Raffaele K. Salinari
Sandokan e gli Assassini
«Sandokan, udendo quel grido che era echeggiato in direzione del fiumicello, si era slanciato verso quella parte con velocità fulminea, seguito tosto da Yanez e da Tremal-Naik… Presso la riva cinque uomini semi-nudi, colla testa coperta da un piccolo turbante giallo, stavano trascinando fra le erbe, mediante una corda, qualche cosa che si dibatteva e che Sandokan sul colpo non poté comprendere che cosa potesse essere, essendo i kalam piuttosto alti. Avendo però poco prima udito quel grido: «Aiuto, mi strozzano!», era più probabile che si trattasse d’una povera creatura umana che d’un capo di selvaggina preso al laccio. Senza esitare un solo istante, il coraggioso pirata, con un ultimo balzo, si scagliò verso quegli uomini, gridando con voce minacciosa: «Fermi, bricconi, o vi fucilo come cani rabbiosi!». I cinque indiani, vedendo piombarsi addosso quello sconosciuto, avevano abbandonata precipitosamente la corda levando dalla fascia che cingeva i loro fianchi dei lunghi coltelli simili a pugnali e colla lama un po’ curva. Senza pronunciare una parola, con una mossa fulminea si erano disposti in semicerchio come se avessero avuto l’intenzione di chiudervi dentro Sandokan, poi uno di loro aveva svolto rapidamente una specie di fazzoletto nero, lungo un buon metro, che pareva avesse ad una delle estremità una palla od un sasso, facendolo volteggiare in aria. Sandokan non era certamente l’uomo da lasciarsi accerchiare, né intimorire. Con un salto si sottrasse a quella pericolosa manovra, puntò la carabina e fece fuoco sull’indiano del fazzoletto, gridando contemporaneamente: «A me, Yanez!». Il thug, colpito in pieno petto, allargò le braccia e cadde col viso contro terra senza mandare un grido».
Così nel XVI capitolo delle Due Tigri, Emilio Salgari descrive uno dei tanti incontri tra la Tigre della Malesia, i suoi amici più fidati Yanez e Tremal-Naik, e la terribile setta dei Thug, gli strangolatori che adoravano la Dea Kalì. Se, infatti, il tracotante Sir Brooke era il suo più potente nemico, il capo dei Thug, Suyodhana, era certo il più infido. La lotta tra Sandokan e i Thug era ancora più acerrima poiché Tremal-Naik stesso era stato uno di loro. La saga inizia infatti ben prima, con I misteri della giungla nera, pubblicato a puntate su di un quotidiano nel 1887 col titolo originario Gli strangolatori del Gange.
I Thug, storia e leggenda
E allora, come in tutte le fantastiche storie del marinaio d’acqua dolce Salgari, che si era spinto solo poche miglia oltre la sua modesta casa natale, ma la cui immaginazione travalicava gli oceani ed i continenti, il sottofondo storico della presenza di questa leggendaria setta di assassini consacrati alla Dea Kalì è storicamente accertata. E dunque, chi erano, come e perché adoravano la loro Dea?
Il primo dato nel quale situare ciò che crediamo di sapere su di loro, è che al tempo delle prime cronache apparse in Europa sulla loro presenza, l’India era un dominio inglese. Questo significa che ogni notizia era, se non falsata o strumentalizzata al fine di aumentare la presa dell’Impero sui suoi vari possedimenti, certo filtrata dalla sensibilità britannica. Chi per primo fece conoscere i Thug al grande pubblico fu Philip Meadows Taylor, ufficiale dell’esercito e poi della polizia di Hyderabad, nell’India centrale. In questa funzione indagò su misteriosi delitti che potevano essere attribuiti ai Thug. In quelle occasioni, in base alle confessioni raccolte, scrisse un romanzo storico dal titolo Confession of a Thug (1839) in cui mischiò abilmente realtà storica e romanzata. Meadows combina dunque la sua esperienza di poliziotto con quella di un suo collega d’armi, William Henry Sleeman, che aveva dato la caccia alla setta e anche ipotizzato come essi fossero i lontani discendenti del misterioso esercito dei Sagartii, citati negli scritti di Erodoto, che si battevano armati di un laccio di cuoio e di un pugnale, o gli epigono della setta degli Assassini, dalla parola Hascisc, di origine musulmana. L’uso di questa droga era, infatti, una delle armi comuni nell’attività degli strangolatori sacri. In realtà il nome Thug è un adattamento inglese dall’hindi Thag che significa «ingannatore», poiché gli appartenenti alla setta si chiamavano Phansigar che in un dialetto indù significa «strangolatori».
Grazie alle gesta di Sleeman, narrano le cronache dell’epoca, ben tremila Thug vennero catturati, molti altri giustiziati o deportati per i lavori forzati nelle isole Andamane. La descrizione dei delitti, che i britannici definivano «efferati», naturalmente mettendo da parte le loro stragi coloniali, rafforza l’agiografia di un India selvaggia e morbosa, da acculturare. Nel Guinness dei primati di quegli anni entra addirittura un Thug di nome Buhram, detentore di un record sinistro: avrebbe strangolato personalmente ben 931 vittime. Comincia così la loro lunga presenza letteraria: un Thug compare nel romanzo L’ebreo errante di Eugène Sue, Mark Twain ricorda di averne sentito parlare nel suo diario di viaggio a Varanasi. Anche la filmologia contemporanea non li disdegna: nel film The Deceivers del 1988 (Sul filo dell’inganno in italiano), Pierce Brosnan impersona una sorta di Sleeman impegnato in una tenebrosa avventura all’interno della setta, per non parlare di Indiana Jones in lotta contro una confraternita che molto li ricorda, ne Il tempio maledetto. Gli eredi, più o meno diretti, dei loro delitti rituali arrivano sino ai giorni nostri, basti pensare che alcuni criminali indiani come Koose Muniswamy Veerappan, serial killer con 120 morti sulla coscienza e numerosi rapimenti a scopo di estorsione, si rifaceva a loro. Partendo da ciò che sappiamo, possiamo dire che essi sono stati una setta certo di assassini che contava su un numero imprecisato, ma significativo, di seguaci, ma anche di simpatizzanti. L’appartenenza era segreta e gli adepti erano spesso persone che conducevano una vita comune. E dunque quali erano le origini del loro culto?
Il mito della fondazione
Secondo il loro mito fondativo la Dea, all’inizio di questo kalpa, uno dei grandi periodi cosmici, dovette lottare contro il demone Mahishasura, generato da Brahma stesso. Grazie ad intense preghiere, infatti, Mahishasura ebbe da lui la grazia di non poter essere sconfitto da alcun uomo o essere celeste. In virtù di questo potere, attaccò e sconfisse anche la sacra Trimurti, Brahma, Visnù e Shiva, scatenando il terrore sulla terra, in cielo e negli inferi. Dato che nessun uomo poteva sconfiggerlo poiché dalle gocce del suo sangue nascevano sempre nuovi mostri, fu generata Durga, letteralmente «colei che difficilmente si può avvicinare», una delle cui ipostasi è appunto Kalì.
Durante la battaglia finale la Dea, stanca, si sedette e si asciugò la fronte con un lembo di stoffa. Poi creò dal suo sudore due uomini affidando loro il lembo di stoffa con il quale si era detersa perché, servendosi di esso, l’aiutassero nella battaglia: strangolando i demoni con la stoffa non si sarebbe più sparso il loro sangue e così non ne sarebbero nati altri. Alla fine della contesa, la Dea ristabilito l’ordine cosmico, ordina ai due strangolatori di conservare per sempre il laccio usato e di trasmetterlo ai discendenti, i quali avrebbero così potuto strangolare tutti i nemici, eccetto le donne, i bambini, gli asceti, i musici e i maestri di danza. Essi potevano, anzi dovevano, uccidere per diritto divino.
Il Tantra della mano sinistra
Questo mito ci porta alla radice del loro credo religioso, che rientra in quel vasto ambito della spiritualità indiana che prende il nome di Tantra, ed in particolare quello della «via della mano sinistra». Le uccisioni perpetrate dai Thug avevano dunque lo scopo di ingraziarsi la Dea Kalì, guadagnando così meriti per sfuggire all’eterna ruota del Samsara, il ciclo delle reincarnazioni, e ciò non solo per loro stessi, ma anche per le loro vittime. Ciò però era possibile solo se queste venivano uccise secondo uno specifico rituale, che nel caso dei Thug, come vedremo, riprende il mito fondatore. Per non andare troppo lontano, basta ricordare cosa avviene nella messa cristiana con il momento centrale della Comunione, che richiama lo stesso principio. Nello specifico il loro rito sacrificale veniva chiamato Thagi, e prevedeva l’uccisione per strangolamento; era importante che avvenisse senza spargimento di sangue, proprio nel rispetto del mitologema.
E dunque a cosa si riferisce il Tantra praticato dai Thug? In esso si distinguono due percorsi principali: il dakshinachara (o samayachara), il «sentiero della mano destra», e il vamachara (o vama marga), o «sentiero della mano sinistra»; purtroppo questi termini, come tanti altri, sono stati travisati ed abusati dagli occultisti occidentali sino a farli diventare sinonimi di magia bianca o nera, satanismo e via enumerando, incluse le propaggini new age della cosiddetta Caos Magic e simili.
Tornando al Tantra, che significa letteralmente «tessitura», va detto che il tantrika, colui il quale segue le pratiche spirituali (sadhana) tantriche, pur nella molteplicità di espressioni peraltro non riconducibili alla tradizione Vedica, ricerca comunque, attraverso rituali fondati sull’unione dei principi maschile e femminile (Shiva e Shakti), una particolare via verso la Liberazione (moksa). Ciò detto, non è questa la sede per parlare di un cammino così articolato, profondo e pieno di sfumature anche in apparente contraddizione tra loro; per questo rinviamo ai testi specializzati, ed in particolare alla biografia dell’Aghori – colui che pratica la via dell’Aghora – Vimalananda, di R. E. Svoboda.
Restando in tema, vale la pena soffermarsi su alcuni aspetti dell’Aghora, proprio perché può illuminare la spiritualità dei Thug: è un cammino di purificazione e ricerca del ricongiungimento permanente con la divinità, in questo caso ipostasi della Shakti nella sua specifica forma, che ha per scopo la Liberazione (moksa), dal giogo dell’Ego e dell’illusione (maya). Si tratta di una strada classicamente iniziatico esoterica che si serve di pratiche rituali specifiche molto complesse, e oltremodo pericolose anche per la sanità mentale e fisica dei suoi adepti; non a caso viene anche definita la via delle «acque corrosive», ad indicare una corrispondenza col percorso alchemico trasmutativo.
In sanscrito il termine Ghora significa «tenebra», «oscurità», qui intese come mancanza di illuminazione, come ostacolo alla realizzazione. L’aggiunta della A privativa, da cui deriva anche l’alfa privativa greca, porta al termine Aghora, ossia mancanza di Oscurità intesa classicamente come illuminazione, liberazione dal giogo delle tenebre dell’ignoranza (avidya), e dunque alla Luce come Verità dello spirito. L’ignoranza è la causa principale della permanenza degli enti nel samsara, la ruota delle reincarnazioni, e del dispiegarsi della duhkha, la sofferenza. L’ignoranza implica un disconoscimento della natura illusoria dei fenomeni, e questo comporta all’accettazione di questo inganno come normalità.
Aghora è anche una delle cinque facce di Shiva, quella che indica la distruzione/rigenerazione, legata all’elemento fuoco ed al senso della vista. L’Aghori è dunque un sadhu, un asceta che ha intrapreso la ricerca della verità suprema; ma ciò che lo contraddistingue è la specifica condotta di vita. Il suo luogo elettivo, potremmo dire il suo tempio, infatti, sono i grandi Ghat lungo le sponde del sacro fiume Gange, la Ganga in hindi, dunque una vera e propria divinità femminile. In particolare Varanasi, la città di Shiva, dove troviamo il Manikarnika Ghat, o Mahasmashan, il più grande campo di cremazione della megalopoli e, di conseguenza, uno dei luoghi più sacri di tutta l’India. Per la visione induista poter bruciare qui il proprio cadavere giunti alla fine dell’effimera esistenza del corpo fisico, significa onorare un principio sacro. In questo luogo saturo di morte, ma anche di intensa spiritualità, dove non esistono più distinzioni di genere, di censo o di casta, dove tutto è cosparso della cenere che si deposita dal denso fumo delle cremazioni, è possibile trovare il sadhu Aghori in meditazione accanto alla pira funeraria.
Infine, evidentemente la Dea che gli Aghori venerano, come d’altronde la loro variante Thug, è Kali, l’«oscura», consorte terribile di Shiva il distruttore: la Dea simboleggia dunque il carattere oscuro ed al tempo stesso trasformatore del Dio. Qui, allora, emerge un aspetto di grande attualità del tantrismo, un approccio cioè che tiene in considerazione, oltre alla Liberazione, anche il godimento del mondo: non c’è mukti (liberazione) senza bhukti (godimento); il altre parole il mondo non è solo illusione (maya), ma potenza trasformativa, o meglio l’illusione se orientata, diventa potenza trasformativa. E Kalì è così nera, più nera delle notte, perché così essendo fa brillare l’Oscurità intorno a sé. La figura di Kalì è, bene precisarlo, non ha nulla a che vedere col kali–yuga, l’ultimo dei quattro yuga, o periodi dell’attuale kalpa, il ciclo cosmico detto anche «giorno di Brahma», di questa Manifestazione.
Baudelaire e I fiori del male
Vogliamo terminare questa breve storia dei Thug con una poesia di Baudelaire in cui, con la sua sensibilità di poeta certo «alla sinistra di Dio», egli sembra avere accesso alla visione della Dea attraverso le stesse pratiche: «Nei sotterranei di un’insondabile tristezza, Dove il destino mi ha relegato; Dove non entra mai un raggio rosa e lieto; Dove sto solo con la Notte, ospite tetra. Sono come un pittore che un Dio pieno di scherno, Condanna a dipingere sulle tenebre, O come un cuoco di funebri appetiti, Faccio bollire e poi mangio il mio cuore. Ma per un attimo brilla, si allunga e si espande, Uno spettro di grazia e di splendore. Dal suo sognante portamento orientale, Quando raggiunge il suo culmine, Riconosco la mia bella visitatrice: È lei, nera eppure luminosa».
Il Manifesto/Alias – 23 gennaio 2021