TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 2 maggio 2012

Andrea Costa e il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna




Giorgio Amico

Alle origini del socialismo italiano
2. Andrea Costa e il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna



Andrea Costa e la lettera “Ai miei amici di Romagna”


Non è un caso che i primi tentativi di uscire dal vicolo cieco in cui il movimento rivoluzionario era venuto a trovarsi ad un decennio dall’unificazione si manifestino proprio a Milano, cuore di quell’area padana in cui un proletariato moderno era in più avanzata fase di formazione. Nel capoluogo lombardo, alla fine del 1876, il gruppo di intellettuali radicali che aveva dato vita al giornale La Plebe si costituisce in Federazione dell’Alta Italia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, rompendo di fatto con l’anarchismo classico e la sua teorizzazione del’azione diretta e avvicinandosi in modo significativo al marxismo. L’anno successivo, nel corso del II Congresso della Federazione, ormai rappresentativa di numerosi circoli operai in Lombardia, Piemonte e Veneto, Osvaldo Gnocchi Viani per la prima volta ipotizza la possibilità che il socialismo possa essere perseguito “con tutti i mezzi” a partire da quelli politici, mentre Enrico Bignami dà pubblica lettura di una lettera ricevuta da Engels sulle recenti elezioni tedesche. Parallelamente va approfondendosi la crisi dell’anarchismo, largamento screditato dai ripetuti insuccessi dei tentativi insurrezionali lanciati senza alcuna preparazione e senza altra prospettiva che la devozione alla causa di pochi coraggiosi.

Ad aprile del 1878 si tiene clandestinamente a Pisa il quarto congresso della Federazione italiana dell’Internazionale al quale prendono parte tredici internazionalisti che, ribadita la fede nel “non lontano” giorno della rivoluzione, polemizzano aspramente col socialismo “legale, autoritario, pacifico” de La Plebe. Nonostante la virulenza dei toni, si tratta delle ultime manifestazioni di un movimento ormai in declino. La strada del mutamento era aperta e le novità non si sarebbero fatte attendere all’interno dello stesso campo anarchico. Nell’agosto del 1879 proprio su La Plebe Andrea Costa, il più promettente e conosciuto dei giovani esponenti libertari, invita tramite una lettera aperta gli internazionalisti, come si definivano allora gli aderenti italiani all’AIL, ad operare un profondo rinnovamento tattico, rompendo con la pratica fino ad allora seguita della “propaganda per mezzo dei fatti”, cioè di un insurrezionalismo rivelatosi del tutto incapace di offrire uno sbocco concreto alla aspirazione rivoluzionaria al cambiamento propria di un proletariato sempre più combattivo.

Nella sua lettera Costa riconosce la legittimità di tale linea che affondava le proprie radici direttamente nel patrimonio rivoluzionario risorgimentale, ma sottolinea con forza che tale forma d’azione si era rivelata sterile, incapace di radicare stabilmente i rivoluzionari all’interno del proletariato. Senza rinnegare le esperienze precedenti, occorre dunque ripensare radicalmente le modalità stesse dell’azione politica rivoluzionaria, dando adeguato spazio a quel capillare e organizzato lavoro di propaganda, da tutti ritenuto necessario, ma almeno fino a quel momento totalmente trascurato sul piano pratico. Più di tutto bisogna in ogni modo evitare il rischio crescente dell’isolamento settario, affrontando in modo spregiudicato il problema di come porsi in relazione dialettica con gli strati profondi del proletariato e di come più efficacemente coglierne le aspirazioni per tradurle in un progetto politico coerente e chiaro.
Per Costa è giunto ormai il momento di abbandonare la tradizionale concezione della rivoluzione come colpo di mano risolutore ad opera di una minoranza illuminata e di passare dall’azione cospirativa ad un lavoro politico aperto e di lungo periodo della classe operaia. Coerentemente con questa nuova prospettiva i rivoluzionari debbono porsi il problema della costruzione di un nuovo strumento d’azione. Quello che occorre è un Partito socialista rivoluzionario che sappia nelle mutate condizioni politiche e sociali continuare l’opera iniziata nel decennio precedente dai piccoli nuclei semisegreti dell’Alleanza Internazionale dei Lavoratori, ormai incapaci di un qualunque sviluppo.



La nascita del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna

Coerentemente con le tesi esposte nella lettera di Andrea Costa nell’aprile del 1880 si tiene a Bologna un congresso dei socialisti romagnoli che, dopo aver auspicato la formazione di un partito socialista operante a livello nazionale e ribadita la scelta rivoluzionaria, dichiara la necessità per gli internazionalisti di partecipare sistematicamente alle agitazioni operaie. Si tratta della pratica applicazione delle idee costiane alla nuova situazione che si era andata creando in Romagna e che si caratterizza per un’impetuosa ascesa delle lotte rivendicative. In quegli anni, infatti, grazie soprattutto all’intervento diretto dello Stato si era formato nella regione un consistente proletariato impegnato nelle grandiose opere di bonifica delle paludi che aveva via via assorbito artigiani rovinati, ex-mezzadri espulsi dai fondi e piccoli proprietari che avevano perso la terra a causa della persistente crisi che travagliava l’agricoltura italiana come conseguenza diretta dell’apertura al mercato. Una massa di proletari, sottoposti a condizioni di vita e di lavoro durissime, educati all’azione collettiva dallo stesso lavoro in squadra svolto nei cantieri di bonifica, estremamente disponibili ad una lotta diretta contro lo Stato che si presenta loro nella duplice veste del padrone dispotico e del gendarme.

Il mese successivo esce a Milano il primo numero della Rivista Internazionale del Socialismo, a cura del gruppo de La Plebe e di quello costiano, allo scopo di dare dignità scientifica al progetto politico dei socialisti. Nella rivista Costa riprende in modo articolato la tesi già avanzata nella lettera dell’anno precedente abbozzando le linee portanti di programma minimo del partito da costruire. Per la prima volta alle tradizionali richieste democratiche della sinistra radicale come quella del suffragio universale o dell’abolizione della tassazione indiretta si affiancano specifiche rivendicazioni operaie.

Per Costa il futuro Congresso dei Socialisti Italiani deve battersi per il diritto di coalizione e di sciopero, per la limitazione della giornata lavorativa, per la regolamentazione del lavoro delle donne e dei fanciulli, per il miglioramento del regime di fabbrica, per lo sfruttamento collettivo da parte dei contadini delle terre incolte. Finalmente, nel luglio 1881, dopo una lunga e capillare preparazione e nonostante la repressione poliziesca che colpisce lo stesso Costa, si tiene a Rimini in forma clandestina il congresso costitutivo del Partito Socialista Rivoluzionario che si da come primi obiettivi la costruzione di salde forme di collegamento fra le molte associazioni di classe ormai operanti in Romagna e in prospettiva sull'intero territorio nazionale e la definizione di un programma politico chiaro e accettabile dalle diverse componenti del movimento rivoluzionario. Riprendendo la classica formulazione del Parti Ouvrier francese, Costa afferma che se la rivoluzione ha bisogno di un partito, l’edificazione del socialismo non può non fondarsi sulla dittatura popolare, cioè sulla “accumulazione di tutte le forze sociali nelle mani delle classi lavoratrici insorte, all’oggetto di trionfare della resistenza dei nemici e d’instaurare il nuovo ordine sociale” . Anche se Andrea Costa è ancora lontano dalla scientifica chiarezza delle tesi marxiste sullo Stato e la dittatura proletaria, la rottura con le posizioni classiche dell’anarchismo è ormai totale e irreversibile.



Il programma del Partito Socialista Rivoluzionario

In ottemperenza a quanto stabilito dal congresso di Rimini, nel settembre appare in un supplemento de l’Avanti!, il nuovo organo settimanale del partito, il programma del PSR. Il testo, unanimemente considerato dalla critica storica come il miglior programma rivoluzionario apparso in Italia fino a quel momento, colpisce per l’organicità e la chiarezza di contenuti. Nonostante la redazione sia opera di una commissione la mano di Costa si fa sentire nei passaggi più importanti e nel tono complessivo del documento che espone rivestendoli ancora del linguaggio emotivo proprio dell’anarchismo temi fondamentali del marxismo. Nonostante il programma non approfondisca l’analisi del modo di produzione capitalistico e dedichi largo spazio ai caratteri etici del socialismo, è comunque chiaramente avvertibile nel testo l’influenza dei socialdemocratici tedeschi e dei socialisti francesi che rappresentano a quel momento le esperienze politicamente più avanzate del movimento operaio a livello continentale e a cui Costa e il gruppo de La Plebe fanno sempre più riferimento.

Colpisce in particolare la riproposizione, crediamo in assoluto per la prima volta nel movimento operaio italiano, della fondamentale tesi marxista della distinzione fra una fase iniziale del socialismo ed una definitiva e più compiuta fase comunista in cui a ciascuno sarà dato secondo le sue necessità indipendentemente dalla quantità di lavoro prodotta. Ma come affrontare la questione sociale senza cadere in uno sterile verbalismo o in un “evoluzionismo”, oggi diremmo “riformismo”, senza prospettive? La risposta è netta e non lascia margini di ambiguità.

Per Costa e i suoi compagni l’unica soluzione alle contraddizioni della società capitalistica risiede nella rivoluzione, “fatalità storica inevitabile” in quanto quotidianamente alimentata dall’evolversi della società stessa. Una rivoluzione opera diretta delle masse proletarie , principali artefici della propria liberazione, che tuttavia per affermarsi richiede l’azione instancabile del partito che deve “rendere cosciente” agli sfruttati i processi in atto, chiarirne le contraddizioni, spiegarne la direzione, additarne gli esiti. Un partito, quindi, che non si sostituisce alle masse come la setta rivoluzionaria nella vecchia teoria bakuninista, ma che svolge con tenacia una quotidiana, faticosa, indispensabile opera di stimolo e di guida del proletariato. Coerentemente con questa visione della natura e della funzione del partito operaio il programma esprime un giudizio ormai totalmente critico sulla “propaganda dei fatti” ad opera di piccoli gruppi o di individui isolati. La rivoluzione è un fatto di massa, per questo compito prioritario del partito è raggruppare attorno a se la “parte più intelligente ed energica del proletariato”. Fondamentale diventa allora la costruzione di circoli operai e di leghe di resistenza. Le lotte rivendicative, così come le riforme, non hanno valore in se, ma nella misura in cui agevolano la presa di coscienza delle più vaste masse proletarie e l’organizzazione attorno al partito di un saldo nucleo d’avanguardia. In quest’ottica si può ammettere anche la partecipazione alle elezioni, politiche ed amministrative, argomento fino ad allora tabù per i rivoluzionari. Su questo punto il programma è estramemente chiaro. Le elezioni sono una preziosa occasione di propaganda che deve assolutamente essere colta. L’obiettivo è di “porre al Parlamento candidature di protesta, non perché i nostri vadano colà a sommergersi , ma per dare loro occasione di svolgere il nostro Programma nei Comizi elettorali e per porgere, in forma viva, la questione sociale”.

Il programma del PSR riscosse un notevole successo, costringendo i vari gruppi che facevano riferimento al socialismo a pronunciarsi in merito ai temi sviluppati nel documento. I giudizi furono complessivamente favorevoli, anche se non mancarono prese di distanza. Così La Plebe, che pure da sempre intratteneva stretti e cordiali rapporti con i romagnoli, criticò duramente il concetto di “dittatura delle classi lavoratrici”, considerandolo troppo autoritario. Costa rispose precisando che il termine di dittatura altro non voleva significare che l’inevitabile e naturale uso della forza da parte del proletariato in tempo di rivoluzione. Fondamentale era per i socialisti di Romagna differenziarsi nettamente dai moderati, chiarendo che l’accettazione della lotta politica e del terreno elettorale non significava in alcun modo condividere le posizioni degli “evoluzionisti”. In modo fermo Costa rifiutava la definizione di “legalitario” che alcuni ambienti socialisti intendevano affibbiare al suo partito, ribadendo il concetto che “non si può essere socialista senza essere rivoluzionario” e che proprio da tale affermazione programmatica il PSR derivava il suo nome.

Intanto anche per merito di questa discussione in molte località, anche al di fuori della Romagna, nascevano sezioni del partito, mentre l’ Avanti! diveniva l’organo socialista più diffuso raggiungendo le 7000 copie di tiratura. Da molte località, tra cui Milano, Pavia, Firenze, Siena, Livorno, Pistoia, Roma, Napoli e persino da un gruppo di lavoratori immigrati nella lontanissima Alessandria d’Egitto, continuavano a giungere adesioni di gruppi interi e di singoli militanti tanto da illudere il pure prudente Costa che i tempi fossero ormai maturi per la costruzione del partito su scala nazionale secondo un progetto che prevedeva la formazione dapprima di forti partiti regionali e la loro successiva federazione in un unico grande partito socialista rivoluzionario italiano. 

continua