TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 6 luglio 2011

Marino Magliani, Io e l'Argentina



In attesa del libro a cui Marino Magliani sta lavorando, ambientato in un'Amsterdam vista con gli occhi del ciclista, riparliamo de "La spiaggia dei cani romantici", riprendendo questa bella intervista apparsa sul sito "L'Argentina".

Marino Magliani

Io e l'Argentina

Intervista di Alberto Prunetti





Un giovane italiano che arriva in Argentina nella fase finale della dittatura militare. Un’esperienza che spesso ho associato alla figura di Luca Prodan, il leggendario cantante tano dei Sumo. Eppure el pelado non è stato l’unico a fare un’esperienza per tanti aspetti estrema e paradossale (non priva di rischi, soprattutto per chi portava le stigmate controculturali quali capelli lunghi, attitudine rockera-punk, estremismo politico e esistenziale). Bene, uno che è andato in Argentina negli anni della dittatura è oggi uno scrittore piuttosto noto, si chiama Marino Magliani, ha appena scritto “La spiaggia dei cani romantici” (Instar Libri, 2011), un gran bel libro ambientato tra più paesi (Argentina, Italia, Spagna e Olanda) e guarda caso ha vissuto in ognuno dei paesi appena citati. Quindi giro la parola a Marino e gli chiedo: cosa hai provato quando sei arrivato in Argentina durante l’ultima dittatura militare?

_Marino Magliani: Eravamo un gruppetto di ragazzi, tutti argentini tranne io, vivevamo in Spagna, di notte, lavoravamo nelle discoteche della Costa Brava. Vivevamo praticamente d’estate, da maggio a fine settembre in Costa Brava, e poi nelle Canarie, dove facevamo lo stesso lavoro, e potendo neanche quello. Nell’inverno del 1982, questi ragazzi, di cui tre o quattro erano di Lincoln e gli altri di Carlos Paz e La Plata, mi invitarono a viaggiare con loro. L’aereo atterrò a Santiago del Cile, cruzamos los Andes e ci fermammo un paio di giorni a Mendoza, poi finimmo a Lincoln e lì, io, rimasi quattro o cinque mesi. E’ come se un giapponese che viene in Europa 6 mesi ne trascorre 5 a Locate Triulzi. A Lincoln la dittatura non si era manifestata, intendo così con tutta la sua violenza come a Baires o a Cordoba o in altre città. Non che la gente vivesse in una bolla, non intendo questo, sarebbe un insulto nei confronti di chi anche da quelle parti patì l’oppressione. A Baires, invece, dove peraltro rimasi poco, e a Carlos paz, dove avevo e ho un grande amico, si respirava un’altr’aria.

A.P.:_L’identità del tano, dell’italiano radicato in Argentina, è mutata molto negli ultimi decenni. Eppere i tano rimangono, a partire dai soprannomi, una costante argentina, anche se l’italiano lo parlano sempre meno. Tu ti sei confrontato con questa dimensione dell’identità tana?

M.M.: Durante il mio soggiorno in Spagna, vivendo praticamente in quella che era una comunità argentina, avevo imparato a parlare come loro, a usare il che e i gerghi in Lunfardo, e i catalani mi scambiavano per un argentino. La cosa mi inorgogliva, mi sentivo un ibrido, per non dire un << raro>>, non ero un argentino, e nemmeno italiano, ma un tano, e tano gli amici mi ci chiamavano, tant’è che ancora oggi a distanza di 30 anni, se per la strada qualcuno chiamasse tano mi volterei.

_A.P.: Di solito molti visitatori si innamorano di Buenos Aires, perché è una capitale frenetica. Tu perché sei finito in provincia?

M.M.: In realtà è perché avevo finito i soldi e a Lincoln ero mantenuto dagli amici. Dopo 3 mesi che vivevo in casa di uno e dell’altro, una sera il padre di uno dei chicos mi disse che mi dava un po’ di soldi così potevo vedere Mar del Plata o Bariloche. Era, credo, un mezzo tentativo per liberarsi di me, visto che vivevo in casa sua da settimane. Il buon padre del mio ospite, non fece i conti con il figlio che era un giocatore di timba incallito, e quella sera stessa, sapendo che suo padre mi aveva dato dei soldi ( suo padre era benestante ) mi convinse a prestargli qualcosa che me l’avrebbe certamente restituito nel giro di qualche ora. In breve perse tutto ciò che avevo e il giorno dopo ero ancora a Lincoln. Il padre non si rassegnò e la seconda volta mi diede dei soldi e mi accompagnò lui stesso alla stazione dei micros e mi comprò un pasaje per Carlos Paz.

_A.P.:Immagino che questa tua esperienza “provinciale” faccia da sfondo alla scelta di ambientare i primi capitoli del tuo romanzo ….. Ci sono altre esperienze autobiografiche che sono tracimate nel romanzo o il resto è tutta finzione?

_M.M.: Ho esagerato tutto nel romanzo, come un argentino, se me fue la mano. La spiaggia dei cani romantici racconta di ragazzi un po’ estremi, disperati e sognatori, e le cose che fanno le ho fatte, o le ho viste fare, diciamo così, ma con molta moderazione. I paesaggi sono certamente fedeli e qualche personaggio pure, ma mischiati, formano una specie di mosaico.

_A.P.: Quante altre volte sei tornato in Argentina? Adesso hai contatti (editoriali, culturali, politici o di amicizia) con argentini?

_M.M.: Non sono mai più tornato in Argentina, e anche da quando ho lasciato la Costa Brava, nel 1988, non sono mai più tornato da quelle parti. Ma conservo grandi ricordi e mantengo i contatti con alcune persone che ogni tanto mi aiutano a ri-comporre la mappatura dei miei romanzi e dei racconti latini. Culturalmente, ho qualche carteggio ogni tanto con i curatori o gli autori di libri che ho tradotto. Certo sarebbe ora di tornarci.

(Da: http://www.largentina.org)