Il berretto frigio
rappresenta forse il più famoso simbolo di libertà. Raffaele Salinari ne ricostruisce la
storia e i significati più autentici, dal culto di Mitra ai giacobini, passando anche per la pittura
di Salvator Dalì.
Raffaele Salinari
Copriti con questo berretto: vale
più della corona di un re
Cosa unisce
Salvador Dalí ai Puffi? E ancora, il pittore
catalano ed i piccoli esseri azzurri all’alchimista
di Notre Dame ed alla Rivoluzione francese? Un
copricapo che sussume in una sola forma molti aspetti della
stessa sostanza: il berretto frigio.
Il cappello dei rivoluzionari giacobini ha origini che ne spiegano ampiamente la capacità di esprimere la medesima essenza simbolica seppur in contesti apparentemente diversi. Se lo troviamo, infatti, posato sul capo di Marianna, l’effige femminile rappresentante la Repubblica francese nel celebre quadro La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix, le sue ascendenze rimandano a quelle di antichissime divinità iraniche, arrivate in Occidente sotto varie forme, inclusi i Re Magi come li troviamo effigiati in alcune raffigurazioni protocristiane.
E dunque, da
dove viene questo copricapo, e perché la sua
valenza simbolica lo ha reso così espressivo? Per
capirne la genesi dobbiamo risalire le tappe storiche
che lo hanno visto protagonista. In primis
bisogna considerare la sua forma peculiare,
che nasce da quella della pelle di un capretto aperta.
Inizialmente, infatti, il copricapo era ottenuto
da una pelle intera: le zampe posteriori erano legate al mento
mentre quelle anteriori formavano la sua
caratteristica protuberanza anteriore,
che poteva pendere sul davanti o sul dietro
o rimanere in posizione verticale. Col tempo
non è stato più ottenuto in questo modo, ma ha
mantenuto la caratteristica forma che ancora
allude all’originaria preparazione.
I MISTERI ELEUSINI
I primi testi che ci parlano del berretto frigio — detto così perché, come vedremo, diviene famoso come copricapo degli antichi persiani che avevano nel VI secolo a C. conquistato la Frigia, l’attuale Anatolia turca — sono quelli inerenti ai Misteri eleusini, riti religiosi misterici che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nell’antica città greca di Eleusi. Al culmine del rito, dice Ermia Alessandrino, nell’epopteia, la visione: «L’anima recupera la totalità della sua essenza dalla frammentarietà e dalla molteplicità del sensibile».
Epopteúo è il
verbo che indica, contemporaneamente, la
contemplazione sovra-razionale, il suo momento, e la
certezza di questa conoscenza: una visione
cairologica, nella quale si supera il frammentario
ed il complesso per cogliere ciò che unisce e ci
unisce a tutte le cose.
Pierre Dujols nel suo
Historie des Jacobins depuis 1789 jusqu’à ce jour
(Parigi 1820), in cui traccia la storia rivoluzionaria
del cappello, scrive che, giunti al grado di Epopte nei Misteri
di Eleusi, si chiedeva all’iniziato se si sentiva la
forza, la volontà e la dedizione per dedicarsi alla
Grande Opera.
Allora gli si posava
sopra il capo un berretto frigio di colore rosso,
pronunciando queste parole: «Copriti con questo
berretto, vale più della corona di un re».
Il berretto
repubblicano, che «vale più della corona di un re»,
nasce allora come copricapo legato ai culti esoterici
di Demetra e Persefone, dove le due divinità
rappresentano il ciclo eterno della Natura Naturans
in relazione alle sue creature, quelle della Natura
Naturata, nelle quali il principio vitale, l’archetipo
delle vita indistruttibile, come dice Kerényi di
Dioniso, si esprime.
E dunque qui
vediamo già una prima determinante simbolica del
rosso copricapo: esso rappresenta un principio
di liberazione che viene dalla retta visione, quella sulla
«trama nascosta» come dice Eraclito, che è «più forte
di quella manifesta». L’epopteia nella quale l’anima
recupera la totalità della sua essenza altro non è,
allora, che la visione essenziale della libertà: quel trovare
il nostro posto nel mondo affinché, al contempo, il mondo
trovi posto in noi.
MITRA
Ma, prima delle divinità greche, che d’altra parte veicolavano il medesimo significato simbolico, il berretto fu utilizzato dai sacerdoti del Sole, nella regione della Frigia, per i riti dedicati al dio Mitra.
La figura di Mitra
compare primariamente nei Veda, gli antichi
testi indiani risalenti al XX secolo a C., come uno degli
Aditya, un gruppo di divinità solari dell’induismo
discendenti da Aditi e Kashyapa. Aditi è una Dea
Madre, una delle innumerevoli ipostasi della
Grande Dea nei secoli, nel Ṛgveda, (I, 89,10), il testo più
antico, si dice: «Aditi è il firmamento, Aditi
è l’atmosfera, Aditi è la madre, è il padre, è il
figlio, Aditi è tutti gli Dei, Aditi è le cinque
razze degli uomini, Aditi è ciò che è già nato, Aditi
è ciò che deve ancora nascere».
Kasyapa è invece
una figura paterna, un dio-Padre che, all’epoca della religiosità
pre-vedica, era un dio primordiale divenuto poi, in
epoca vedica, lo sposo di Aditi. Joseph Campbell nel suo Le
maschere di dio, saggio sulla mitologia orientale,
ci ricorda come fosse originariamente
raffigurata come una mucca.
Da qui una prima
relazione col toro mitraico che troveremo in tutte le
raffigurazioni posteriori. Mitra, divinità
dunque di origine indo iranica, primariamente
parte di una trinità formata da madre, padre e figlio,
sussunse poi col tempo le altre due assumendo una sempre
maggiore importanza nella civiltà persiana fino
a identificarsi, nella concezione
rigidamente monoteista dello Zoroastrismo,
o Mazdeismo appunto, con Ahura Mazda l’unico Dio,
creatore del mondo sensibile e di quello
sovrasensibile.
Questo nome in
avestico significa «spirito che crea con il
pensiero» da: Ahura derivato dall’antico avestico
anshu nel significato di «respiro vitale», collegato
ad ansu (spirito), e Mazdā derivato dalla radice
indoeuropea mendh che indica l’«apprendere»; quindi nel
significato di «memoria» e «pensiero».
Qui si mostra una seconda
determinante simbolica legata al berretto
frigio: il «retto pensiero» che, con la retta visione
epopteica si pone come ulteriore elemento della triade
simbolica che verrà poi completata dall’agire
libertario. Il culto di Mitra appare per la prima volta
a Roma all’epoca di Nerone, che si fece iniziare ai suoi
misteri; nel tempo, sostenuto dai legionari romani che lo
avevano importato dall’Oriente perché vedevano
in lui un dio guerriero per via della sua lotta contro il
Toro — al tempo stesso simbolo astrologico delle
rinascente primavera e emblema della forza
creatrice — si diffuse a tal punto che convenne
agli imperatori, capi supremi dell’esercito, divenire
miste, cioè iniziati e gran sacerdoti del dio.
Con Aureliano, nel
279 d.C., il culto fu poi fatto coincidere con quello del
dio Sole, il Sol Invictus e, da quel momento, la fede in Mitra
e la sua adorazione divennero un dovere che
l’imperatore esigeva in modo da legittimare il suo
potere teocratico. La religiosità mitraica,
misterica ed esoterica, comprendeva sette
gradi: corvo, ninfo, miles, leone, persiano, heliodromos
e Pater, che riproponevano simbolicamente
il viaggio dell’anima a ritroso, cioè nella sua
risalita attraverso le varie sfere, sino ad oltrepassare
quella dell’Aquila, vertice del mondo delle Potenze,
e raggiungere così il Principio, il Mondo
dell’Origine, l’iperuranio platonico in cui vivono le
Idee.
Nel mitreo di Santa Prisca in Roma, uno dei meglio conservati della città, vediamo come le pareti laterali fossero ricoperte di pitture, oggi visibili e leggibili solo in parte, realizzate certamente prima del 200 d.C.. Già questa data, in piena fioritura cristiana, ci dice quanto il culto di Mitra fosse penetrato profondamente all’interno della cultura romana ed anzi, come esso sia stato l’ultimo culto pagano a scomparire con l’affermarsi del cristianesimo. Si dice che anche Costantino, nonostante il suo famoso editto, fosse un adepto del dio. Sulla parete di destra sono raffigurati i sette gradi di iniziazione del culto, ad ognuno dei quali è abbinato un personaggio ed una frase che inizia con la parola persiana Nama, «onore», quindi il grado di iniziazione seguito dalla formula «sotto la protezione», abbreviata in vari modi, spesso sintetizzata dalla sola parola «tutela», per chiudere con il rispettivo pianeta che lo proteggeva.
Ma ciò che
maggiormente ci interessa si trova in direzione
dell’altare, dove sono raffigurati dei personaggi
probabilmente realmente esistiti, dato che
di ognuno è riportato il nome; essi si dirigono verso
una figura seduta, identificabile con il Pater,
vale a dire il grado più alto raggiungibile, al
quale portano degli oggetti, forse delle offerte: un toro, un
gallo, un cratere, un montone ed un maiale. L’uomo seduto
indossa il berretto frigio, è vestito di rosso, ed
a sinistra della figura si legge l’iscrizione Nama
(Patribus)/ ab oriente / ad occidente (m)/ tutela Saturni.
Dunque la figura che poi, nella religiosità
cristiana, assumerà il ruolo di Papa, ed indosserà
anche la caratteristica Mitra, evoluzione
del berretto frigio, deriva da questo culto.
I RE MAGI
Il berretto frigio è anche un indumento fondamentale nell’abito tradizionale del regno persiano dal VI secolo a.C. al II secolo a.C. È per questa sua progressiva diffusione in ambito profano che, nell’arte greca del periodo ellenistico, appare come indumento tipico degli orientali. E chi più orientale dei Magi, cioè maghi, grandi sapienti che, seguendo la stella cometa, arrivano a Betlemme in occasione della nascita del Salvatore?
Le conoscenze astromantiche dei Caldei, cioè dei Babilonesi, erano ben note nell’antichità paleocristiana. Già Diodoro Siculo, nella sua Bibliotheca Historica, (Libro II, cap. IX) così ce ne rende testimonianza: «I Caldei, che tra i Babilonesi sono i più antichi… si applicano per tutta la vita agli studi filosofici e traggono principalmente assai gloria dall’astrologia. E come molto si occupano dell’arte divinatoria, predicono le cose future, e cercano, o con le espiazioni, o con i sacrifici, o con certi incantesimi, di allontanare le cattive vicende o di farne seguire le buone. E sono anche valenti nella scienza degli auguri, ed interpretano i sogni ed i prodigi, e certamente vengono reputati profeti esatti». Ludolfo di Sassonia (m. 1378), nella sua Vita Christi, sostiene che: «I tre re pagani vennero chiamati Magi non perché fossero versati nelle arti magiche, ma per la loro grande competenza nella disciplina dell’astrologia. Erano detti magi dai Persiani coloro che gli Ebrei chiamavano scribi, i Greci filosofi e i latini savi».
Una tra le più antiche raffigurazione dei Magi, a nostra conoscenza, si trova nella cosiddetta cappella Greca della catacomba di Priscilla a Roma. La scena è semplicissima: i tre Magi, distinti nei colori dei loro vestiti, si avvicinano da sinistra a destra ad uno scranno dove si trova seduta la Madre con il Bambino. I tre portano doni non distinguibili. Dietro la sedia si scorge un residuo di colore che può essere forse interpretato come ciò che è rimasto della Stella. I tre Magi indossano un corto chitone con pantaloni e portano il copricapo frigio, cosi da essere caratterizzati come personaggi orientali.
Stessa raffigurazione
troviamo sia su una lapide di pietra oggi custodita
a Ravenna, presso il Museo Arcivescovile
proveniente dalla Cappella dei SS. Quirino
e Giulitta (V sec.), sia sulla Copertura
dell’Evangelario custodita nel Museo del Duomo di Milano. Le
raffigurazioni trovano riscontro nel
testo del vangelo di Matteo: «Alcuni Magi giunsero da
oriente (…); la stella… li precedeva, finché
giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il
bambino (…); videro il bambino con Maria sua madre (…);
e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra».
Sul coperchio di un
sarcofago delle Grotte Vaticane, rinvenuto
sotto la Basilica di S. Pietro, sono raffigurati
i tre Magi, alle cui spalle s’intravedono tre dromedari.
Il sarcofago è del 345 circa. E di dromedari
parla un passo di Isaia (60,6) nell’Antico Testamento,
interpretato dunque come profezia
dell’adorazione dei Magi: «Verranno a te i beni dei
popoli. Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari
di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando
oro e incenso e proclamando le glorie del
Signore».
Un altro testo, tratto
dal libro dei Salmi, dice: «I re di Tarsis e delle isole
porteranno offerte, i re degli Arabi e di Saba
offriranno tributi» (71,10). A motivo di quest’ultimo
versetto, a partire dall’arte medievale, si
comincia a parlare dei Magi come di re, e così
vengono rappresentati con i simboli
esteriori della loro regalità: non il berretto
frigio ma la corona.
Il rilievo sulla porta lignea di S. Sabina, a Roma, eseguito intorno al 431, mostra ancora Maria e il Bambino su di un trono collocato alla sommità di sei scalini, cioè i sei gradi più uno che portano al compimento dell’iniziazione mitraica. I tre Magi indossano i noti vestiti orientali, compreso il berretto frigio. Tutta la rappresentazione della scena allude chiaramente a messaggeri «Parti», cioè Persiani che portano i loro doni.
IL BERRETTO DELL’ADEPTO
«Se, spinti dalla curiosità, o per dare uno scopo piacevole alla passeggiata senza meta d’un giorno d’estate, salite la scala a chiocciola che porta alle parti alte dell’edificio, percorrete lentamente il passaggio, scavato come un canale per lo smaltimento delle acque, sulla sommità della seconda galleria. Giunti vicino all’asse mediano del grande edificio, all’altezza dell’angolo rientrante della torre settentrionale, noterete, in mezzo ad un corteo di chimere, il sorprendente rilievo d’un grande vecchio di pietra.
È lui,
è l’Alchimista di Notre Dame. Con il capo coperto dal
cappello frigio, attributo dell’Adepto, posato
negligentemente sulla lunga capigliatura dai
grandi riccioli, il saggio, avvolto nel leggero camice
di laboratorio, s’appoggia con una mano alla
balaustra, mentre con l’altra accarezza la propria
barba abbondante e serica. Egli non medita, osserva.
L’occhio è fisso; lo sguardo possiede una
straordinaria acutezza. Tutto, nell’atteggiamento
del Filosofo, rivela una estrema emozione… Che splendida
figura questa del vecchio maestro che scruta,
interroga, curioso ed attento, l’evoluzione della vita
minerale e poi, infine, abbagliato, contempla
il prodigio che solo la propria fede gli faceva
intravedere». Con queste parole Fulcanelli,
l’enigmatico autore de Il Mistero delle Cattedrali,
introduce la figura dell’Alchimista sulla torre
settentrionale della grande cattedrale
gotica, la cui figura è riconoscibile appunto
dal cappello frigio «attributo dell’Adepto».
Anche in un mosaico bizantino della basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Re Magi adorano Gesù calzati dei loro cappelli frigi. Interessante notare che essi rivolgono sì lo sguardo al Salvatore, ma sopra di loro brilla una stella d’oro, chiaro riferimento sia alla stella cometa che li indusse a mettersi in cammino, sia alla stella del Compost-stella, cioè alla Stella di San Giacomo di Compostela che compare, insieme alla conchiglia, in innumerevoli facciate di chiese, palazzi, monumenti, sparsi per tutta l’Europa, e che indicavano al tempo stesso sia un rifugio per i pellegrini sulla via del celebre Santuario sia le fasi della Grande Opera, come chiaramente leggibile sulle formelle scolpite ai lati dell’ingresso principale di Notre Dame, sotto il Portale del Giudizio Universale e così ben descritti da Fulcanelli.
Qui, sia a destra
che a sinistra del pilastro centrale, sul quale
è effigiata la Filosofia con in mano un libro
chiuso ed un libro aperto, segno delle due conoscenze
esoterica ed essoterica, si svolgono dei
bassorilievi che illustrano sia le fasi
dell’Opera sia le virtù morali che l’adepto deve sviluppare
per poter operare la materia trasformando al
contempo se stesso. Se osserviamo bene questi
bassorilievi troveremo, ad un certo punto,
la figura dell’alchimista che difende l’Atanor, la fornace
alchemica, e che indossa il berretto frigio, lo
stesso che abbiamo visto sul capo della scultura sul torrione
settentrionale.
D’altra parte la sovrapposizione tra il Cristo ed il Lapis, cioè la Pietra Filosofale, è totale nell’alchimia medioevale, sia per evitare le ire dell’Inquisizione, sia come linguaggio iniziatico alle operazioni di trasmutazione della materia. Nel famoso romanzo Notre Dame di Parigi di Victor Hugo, uno dei protagonisti, il delirante arcidiacono della cattedrale Monsignor Claude Frollo, è un alchimista che però, accecato dal suo amore carnale per la bella Esmeralda, ma non certo ricambiato da lei, non è in grado per questo di leggere compiutamente le formule della Grande Opera. Esmeralda, infatti, rappresenta la Prima Materia, ed è innamorata di Febo, cioè del Sole, e non del torvo arcidiacono che pubblicamente la condanna e privatamente la brama.
Dice Eugène Canseliet nella sua prefazione al Mistero delle cattedrali (Mediterranee 1988) che Filatete nel suo libro Entrée ouverte au Palais fermé du Roi, si sofferma più di altri sulla pratica dell’Opera facendo cenno alla stella cometa come analogon di quella ermetica, con queste parole: «È il miracolo del mondo, l’unione delle virtù superiori con quelle inferiori; per questa ragione l’Onnipotente l’ha indicata come segno straordinario. I saggi l’hanno visto in Oriente, ne sono rimasti sbalorditi e subito dopo hanno saputo che un Re purissimo era venuto al mondo»; infine Filatete così conclude: «E l’Onnipotente imprime il suo regale sigillo a quest’Opera e, così facendo, l’adorna in modo del tutto particolare». Qui, dunque, ancora una volta la sovrapposizione tra immagini della sacralità cristiana e fasi dell’Opera è un mezzo per velare ed al contempo comunicare all’adepto i segreti della pratica. Canseliet ci ricorda, infine, che la stella non è un segno esclusivo del travaglio della Grande Opera ma che la si può incontrare anche in numerosi altri composti chimici.
IL PILEUS ROMANO
Queste analogie tra sacro e profano, tra esoterico ed essoterico, tra liberazione della mente e liberazione del corpo, rappresentano la vera forza evocativa del berretto frigio che si porrà definitivamente, col suo uso nell’antica Roma repubblicana, come una componente essenziale di ogni abito che voglia mostrare questi due aspetti. Qui, infatti, divenne sia il copricapo che veniva donato dal padrone agli schiavi liberati, i liberti, sia come simbolo della Repubblica. Fu quindi in questa epoca che il berretto frigio (chiamato pileus in latino) assunse il suo valore simbolico di libertà.
In particolare
questo significato viene sancito dalle monete
battute dai cesaricidi all’indomani dell’uccisione
di Giulio Cesare, che recavano su una delle facce un
pileus, considerato dunque simbolo della
libertà repubblicana, inserito tra due pugnali, come
quelli usati per il regicidio.Il sole, al cui culto
originariamente vedico si collegava
l’utilizzo del cappello e quindi il suo significato,
simboleggia dunque già in epoca romana
l’avvenire e il progresso nella libertà e quindi la
prosperità data dalla rinascita derivante dal
fuoco, elemento purificatore e rinnovatore.
Questi significati
di rinnovamento e di libertà si adattavano
perfettamente agli ideali ed allo spirito della
rivoluzione francese, per la quale il cappello
frigio divenne così naturalmente uno dei simboli
della rivoluzione stessa, spesso issato come compendio
dei tre valori di Libertà, Fraternità ed Eguaglianza
sopra l’albero della libertà.
Un berretto simile, infatti, era già indossato dai galeotti di Marsiglia liberati nel 1792 nel corso della rivoluzione. Grazie a questo fatto il simbolo venne immortalato nella figura della Marianne, emblema stesso della Francia giacobina, nel celebre quadro La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix. La simbologia della donna con il berretto frigio fu poi utilizzata dal movimento socialista come simbolo di rinnovamento, progresso e liberazione dell’umanità.
E poiché molte
delle rivoluzioni anti-coloniali del Nord e Sud
America sono state ispirate dalla rivoluzione
francese, esso compare come simbolo di libertà nelle
bandiere dello Stato della West Virginia e New
Jersey, e come sigillo ufficiale dell’United States
Army (sic!) e del Senato degli Stati Uniti. In America
Latina è rappresentato negli stemmi di
Argentina, Bolivia, Colombia, Cuba, El Salvador,
Nicaragua e Paraguay. Il cappello frigio
è anche nello stemma dei Tiepolo, antica famiglia
veneziana che diede alla città importanti dogi. Anche il
Corno ducale, ovvero il copricapo distintivo del Doge della
Serenissima Repubblica di Venezia, si
ispirerebbe al berretto frigio già indossato
dai soldati bizantini.
SALVADOR DALÍ E I
PUFFI
Il berretto frigio unisce anche artisti ed espressioni artistiche in apparenza lontanissime tra loro come Salvador Dalí ed i Puffi. Per quello che concerne il pittore catalano, ispirato dalla sua stessa poetica paranoico-critica e dalle mille provocazioni che creava, il cappello è un simbolo forte di appartenenza, tanto da ricomparire trasfigurato nei suoi quadri degli anni ’30 e ’40 proprio all’interno del metodo paranoico-critico.
Questa è la
definizione che lo stesso Dalí fornisce del suo
metodo: «Tutti, soprattutto in America, vogliono sapere il
metodo segreto del mio successo. Questo metodo esiste.
Si chiama il metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho
inventato e lo applico con successo, benché non
sappia ancora in cosa consista. Grosso modo, si
tratterebbe della sistemazione più rigorosa
dei fenomeni e dei materiali più deliranti, con
l’intenzione di rendere tangibilmente creative
le mie idee più ossessivamente pericolose.
Questo metodo funziona soltanto alla condizione
di possedere un dolce motore d’origine divina, un nucleo
vivo, una Gala. E ce n’è soltanto una».
Il binomio Gala —
la compagna di tutta la vita, la donna che lo prese e mai
lo lasciò andare — ed il cappello frigio, lo vediamo in
alcune foto che ritraggono la coppia sul mare di Cadaqués,
il mare nativo di Dalí, nei pressi del quale poi costruirà la casa
museo nella quale è conservato imbalsamato.
E allora un artista come Dalí, così visceralmente
attaccato alla sua terra tanto da farne la scaturigine
dei suoi quadri, non poteva certo tralasciare che il
metodo paranoico-critico sviluppasse l’idea del cappello
frigio sino a trasformarlo, con quelle
metamorfosi così connaturare alla sua opera
pittorica, in una sorta di prolungamento
cranico, come fosse oramai fuso con la testa che lo
indossa.
Una prima idea di questa trasmutazione anatomica compare in alcuni suoi personaggi come il Guglielmo Tell nella celebre tela, L’enigma di Guglielmo Tell del 1933. Il quadro, che determinò la rottura con i Surrealisti di Breton a cagione del viso del protagonista, quello di Lenin, è in realtà un segno di rivolta contro l’autorità in generale, e verso quella paterna in particolare. Il padre di Dalí rifiutava, infatti, la sua relazione con Gala, donna divorziata, e dunque la scelta di Salvador fu quella di «uccidere il padre» sbeffeggiandolo, concependo questa scena altamente simbolica in cui l’eroe svizzero sta per schiacciare sotto il piede una piccola figurina che simboleggia appunto Gala.
Nello stesso periodo, ma
posteriore di alcuni mesi al Guglielmo Tell, altri dipinti
dichiaratamente autobiografici mostrano
direttamente il lungo cranio come prolungamento
del berretto frigio, in particolare Io
a dieci anni, quando ero il bambino cavalletta,
complesso di castrazione, sempre del 1933, oppure in
Arpa invisibile del 1934. Nel bambino cavalletta
la sommità del berretto frigio diviene tutt’uno con
la tesa del piccolo Dalí vestito da marinaretto, come
si usava nelle scuole elementari a quell’epoca,
mentre il tavolo si erge come un membro inturgidito
che punta verso l’infinito.
La fobia del piccolo
Salvador per le cavallette era ben nota; di fronte
a questi insetti poteva avere anche dei veri e propri
attacchi isterici. Le cavallette tornano
prepotentemente in tutti i suoi quadri
più dichiaratamente autobiografici,
a partire dal Grande Masturbatore del 1929, in
cui l’autore esprime tutto il disagio sessuale dei primi
incontri con Gala. Sarà l’apparizione del berretto
frigio fuso col suo capo a formare quello della
cavalletta che esprimerà per Dalí il superamento
del complesso di castrazione paterno ed una sorta di
ritrovato equilibrio sessuale con la compagna
di tutta la vita.
Il berretto frigio
appare anche nelle forme che l’artista propone per
i copricapi disegnati per la stilista Elsa
Schiapparelli sul finire degli anni ’30. Ma è nell’ultimo
periodo della sua esistenza, dopo la morte di Gala, che Dalí
torna ad indossare perennemente il copricapo
catalano. Nelle foto della vecchiaia lo vediamo sempre
calzato del suo berretto frigio bianco, come quello
dei Puffi.
Anche i famosi personaggi inventati da vignettista belga Pierre Culliford detto Peyo in collaborazione con Yvan Delporte nel 1958 indossano il berretto frigio bianco, tranne il Grande Puffo, una sorta di Papa della popolazione dei piccoli esseri «alti tre mele», che lo porta rosso. Perennemente minacciati dall’infido Gargamella, e qui il cerchio alchemico si chiude, alla ricerca di sei Puffi che, bolliti nel veleno di serpente, costituiscono l’ingrediente fondamentale nella formula della pietra filosofale.
Non a caso
Gargamella è il figlio degenere di una schiatta
di maghi, il cui capostipite si chiama Baldassarre,
come uno dei Magi. Chissà cosa avrebbe pensato l’Alchimista
di Notre Dame se fosse vissuto ai nostri giorni, anzi, chissà
cosa ne pensa osservando il mondo da sotto il suo frigio
berretto.
Il Manifesto – 30 maggio 2015