Guido Seborga e il Surrealismo, due delle sezioni portanti di Vento largo, fuse in questo testo in cui lo scrittore magistralmente analizza il significato dell'opera di Antonin Artaud che fra i primi aveva già alla fine degli anni Quaranta fatto conoscere in Italia.
Guido Seborga
Artaud, profeta del vuoto
Esistono scrittori molto conosciuti eppure non ancora abbastanza divulgati anche se hanno ormai un posto sicuro nella storia della letteratura. Antonin Artaud era già notissimo a Parigi quando lo conobbi, negli anni del dopoguerra. E oggi i giovani delle avanguardie internazionali (negli Stati Uniti, nel Nord) lo leggono come un loro maestro; e che lo possa a suo modo essere non ne dubitiamo; segnalammo la sua presenza già diciotto anni fa...
Le sue aperture infrante, il suo vivere come in stato di follia intima e profonda non possono certo piacere agli idolatri del tecnicismo di oggi, la tecnica che diventa quasi padrona della scienza e dell'uomo. Ma nel frantumarsi dell'uomo, Artaud acquista nuovamente un suo significato, la sua rivolta, spogliata da non poche suggestioni, diventa significante nel male stesso di vivere.
E ci accorgiamo anche come certi testi (Jacob, Felipe, Sbarbaro, Campana, per fare qualche esempio) siano umanamente assai più rivoltati e forti e duraturi di certi giochi tecnico-linguistici che fanno moda oggi. Ma Artaud nella sua segreta intelaiatura intellettuale, nella sua parola secca e concisa, scarnita all'osso, nella sua parola di sangue, tendeva spasmodicamente alla rivelazione, era di nuovo un veggente, dietro a lui indubbiamente riapparivano le grandi fidure di Lautreamont e di Rimbaud.
Artaud scrisse di teatro e per il teatro (Le Théatre et son double), il teatro che amava come forma di vita ossessiva a immagini violente trasposte sulla scena e i suoi gridi s'alternavano a suoni d'animali che eseguiva perfettamente con le sue corde vocali sino al suono del tam-tam; poi denunciava, con polemiche affilate, la società corruttrice dei costumi e spesso questo avveniva al "Vieux Colombier" come quando il 13 gennaio 1947 presentò il suo "Teatro della Crudeltà", dove indubbiamente ci fu molto da imparare, e ormai pochi autori anche se rappresentatissimi ancora reggevano, tra questi sicuramente Pirandello e Toller.
Polemiche e scandali mai soffocati nascevano nel clima liberissimo, dopo tante chiusure fasciste, di Parigi che ebbe ancora qualche anno di vita agitata e forte. Se un testo di Artaud veniva combattuto, gli scrittori più in vista diventavano solidali, Gide, Eluard, Breton, Cocteau, Nadeau, Quenau lo difendevano con leale decisione.
Ricordo quando Antonin appariva col suo volto agitato,i suoi occhi inquieti e profondi, i lunghi capelli disordinati. Adamov e Blin gli erano spesso vicini, non era ancora nato il sottoprodotto Ionesco, rileggevo il suo mirabile Van Gogh, il suo romanzo Héliogabale ou l'anarchiste couronné e in prosa e in poesia i suo versi franti e mutevoli nel ritmo scatenato e rotto, certi libretti che uscivano in piccole edizioni come: Pour en finir avec le jugement de dieu, oppure: Lettre contre la Cabbale, dove erano discusse in dialettica estrema e sino in fondo risentita nella realtà non soltanto la vita e la società ma soprattutto le origini stesse dell'essere, la sua rivelazione profetica tra la nonvita e la morte.
Artaud aveva stabilito non soltanto un distacco spirituale (si c'è anche questo), ma aveva in modo particolarmente drammatico denunciato l'impossibilità "organica" di essere la vita, la totale mancanza d'adesione alle origini stesse della vita, direi l'impossibilità di realmente nascere senza essere nello stesso attimo annoiati.
"Da tempo - scrisse - ho sentito il vuoto, ma mi sono rifiutato di gettarmi nel vuoto, fui vile come tutti e tutto, credevo di rifiutare soltanto il mondo, so che non potevo rifiutare quello che non è, rifiutavo il vuoto, è di questo di cui maggiormente soffro".
Ci troviamo di fronte alla sua verità smarrita e dolorosa,per lui neppure più l'innocenza ha un senso. L'innocenza che i migliori simbolisti, surrealisti, gli autentici realisti immuni dai giochi neorealisti e populisti, avevano in animo come una specie di arma bianca contro le mistificazioni della società.
Ma Artaud alzò una negazione ancora più fonda della maledizione, un'agonia sino alla sua morte più o meno da suicida: "Le parole vanno in putrefazione al richiamo del cervello". E nella volontà di non essere integrati, già allora sull'orlo della sconfitta, rispondevamo: "La rivolta è più valida del suicidio, della morte".
(Da: Diogene, n.47, ottobre 1966)