Alle origini del socialismo italiano
1. Mazzini, Bakunin e la rivoluzione italiana
Nonostante che fermenti di autonomia proletaria inizino a
manifestarsi in Italia almeno dalla metà degli anni ’40 del XIX secolo e che
uomini d’azione come Pisacane o pensatori come Giuseppe Ferrari rompano presto a
sinistra col mazzinianesimo, prefigurando i lineamenti di una sorta di
rudimentale socialismo risorgimentale, è
solo parecchi decenni dopo e precisamente
a partire dall’inizio degli anni ottanta che si intravvedono i primi
concreti e organici tentativi di costruire un’organizzazione politica del
movimento operaio capace di andare oltre
l’azione cospirativa e insurrezionalista degli internazionalisti bakuniniani da
un lato e l’intervento solidaristico delle società operaie di mutuo soccorso
dall’altro. Fino ad allora il movimento rivoluzionario si era fondato sull’
attesa del tutto fideistica da parte degli anarchici di una imminente spontanea rivolta delle
masse contadine del Sud, sulla incrollabile certezza di Bakunin e dei suoi
seguaci italiani che la fortissima carica antistatale che fermentava nelle
campagne meridionali sapesse da sola
trasformarsi in un immane incendio rivoluzionario capace di travolgere l’ancora
fragile impalcatura dello Stato post-unitario.
Alla fine degli anni ’70 un
decennio di rivolte disperate e di
insurrezioni fallite stavano a testimoniare del’illusorietà di tali propositi.
Gli scoppi violentissimi di collera popolare al sud, l’incendio dei municipi, la
piaga endemica del brigantaggio, lungi dal provare la raggiunta maturazione
delle condizioni della rivoluzione sociale, testimoniavano solo della
progressiva inarrestabile disgregazione nelle zone più arretrate e povere del
Paese di assetti sociali secolari.
Disgregazione accelerata dalla riunificazione politica dell’Italia sotto il
Piemonte sabaudo e dalla formazione di un
mercato nazionale connotato da una estremo divario fra città e campagne e
fra Nord e Sud. Contrariamente ai sogni di Bakunin, lungi dall’essere i segnali
di un’incombente rivoluzione, i ricorrenti moti del Sud, con la loro assoluta
mancanza di una qualunque carica progettuale ed il localismo esasperato,
rappresentavano i tragici bagliori di un mondo al crepuscolo. All’estremo
opposto, nel Centro-Nord si avviava ad esaurimento l’esperienza, peraltro assai
significativa, del mutualismo operaio nata attorno agli anni ’40, inizialmente
per mano di una borghesia radicale che tramite la filantropia ed un moderato
riformismo intendeva tenere sotto controllo i ceti subalterni.
Un fenomeno,
quello delle SMS, tuttavia, capace almeno a partire dalla seconda metà degli
anni ’60 di esprimere autonomi accenti
di classe e di selezionare una prima generazione di quadri operai. Frutto di una
lenta evoluzione delle antiche corporazioni di mestiere nella particolare
situazione dell’arretratezza italiana, il mutualismo aveva accompagnato nelle
città soprattutto del Nord la mutazione di un proletariato preindustriale
prevalentemente artigiano, connotato dalla padronanza individuale di un “mestiere”, in una classe
operaia di tipo nuovo, largamente omogenea per condizioni di lavoro e di vita,
incentrata sul modello produttivo collettivo e standardizzato, per quanto i
tempi lo permettessero, della fabbrica. Ora, con il progressivo crescere di tale
moderno proletariato nelle nuove aree industriali della Valle del Po e la
formazione nella Bassa Padana di un esteso proletariato agricolo la natura e il
ruolo delle Società Operaie di Mutuo Soccorso erano inevitabilmente destinati a
cambiare in profondità.
Il ruolo
egemonico giocato per almeno due decenni dai mazziniani sulla parte più radicale
del movimento mutualistico, rappresentando del tutto specularmente all’azione
dei bakuninisti tra le masse contadine del Meridione la manifestazione politica della particolare
arretratezza italiana, era dunque destinato ad una rapida eclissi una volta che
tale particolarità veniva progressivamente a sparire. Tanto diverse per le idee
professate quanto profondamente simili per il ruolo oggettivamente svolto, le
comunque grandi figure di Giuseppe Mazzini e Michele Bakunin simboleggiano
all’estremo nella loro tragica inconcludenza le caratteristiche di un’epoca di
transizione che poteva solo iniziare a porsi il problema della trasformazione
rivoluzionaria non certo a risolverlo.
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