TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 6 marzo 2010

Marino Magliani, La vita delle mosche e di alcune parole




Vento largo è un piccolo blog, con neanche quattro mesi di vita e nessuna pretesa di fare grandi cose. E' con emozione e orgoglio che da oggi annoveriamo fra i nostri collaboratori Marino Magliani una delle voci più interessanti dell'attuale panorama letterario italiano. Grazie di cuore, Marino. Un abbraccio.

Marino Magliani

La vita delle mosche e di alcune parole



Al mio paese, la morte delle mosche dipendeva da cosa faceva la gente. Se quel giorno le donne decidevano di prendere il té da Rafelina, ecco che a morire erano le mosche di casa di Rafelina. Non importa se le mosche erano nelle stanze o in sala o nel bagno, le mosche prima o poi si facevano un giro anche in cucina e allora Rafelina e le amiche le uccidevano. In cucina. Nella cucina di Rafelina, o di Nettina, o di Caterina, di Maddalin. Ma in cucina, perché al mio paese i padroni di casa facevano sedere gli ospiti in cucina.
Mia madre era la donna piú buona che io abbia mai conosciuto, ma era una formidabile sterminatrice di mosche. Aveva imparato da sua zia. Sua zia Tillin, che chiamavo anch'io zia, ti parlava, seduta in cucina, e mentre diceva una cosa studiava le mosche. Non una, ma la posizione di tutte, il volo che facevano, se avevano scoperto del cibo, una goccia d'acqua, lo zucchero. Quando se ne posava una sul tavolo (era di legno con una tovaglia verdolina) lei preparava la mano sul piano, il palmo mezzo aperto e immobile, e seguitava a parlare. A un certo punto succedeva qualcosa e allora sapevi che la mosca era nel suo pugno. La catturava con un lavoro di sincronia, la mano si muoveva a rastrello e subito le quattro dita si chiudevano, ma poi la mosca veniva uccisa solo dal mignolo, schiacciata contro il palmo della mano, non premuta ma trascinata dal mignolo per un paio di centimetri contro la pelle dura del palmo della mano, finché il tatto non portava alla zia notizie di strutture compresse e devastate. Solo allora la mosca moriva. E chi stava di fronte alla zia lo capiva dai suoi occhi che cercavano nell'aria altre mosche.
Non facevo troppo caso alle mosche, sapevo che erano da uccidere se lo faceva anche mia madre, però mi era chiaro quanta forza ci fosse in quelle bestiole. L'unico modo per ucciderle senza esagerare, senza calpesterale ad esempio, era esattamente quello, schiacciarle col mignolo e sentirne la fine. Sulla loro solidità avevo fatto delle prove. A forza di studiare i movimenti della zia Tillin e di esercitarmi ero riuscito a prendere qualche mosca, e un paio, al posto di schiacciarle, l'avevo sbattute violentemente al suolo. Come se un gigante alto un migliaio di metri e con delle mani grosse come un camion gettasse un essere umano dall'altezza di 500 metri su un pavimento. Entrambe le mosche avevano accusato il colpo ed erano rimaste immobili una mezz'ora.


Poi, prima una e poi l'altra, s'erano rimesse in volo. In certe cucine di gente molto meno veloce della zia, pendevano dai soffitti delle canne spalmate di vischio. Le mosche prima o poi toccano dappertutto. La zia Tillin era italiana ma viveva in Francia da molti anni. Io immaginavo la Francia un posto incredibile, pieno di mosche, dove ci si allena continuamente, come a uscire dalla fondina il revolver nel West. La zia Tillin non parlava neanche più correttamente il dialetto della valle, lo mischiava a un patois. Veniva d'estate e a tavola, tra un mosca e l'altra, raccontava di grandi cose che succedevano in Francia, di profumi straordinari, di camicie, di cibi. Se mia madre mi dava la marmellata lei la chiamava confiture e diceva che la confiture francese era una cosa straordinaria. Un giorno avevo bevuto il latte da lei e avevo guardato come lo faceva. Acqua bollita e una spremuta di roba bianca uscita da un tubetto come quello di pomata che usava mia madre quando le facevano male le ginocchia. La zia lo chiamò lait condensait e mi guardò seria. La France.
Durante l'inverno la zia non veniva. Mosche d'inverno non ce n'erano, ne trovavo qualcuna rimbambita, attaccata ai vetri che ci davo una bedinata come alle biglie e la facevo strammazzare lontano. D'inverno le mosche si trovavano solo nelle stalle, il bue e la mula si spazzavano il sedere a colpi di coda, senza mai arrendersi. Nelle stalle c'erano anche mosche bellissime, dai colori azzurrini o verdi. Nella mia mente associavo questi colori alla presenza di buse, immagini da mulattiera, grande raduno di mosche verdoline sugli escrementi che lasciavano cadere il bue e la mula. Esistevano delle mosche poi, molto piú grandi del normale che chiamavamo musche da bo, mosche da bue. Non so perché le chiamavano così, nelle stalle non le avevo mai viste. Vivevano volentieri nei torrenti e mordevano altrettanto volentieri, attaccandosi alla pelle, da cui, lentissime e ghiotte di sangue, non si riuscivano più a staccare. La mano aperta le trovava con la proboscide nel capillare e le colpiva stordendole e facendole cadere a bagno. Erano anch'esse mosche con sette vite, e se non cadevano nell'acqua che la corrente se le portava via, restavano sulla superficie qualche istante e poi volavano via col gusto del sangue.
Non era neanche possibile annegarle, ci avevo provato: le tenevo sotto tre minuti e quando le liberavo schizzavano fuori dall'acqua e volavano via imbestialite. Una volta ridotte all'incoscienza, per saperle davvero morte l'unica era sfilar loro la testa. Sulla superficie dell'acqua vivevano anche le cravemutte, le capremute, specie di bestioline di cui non conosco il nome in italiano, innocue e lunghe, con quattro zampette anch'esse lunghe, le madri che portavano in groppa i piccoli. Erano le cose che esistevano solo in dialetto, dure a morire che neanche gettate con la forza di un gigante da una di quelle montagne che guardavano a Fransa sarebbero scomparse.

Foto di Yannick Moore

http://www.alibionline.it/


Marino Magliani (Dolcedo, Imperia, 1960), scrittore e traduttore, ha soggiornato a lungo in Spagna e in America Latina prima di stabilirsi in Olanda, dove attualmente vive e lavora.
Ha pubblicato: L'estate dopo Marengo (Philobiblon 2003), Quattro giorni per non morire (Sironi 2006), Il collezionista di tempo (Sironi 2007), Quella notte a Dolcedo (Longanesi 2008), La tana degli alberibelli (Longanesi 2009) e, con Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa 2010). Con La tana degli alberibelli ha vinto la prima edizione del Premio Frontiere-Biamonti "Pagine di Liguria".