
Guido Araldo
Nella toponomastica della provincia di Cuneo un’esile reminiscenza di questo nome è riscontrabile in Monastero Vasco. Nulla è noto dell’antica struttura politica – amministrativa della “Terra Alta Langasca”. Si può ragionevolmente supporre che in epoca romana fosse divisa tra i municipi di Alba Pompeia (l’attuale Alba), Aquae Statiellae (Acqui Terme), Pollentia (Pollenzo) e Augusta Bagiennorum (Benevagienna).
Rinvenimenti di lapidi a Sale San Giovanni, più precisamente in località Carrettini, con citazioni della gens Pobilia, portano a supporre che l’antico e potentissimo municipio di Alba Ingaunorum (Albingaunia, poi Albenga) includesse la Val Tanaro fino a Ceva e spaziasse sulla Langa Cebana famosa per le sue mucche da latte, di bassa corporatura, e per i suoi formaggi commercializzati anche a Roma, come documentato dagli scrittori Columella e Plinio il Vecchio.
La Val Bormida d’Occidente, quella di Millesimo, faceva parte probabilmente del municipio di Alba, per le lapidi rinvenute a Gorzegno e Millesimo, nelle quali è citata la gens Camilla che diede a Roma l’imperatore Pertinace.
La Val Bormida d’Oriente, quella di Spigno, apparteneva invece al municipio di Aquae Statiellae.
Di certo la “Terra Alta Langasca” era interessata da un reticolo viario importante, antichissimo, che metteva in comunicazione il Monferrato e la pianura subalpina con i porti rivieraschi di Vada Sabatia e Albenga
Le epoche successive, sconvolte dalle invasioni barbariche, sono immerse nelle tenebre più profonde. Sussistono vaghe e frammentarie notizie di castri bizantini: luoghi fortificati, giacché l’invasione dei Longobardi fu fermata per più di cinquant’anni dal sistema difensivo approntato lungo l’asse fluviale Stura Tanaro. Le tenebre lievemente si diradano soltanto dopo l’ultima, peggiore invasione: quella dei Saraceni!
E’ a questo punto che emerge dalle tenebre il lumicino del diploma imperiale datato 23 marzo 967, vergato da Ottone I a Ravenna. In questo documento, che alcuni storici non ritengono autentico ma la copia manomessa di un originale andato perduto, sono citate sedici curtes situate in desertis locis: la “Terra Alta Langasca”! Vi è descritto un territorio svuotato di uomini: indicato come “desertis locis”: il Wasto!
Le 16 curtes costituiscono il nucleo orginario della marca concessa ad Aleramo: il condottiero che aveva sconfitto definitivamente gli invasori Saraceni, secondo la tradizione. Tradizione non confermata da documenti storici.
L’unica documentazione storica su un’invasione saracena in Piemonte è riportata nel Chronicon Novaliciensis, che riferisce come nel 906 l’abate Guglielmo della prestigiosa abbazia di Novalesa fosse stato costretto a una fuga precipitosa, con i suoi monaci, portando con sé le reliquia più preziosa, quella di San Secondo, martire della legione Tebea; ma non esiste un riferimento preciso ai Saraceni, agli Arabi, ai berberi islamizzati. Tant’è che alcuni storici si spingono a considerare l’invasione araba una favola, proliferata in epoca romantica, nonotante nella toponomastica abbondino località come “Casa saracene”, “case del Moro”...
La marca aleramica presentava confini precisi, specificati nel diploma ottoniano: era delimitata dal fiume Tanaro a occidente e a settentrione, dal torrente Orba a oriente e dal Mare Ligure a meridione; il Vasto originario! E del Vasto la “Terra Alta Langasca” ne era il cuore, l’essenza!
Da allora i discendenti di Aleramo furono noti come i “Marchesi del Wasto”.
In seguito, a cavallo tra i secoli XI e XII, il Vasto o Guasco si dilatò moltissimo e enne a identificarsi con i domini del marchese Bonaficio, comprendendo grosso modo le attuali province di Asti, Alessandria, Cuneo, Imperia e Savona, con la Val Roya. Uno stato davvero notevole per l’epoca!

Abbazia di Novalesa
All’inizio del XII secolo il marchese Bonifacio figurava tra i più illustri principi del Sacro Romano Impero e vantava amicizie personali con papi e imperatori. Era figlio di Tete e Berta e regnò sulla marca aleramica per quarant’anni: dal 1090 al 1130. La sua storia è esemplare per l’epoca in cui visse; per giunta scandita da quattro matrimoni, con numerosi figli.
Le scarne informazioni sul suo conto lasciano intendere che Bonifacio non esitò a combattere i fratelli Manfredo e Anselmo per assicurarsi il dominio sulla marca paterna. La leggenda vuole che nella lite con Anselmo si fosse insinuata una questione di cuore: Bonifacio perdutamente innamorato della promessa sposa del fratello. (“Donna desponsata”, già impegnata, sta scritto in vecchie pergamene). Una donna dotata di una bellezza straordinaria.
Bonifacio eliminò in qualche modo Anselmo e riuscì a sposarla, suscitando le ire di papa Gregorio VII, famoso per Canossa. Quel papa bellicoso non esitò a scomunicarlo nell’anno 1079 e impose ai vescovi di Torino, Acqui e Asti di opporsi in ogni modo a quel matrimonio “che gridava vendetta al cospetto di Dio”. Per contro, l’antipapa Clemente III, fedele alleato dell’imperatore, lo assolse; ma i figli che nacquero da quel matrimonio tormentato furono considerati illegittimi dal diritto canonico.
Qualche anno dopo la giovane marchesa morì, forse per un parto, e Bonifacio convolò in seconde nozze con Alice di Savoia, figlia di Pietro, conte di Susa, e da quell’unione nacquero cinque figli: Tete, Pietro, Manfredo, Ugo, Guglielmo, e una figlia, Adelaide.
Alice di Savoia, marchesa notoriamente virtuosa, che si denudava sotto le coperte per non palesarsi al marito “immonda come Eva”, morì nell’anno 1111. A questo punto il prolifico Bonifacio, che non si rassegnava al ruolo di vedovo inconsolabile, passò a terze nozze. Di questa moglie non è noto il nome e neppure il casato; ma si sa che da essa ebbe altri quattro figli: Anselmo, Bonifacio “il giovane”, Enrico e Ottone. In seguito anche questa moglie morì e allora il marchese del Wasto portò all’altare Agnese, dama avvenente, che alcune fonti additano come nipote di Filippo I, re di Francia.
Il secondo matrimonio, quello con Alice di Savoia, era stato particolarmente proficuo, poiché aveva permesso al marchese del Wasto di vantare diritti sui domini meridionali della marca Arduinica, che corrispondeva alle terre subalpine da Ivrea a Ventimiglia. Poiché genero del conte Pietro di Savoia e nipote della duchessa Adelaide, sorella di sua madre Berta, face valere questi diritti. In tal modo Bonifacio riuscì a unificare le terre che si estendevano dal Monviso alla Riviera Ligure di Ponente e alle Langhe, nonostante l’opposizione del vescovo di Asti, del Comune di Genova e dei conti di Savoia, che mal tolleravano la nascita di una simile potenza marchionale sui loro confini.
Bonifacio del Wasto fu anche l’ultimo marchese a svolgere un ruolo importante nell’inquieta città di Savona, prossima ad ergersi a libero comune; ed ebbe anche un ruolo di primo attore nelle vicende della Grande Lombardia. Riuscì, infatti, ad imporre un suo favorito, Grosolano, già canonico di Ferrania, quale arcivescovo di Milano nei giorni convulsi in cui fu organizzata la Crociata dei Lombardi.
Un’impresa che attesta come Bonifacio fosse influente, tanto più se si considera che Grosolano era un oscuro canonico di Ferrania
Accadde all’epoca che la sede vescovile di Savona fosse vacante e due emissari furono inviati dall’arcivescovo di Milano con lo scopo d’individuare chi dovesse sedersi su quella cattedra importante, in una città notoriamente lacerata da faide interne. Le divisioni, infatti, sembravano insanabili in quel grande borgo marinaro, dove l’autorità marchionale stentava a imporsi. Per questo motivo l’arcivescovo di Milano, primate della Lombardia che all’epoca includeva anche la Liguria, aveva deciso d’intervenire personalmente. E chi incontrarono gli emissari milanesi? Il marchese Bonifacio, ovviamente! E dove lo incontrarono? A Ferrania, presso l’abbazia da lui stesso fondata, lontano da occhi e orecchie indiscrete.

Abbazia di Ferrania
Sotto quelle volte prossime al giogo montano il marchese indicò un suo candidato alla carica di vescovo di Savona: il canonico Grosolano, con il quale si attardava in prolungate partite a scacchi ogni volta che veniva a Ferrania, dove abbondavano i cervi da cacciare nei vasti boschi circostanti e dove l’estate non è mai torrida per il vento costante che spira dal mare.
Per la verità, di fronte a quella insolita proposta, gli inviati dell’arcivescovo si stupirono: l’abbazia di Ferrania, di recente fondazione, apparteneva alla diocesi di Alba e, di conseguenza, lo stesso canonico era estraneo al clero di Savona.
Bonifacio sfoggiò un sorriso disarmante e spiegò che tale peculiarità non costituiva un problema; anzi, in un certo senso poteva rivelarsi vantaggiosa. Il buon Grosolano, infatti, era estraneo alle vicende convulse di quelle strade inquiete, dove la stessa autorità del marchese stentava a imporsi. Sarebbe stato una specie di “podestà ecclesiastico”!
In tal modo il canonico di Ferrania diventò vescovo di Savona e con questa nomina il marchese Bonifacio riuscì a umiliare gli arroganti abitanti di quella città orgogliosa, nemica di Genova ma propensa ad imitarla negli statuti cittadini. Infatti l’elezione di Grosolano costituì un’occasione irripetibile per affermare l’autorità marchionale tra quelle mura, dove svettavano torri più alte dei campanili, attestanti la potenza delle famiglie mercantili.
Il canonico Grosolano tutti stupiva per il suo modo di vestire, eccessivamente spartano: amava indossare un’umile cappa ed era così magro da sembrare scheletro, a causa dei prolungati digiuni ai quali si sottoponeva. Ma, seppure di aspetto poco gradevole, quel canonico schivo e riservato, dedito alla vita ascetica, era dotato di notevole cultura: parlava correttamente il latino e palesava una buona padronanza sia della lingua greca che della tecnica poetica, insolita in un chierico.
Da quel giorno la stella di Grosolano cominciò a brillare come una cometa, sempre più vivida.
Bonifacio, marchese accorto, aveva visto giusto!
Il canonico di Ferrania fu accolto benevolmente dai Savonesi, sia dai fiancheggiatori marchionali che dalle famiglie mercantili, poiché forestiero, estraneo ai loro intrallazzi, e pertanto considerato un “super partes”. Ma breve fu il suo soggiorno in quella città! Il destino imprevedibile pretendeva Grosolano altrove.
Dopo l’acclamazione nella cattedrale, il nuovo vescovo seguì gli emissari dell’arcivescovo nella lontana città di Milano, allo scopo d’essere consacrato dall’arcivescovo Anselmo in persona, che proprio in quei giorni si accingeva a partire per la grande crociata in Terrasantascortato da centomila Lombardi.
Un pellegrinaggio in armi come non se n’erano mai visti: la “crociata dei Lombardi”!
Nella grande città di Milano l’arte diplomatica di Bonifacio si snodò con indubbia abilità e gli consenti di conseguire un’impresa straordinaria: impose il fidato Grosolano ai vertici dell’arcidiocesi!
Radi documenti testimoniano che in questa operazione trovò un prezioso alleato in Azzone: potente vescovo di Acqui, che molto si adoperò in favore di Grosolano.
L’austero canonico di Ferrania, solito a indossare “un’horida capa”, fu acclamato vicario dell’arcivescovo nella chiesa di sant’Ambrogio e non tornò più a Savona. Dopo la partenza dell’arcivescovo si trovò a reggere la vasta arcidiocesi e, ben presto, ne divenne il naturale successore, nonostante l’ostilità dell’aristocrazia milanese che lo considerava un forestiero: un intruso, per giunta dai modi assai poco urbani. Bonifacio lo sostenne strenuamente e riuscì persino a trovare un incondizionato appoggio nello stesso papa.
Bonifacio del Wasto, pur figurando tra i più importanti feudatari della “Grande Lombardia”, non partecipò alla “Crociata dei Lombardi”. In seguito, per farsi perdonare questa assenza, elargì donazioni a chiese e monasteri.
Un’altra sua importante azione politica si dipanò nell’anno 1111, durante la lotta per le investiture, quando con altri dignitari dell’Italia Settentrionale accompagnò a Roma Enrico V, che il papa si rifiutava d’incoronare. Dopo intense discussioni, alle quali lo stesso Bonifacio non fu estraneo, la vertenza si risolse in favore all’imperatore che ottenne la corona imperiale.
Un’unica colpa, storica, gravissima: non lasciò la sua vasta marca a un unico erede, ma consentì che venisse spartita tra i suoi numerosi figli e in tal modo il Wasto, corrispondente grosso modo alle attuali province di Cuneo, Savona e Imperia, inclusa la parte meridionale della provincia di Asti, scomparve dalla storia.
La successiva e definitiva frantumazione del Vasto tra i numerosi discendenti di Bonifacio (marchesati di Busca, Monferrato, Clavesana, Savona, Saluzzo e contea di Loreto) comportò la scomparsa dello stesso nome, che rimase appannaggio dei marchesi di Savona i quali, però, perdute Savona e Noli, assunsero la denominazione di marchesi Del Carretto.

Castello di Noli
Seguivamo brevemente l’involuzione, il progressivo svilimento del Vasto;
1) grande marca con Bonifacio, comprendente il Basso Piemonte e il Ponente Ligure,
2) piccola marca con Enrico soprannominato “il Guercio”, ridotta all’attuale provincia di Savona con vasti possedimenti sulle Langhe.
3) Dopo la morte di Enrico “il Guercio”, avvenuta indicativamente nell’anno 1188, i due figli non vescovi, Enrico e Ottone, si divisero tranquillamente i beni paterni. E poiché la città di Savona era riuscita a sganciarsi dall’autorità marchionale erigendosi a libero Comune, Ottone ed Enrico si divisero la marca preoccupandosi principalmente del controllo delle strade che portavano verso la Lombardia e il Monferrato, dalle proficue gabelle. Ottenne si prese la fetta orientale della marca: da Varazze e Albissola a Cortemilia, dove batté moneta; mentre Enrico si aggiudicò la fetta occidentale: da Noli e Finale fino alle colline del Barolo, passando per la Val Bormida di Millesimo. Subito dopo anche Noli riuscì a sganciarsi dall’autorità marchionale e diventare una repubblica marinara.
4) I beni di Ottone non tardarono a dissolversi come neve al sole; mentre i nipoti di Enrico II si divisero i possedimenti del nonno il 12 ottobre 1268. Nacquero così i terzieri di Finale, Millesimo e Novello.
5) Un secolo dopo, nel 1345, il terziere di Millesimo subì una nuova scissione, dopo che i fratelli Bonifacio e Corrado riuscirono a togliere di mezzo, eliminandolo fisicamente, il primogenito Tommaso. Sorsero allora i marchesati distinti di Millesimo e Saliceto.
6) Quest’ultimo marchesato finirà nel 1450 quando verrà aggregato al Marchesato di Finale, dopo la lunga e drammatica “guerra del Finalese”. In quell’occasione, sbagliando i calcoli, il marchese Giorgino di Saliceto, alleato del cognato Marco di Calizzano, si schierò con i Genovesi, tradendo la “lega carrettesca”, per l’ambizione di costituire un marchesato che dalla Val Bormida raggiungesse il mare. All’epoca la “lega carrettesca” comprendeva almeno nove marchesati, conseguenze di continue divisioni, e lo stato più importante era indubbiamente il marchesato di Finale, articolato in 12 “compagne” (il Borgo, la Marina, Pia, Varigotti, Perti, Calvisio, Rialto, Ponticello, Gorra, Calice, Orco, Feglino).
7) Quando nella prima metà del XVIII secolo le paci di Utrecht e di Vienna posero fine agli ultimi marchesati (feudi imperiali), l’antico patrimonio di Bonifacio del Vasto era ridotto a sparuti paesi sparsi a macchia di leopardo sulle Langhe, destinato a finire ineluttabilmente tra le grinfie dei re di Sardegna. Tra questi Millesimo, Monesiglio, Santa Giulia, Prunetto, Gorzegno, il Carretto, Cairo, Cravanzana, Spigno, Bossolasco… firaiye avrebbe detto Bonifacio del Vasto!
Guido Araldo è nato a Saliceto, vive a Cuneo. Autore di 44 opere fra romanzi e saggi storici, alcuni dei quali apparsi in Francia a cura delle edizioni Harmattan di Parigi. Nel 2000 ha vinto il primo premio del concorso letterario “Galeotto del Carretto” con il libro Prèscricia, la Pietra Scritta. I suoi libri sono presenti nel catalogo online Feltrinelli. Per informazioni più dettagliate si invita a consultare il sito Editoriale l'Espresso "ilmiolibro.it".