TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 3 maggio 2012

Il Partito Operaio Italiano (1882-1890)


Giorgio Amico

Alle origini del movimento socialista in Italia
3. Il Partito Operaio Italiano

Questo fervore di iniziative era in realtà la manifestazione di un più profondo e complessivo processo di trasformazione della vita politica italiana innescato dai grandi cambiamenti in atto nella società. La riforma elettorale del De Pretis del 1882, determinando un consistente allargamento del suffragio, contribuiva oggettivamente a spingere le organizzazioni operaie a uscire dalla tradizionale tattica astensionista e agevolava l’azione di chi, anche al di fuori del PSR, riteneva ormai esistessero le condizioni per un’autonoma presenza operaia all’interno delle istituzioni borghesi. 

E’ il caso di Milano dove, nel maggio 1882, il Circolo Operaio, principale forza organizzata in ambito proletario, aveva deliberato di partecipare alle elezioni politiche e di chiamare alla costituzione di un Partito Operaio Italiano (POI) che sapesse difendere in maniera del tutto indipendente dalla sinistra borghese gli autonomi interessi proletari anche sul terreno elettorale. 

Tuttavia, il programma del nuovo partito, nonostante il forte accento posto sulla necessità della lotta economica contro il capitale, non andava molto al di là di un vago socialismo dagli echi ancora risorgimentali. In particolare si rivendicava il suffragio universale, la libertà di stampa e di associazione, il riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso senza ingerenze governative, l’istituzioni di scuole professionali gratuite, laiche e obbligatorie, la libertà di insegnamento, l’abolizione dell’esercito permanente e la sua sostituzione con una milizia popolare, l’autonomia comunale, l’abolizione delle imposte indirette in favore di un’unica imposta diretta fortemente progressiva, la laicità dello stato e l’assoluta, incondizionata, libertà di sciopero. 

Il POI, che a differenza del PSR ammetteva fra i suoi membri solo lavoratori manuali, tendeva ad assomigliare più ad un sindacato che a un partito politico e con un certo successo, se si considera l’immediata apertura di sezioni a Torino e Genova e la vasta diffusione in tutta l’Italia del nord dell’organo di partito, Il fascio operaio. Mentre, o forse proprio per questo, sul piano elettorale, a differenza del PSR che anche grazie al patto di unità d’azione stretto con i repubblicani era riuscito a far eleggere Andrea Costa alla Camera, gli operaisti non andarono oltre a un magrissimo risultato. Sta di fatto, comunque, che per la prima volta nella regione più industrializzata d’Italia era apparso sulla scena politica un partito che, nonostante un programma in gran parte simile a quello della democrazia radicale, intendeva caratterizzarsi come un’organizzazione di classe, operaia, antiborghese. 

Un partito che, a differenza degli effimeri cartelli elettorali progressisti destinati a sciogliersi una volta terminata la conta dei voti, affermava con orgoglio la sua volontà di sviluppare un lavoro di lunga lena finalizzato alla costruzione di una grande federazione di leghe di resistenza. Un partito diverso dagli altri in quanto…”la diversità con gli altri partiti sta in ciò che questi ultimi, finita la campagna elettorale (…) si avvolgono nella cappa del silenzio lasciando ovunque il tempo che trovano; il partito operaio, invece, resta permanente perché essendo tutti i giorni sfruttato ed umiliato nei suoi singoli individui, giornalmente deve combattere sulla breccia, per la rivendicazione di tutto ciò che gli spetta"


La crescita del movimento socialista

Anche una rapida analisi dello stato delle forze operaie organizzate dimostra come la crescita del movimento socialista non fosse un fenomeno effimero legato alla particolare situazione determinata dalla tornata elettorale del 1882, ma una tendenza ormai inarrestabile. Nel 1883 il Partito socialista Rivoluzionario poteva contare nella sola Romagna sezioni in più di 60 località con oltre un migliaio di aderenti, mentre a Roma Andrea Costa sviluppava un fervente attività di organizzazione della locale Federazione Operaia a cui univa una instancabile attività di conferenziere in giro per l’Italia. Utilizzando da rivoluzionario conseguente il mandato parlamentare e le sue prerogative, circolazione gratuita sulla rete ferroviaria e tutela dalle angherie poliziesche, egli sviluppava un paziente lavoro di diffusione dei principi socialisti e di ricucitura di una fitta trama di relazioni fra gruppi locali e singoli militanti operai. Il tutto finalizzato alla costruzione di un’unica grande organizzazione politica proletaria a livello nazionale di cui si ritenevano ormai mature le condizioni, come decise il II Congresso del PSR che nell’autunno di quello stesso anno chiamava alla convocazione a scadenza ravvicinata di un congresso dei socialisti italiani. Cresceva intanto l’area di influenza del partito che dal 1884 poteva contare su di un secondo deputato, l’ex garibaldino covertito al socialismo Luigi Musini. 

Il PSR abbandonava le sue caratteristiche di partito regionale costruendo sezioni a Bologna, nel Parmense e in parte del Veneto (Padova e Rovigo). A Milano e in Lombardia, ma con consistenti appendici in Piemonte e Liguria, si sviluppavano nel frattempo le leghe di resistenza de I Figli del Lavoro, animate dai militanti del Partito Operaio. Il Fascio operaio, organo del partito, diffondeva mediamente fra le 1500 e le 2000 copie nella sola Lombardia, ma il numero delle persone toccate costantemente dalla propaganda operaista era di molto superiore avvicinandosi alle 15000. Nell’estate del 1884 la Lega figli del lavoro di Milano e la Società figli del lavoro di Legnano e altri centri minori si riunirono a congresso costituendo la Federazione regionale Alta Italia del POI e chiamando tutte le società operaie a rompere con la sinistra radicale accettando come membri solo lavoratori manuali e a unirsi in un’unica grande federazione operaia. Un partito costituito di soli operai, organizzati su base di mestiere, “arte per arte”, da cui sono esclusi per statuto gli artigiani, i piccoli proprietari agricoli (a meno che non svolgessero anche attività bracciantile) e nelle fabbriche tutti quei salariati che avessero a qualunque titolo compiti di direzione o di controllo di altri lavoratori. Un partito che destinava interamente le quote dei propri militanti (pari a 10 centesimi per ogni socio delle società affiliate) alla costituzione di un fondo di resistenza destinato a sostenere gli scioperi indetti da quelle stesse società affiliate. 

Nel dicembre 1885, qualche mese il grande sciopero agricolo de La boje che in alcune località aveva assunto toni insurrezionali, il Partito tenne a Mantova, epicentro dell’agitazione, il suo secondo congresso adunando i rappresentanti di ben 132 società operaie e adottando un ordine del giorno conclusivo in cui si affermava che la soluzione del tragico problema della disoccupazione alla base dei recenti moti bracciantili poteva trovare soluzione solo colla “emancipazione completa dei lavoratori, cioè quando il capitale, le terre e gli strumenti del lavoro siano diventati proprietà comune dei lavoratori”. Nello stesso documento si riconosceva che nella riduzione dell’ orario di lavoro e nell’abolizione del lavoro a cottimo risiedeva un mezzo potente di difesa delle condizioni operaie che i lavoratori organizzati nelle loro leghe di resistenza dovevano sapere imporre al padronato. Il congresso, infine, ribadiva la decisione di partecipare alla lotta politica, lasciando ampia libertà di azione alle sezioni, ma riaffermando con forza il rifiuto di ogni compromesso o alleanza con la borghesia radicale. “Il partito operaio – si affermava nel manifesto – parteciperà alla lotta pubblica all’infuori di qualunque partito borghese”.


Potenzialità e limiti dell’operaismo

Nei primi giorni di gennaio del 1885 il quinto congresso della Confederazione operaia lombarda registra il successo politico degli operaisti che assumono il controllo della Commissione direttiva di quella che di fatto era la principale organizzazione operaia italiana. Per il gruppo dirigente del POI il risultato del congresso di Brescia dimostra che i tempi sono ormai maturi per la costituzione formale del partito. Il 12 aprile a Milano e qualche settimana dopo a Torino i rappresentanti delle società operaie affiliate alla Lega dei “Figli del lavoro” costituiscono ufficialmente il Partito Operaio Italiano, chiudendo così la lunga fase di gestazione iniziata quattro anni prima. 

In realtà l’attività del partito non subirà nessun particolare mutamento: anche dopo la sua formale costituzione il POI resta più una federazione di associazioni operaie impegnate in un’intensa attività di organizzazione sindacale che un partito politico vero e proprio, tanto che per chi oggi si dedichi a ricostruirne la storia è difficile persino capire se nelle agitazioni operaie i militanti del POI, che pure vi svolgono un ruolo centrale, intervengano come esponenti del partito o a titolo meramente individuale. Di certo il partito, proprio perchè non seppe orientarsi verso il marxismo che faticosamente proprio in quegli anni stava penetrando nel movimento operaio italiano, non si pose mai concretamente il problema dell’organizzazione della classe sul terreno della politica complessiva e di conseguenza mai definì con chiarezza il problema dei rapporti con lo Stato borghese e i suoi apparati.

Nonostante il suo indubbio sviluppo, in pochi mesi i membri delle società “federate” al POI superano i 30 mila, il partito non va oltre all’obiettivo di organizzare “le falangi del proletariato” su base di mestiere: “arte per arte”. Mai in tutta la sua storia il POI si pone il problema della conquista e della gestione del potere. Nonostante questi limiti, il Partito Operaio ha comunque il grande merito di avere con decisione operato per sottrarre la classe operaia all’egemonia politica della piccola borghesia radicale e di avere in tal modo potentemente contribuito allo sviluppo di una coscienza di classe nel proletariato. 

Resta però il fatto che la mancata definizione di una più complessiva prospettiva politica impedì al partito di costruire un’efficace struttura organizzativa che desse gambe reali al processo di unificazione della classe sul terreno dell’autonomia proletaria. In tale situazione, la sempre riaffermata delimitazione di classe, per cui al partito possono aderire solo lavoratori manuali, si trasforma paradossalmente da strumento di difesa del carattere proletario del partito in limite grave, elemento di rigidità che impedisce il pieno e proficuo dispiegarsi delle potenzialità che pure il Partito Operaio il larga misura possiede. 

Gli operai che dirigono il POI non comprendono che la garanzia del carattere di classe del partito non è data semplicemente dall’origine sociale dei membri, ma si colloca prima si tutto sul terreno del programma. Il rifiuto del marxismo, il non sapere uscire da una visione che riduce lo scontro di classe alla battaglia interna alla fabbrica segnano dunque profondamente la vita del Partito e permettono anche di comprendere perché il POI non riesca nell’intera sua storia a ottenere sul piano politico, e di riflesso su quello elettorale, risultati anche minimamente paragonabili a quelli dei socialisti romagnoli. E questo pur operando in una Milano sempre più cuore pulsante di un capitalismo italiano giunto ormai alla maturità imperialistica. 

Espressione semispontanea di una classe operaia in formazione, il Partito Operaio non sa distaccarsi da una visione che, teorizzando la centralità della fabbrica, sottovaluta il problema dello Stato, riducendolo semplicisticamente al rapporto con il magistrato ed il gendarme. Il che fa si che il partito viva in uno stato di crisi permanente, non determinandosi mai risultati corrispondenti alle attese e all’effettivo radicamento nella classe. Di tale crisi si fa carico nel novembre 1890 il Quinto Congresso che registra il fallimento del modello di partito-sindacato fino ad allora praticato e inizia a dibattere come separare gli ambiti: alle grandi società di mestiere, riunite in Camere del Lavoro, il compito di organizzare la lotta economica, al partito il lavoro di propaganda e di indirizzo. Ma a questo punto il POI è ormai di fatto una delle correnti del nascente Partito dei Lavoratori.

continua