eumeswil Arti Grafiche, 2010), illustrata da Rita Elvira Muratore.