Un omaggio a Guy Debord, vent’anni dopo il suicidio, prendendo in considerazione una parte importante e sempre troppo poco ricordata del suo lavoro, cioè il suo cinema, e la relazione tra questo e il pensiero.
Jason E. Smith
Guy Debord, cineasta *
Il
film di Guy Debord Critica della separazione (1961)
si presenta sia come “demistificazione del
documentario” sia come “documentario
sperimentale”. Le più ragionate analisi
e riflessioni sul film lo hanno trattato di
conseguenza come un film documentario che
paradossalmente smonta e mostra le convenzioni
e e i presupposti ideologici della
forma documentaria.
Tom
McDonough, per esempio, ha offerto una analisi
perspicace del modo in cui Critica della
separazione attacca non semplicemente
la forma generica del documentario ma ciò che al
tempo era la sua più avanzata, contemporanea
variante: il cinéma vérité e quello
che è spesso preso come il suo più importante
esempio,Chronique d’un été (1960) di Jean
Rouch. E tuttavia se il film di Debord prende come suo
obiettivo apparente il documentario
contemporaneo, propone anche – per sé –
altre generiche possibilità, proprio
al di là della forma del documentario.
Si
consideri per esempio la sequenza finale del film, che
consiste in una serie di fotografie dei membri
dell’Internazionale Situazionista accompagnata
da un monologo della voce di Debord. L’ultima parte del
monologo, che enuncia come il film non sarà in grado di
terminare propriamente, è pronunciata
su sequenze di immagini in campo/controcampo del regista
accreditato del film, Debord, e del suo
produttore de facto, Asger Jorn, come se i due
fossero in dialogo tra loro.Mentre Debord dichiara
che Critica della Separazione è«un film
che s’interrompe, ma non si conclude», la visione del film
è costretta nella lettura di una serie di dichiarazioni
sottotitolate che assomigliano alla
trascrizione di una conversazione privata,
come si fosse in un sala di montaggio, tra Debord e Jorn.
Uno
dei sottotitoli, balenando sullo schermo come
l’immagine di Jorn si rivolge verso di noi, dichiara che il film
che abbiamo appena guardato – per cui non stiamo guardando
il film stesso, ma la sua conseguenza, una nota a piè
di pagina o un’appendice – riguarda la «vita
privata» e cioè,
quindi, «è del tutto normale che un film sulla “vita
privata” sia fatto unicamente di private
jokes». Quello che segue, dobbiamo presumere,
è proprio un gioco del genere: «Si potrebbe fare una
serie di documentari come questo, della durata di tre
ore. Una sorta di “serial”/ “I misteri di New York”
dell’alienazione.»
Les
mystères de New York è il
titolo francese di una delle serie cinematografiche
più famose dell’epoca del muto, The Exploits of
Elaine (1914), con Pearl White come
l’eroina che senza sosta si mette sulle tracce di un misterioso
cattivo che ha ucciso suo padre e che è conosciuto
con l’affascinante soprannome di “The Clutching Hand”
(dato il contesto, forse traducibile con
“mano del destino”, n. d. t.). Come Critica della
separazione, la serie era molto più breve dei
lungometraggi con i quali era spesso mostrata, ed
era strutturata in una forma a episodi che
potevano essere proiettati consecutivamente
di settimana in settimana, con ogni finale – o,
piuttosto, non finale – in suspense (il
“cliffhanger”).
Il
titolo proposto potrebbe essere un “private joke”
che allude (anche se mediato riflessivamente) al gusto
equivoco proprio di Debord per il genere di fiction
e di produzione culturale più pulp, come
evidenziato dal suo libro del 1958 in collaborazione
con Jorn,Mémoires, messo insieme quasi interamente da
frammenti uniti a mo’ di collage di romanzi di
fantascienza, fumetti, foto-romanzi e i romanzi
polizieschi della Série Noire. Il riferimento
alla forma minore e obsoleta della serie
cinematografica dell’epoca del muto
suggerisce, anche, un ritorno a una forma
storica che, una volta riattivata, potrebbe essere
capace di demistificare il documentario
contemporaneo. Ed equivale a un
preveggente anche se non intenzionale segno a un
futuro vicino in cui la forma seriale verrà a essere
identificata non con il film ma con il medium
o apparato sempre più rivale, la televisione.
Niente,
comunque, ci vieta di considerare
letteralmente il joke, e concepire la
serie di brevi documentari che Debord ha cominciato
nel 1959 – Critica della separazione sarebbe
il secondo episodio della serie dei «“Misteri
di New York” dell’alienazione», dopo Sur le passage de
quelques personnes à travers une assez
courte unité de temps – non
semplicemente come documentari, ma anche
come crime stories o misteri.
Con una importante specifica: che il crimine in
questione può, in questo caso, non essere più
localizzato nel tempo narrativo o attribuito
a un soggetto individuale. Il crimine in
questione non è questo o quell’omicidio. Non
è un “torto particolare”, ma ciò che il
primo Marx chiama – in un passaggio usato altrove da
Debord – il «torto assoluto» dell’alienazione.
O della separazione.
Ma
questo non è tutto. Infatti, se Critica della
separazione è immediatamente
riconoscibile come un documentario
sulla «vita privata» e una crime
story senza soluzione, si
presenta anche come una storia d’amore stereotipata,
con una misteriosa giovane eroina che, forse, riecheggia
da lontano la “Elaine” de The Exploits, ma assomiglia
più strettamente alla Nadja di Breton.
Come
con tutti gli altri film di Debord, una gran parte di Critica
della separazione è composta di
immagini rubate, prestate o “detournate”, o di
frammenti di film da altre fonti: cinegiornali,
pubblicità, fotografie dal mondo della carta
stampata fra le altre cose. Ma a differenza di
quei film, e in particolare dei meglio
conosciuti fra questi – la versione filmica del
1973 de La società dello spettacolo e In
girum imus nocte et consumimur igni (1978)
– Il film di Debord del 1961 non usa alcun filmato dalla
storia del cinema.
Al
contrario, Debord “copre” il materiale filmato
di cui si è appropriato – giovani donne in bikini,
rivolte congolesi, il bombardamento di aerei
da guerra americani – con una narrazione
apparentemente fiction, girata in 35 mm dal
direttore della fotografia André Mrulgaski,
con un Debord – o un “personaggio” da lui
interpretato – che pedina una jeune
fille attraverso le strade di
Parigi. Talvolta lei scivola via totalmente, come
nella sequenza iniziale “trailer” del film, dove
è brevemente intravista dalla camera
montata su un auto in movimento. Talvolta
è trattenuta dalla camera che fronteggia,
muta, con la sua voce privata di suono nel momento in cui apre
bocca (come nel cinema muto), oppure dal monologo imposto
di Debord, che si rivolge non a lei ma agli spettatori
del film
. Le
convenzioni del film narrativo e di
finzione ci obbligherebbero a separare
il cineasta Debord sia nella voce di commento al film e sia
come “personaggio” interpretato, un uomo
quasi sulla trentina che, come detto, pedina una jeune
fille che sembra essere non più
di una diciassettenne. Questa separazione de
rigueur è complicata
dal fatto che noi intravediamo, ad un certo punto, la
moglie effettiva di Debord, la sola donna membro
fondatore dell’Internazionale Situazionista
(Michèle Bernstein), che accompagna la jeune
fille, come fosse lei stessa parte della storia, recitando
il ruolo della protettrice, seduttrice o rivale.
Bernstein
ha scritto due romanzi durante il periodo in cui Debord ha
realizzato questo film. Questi inglobano non
testi specifici (come Debord in, diciamo,Mémoires) ma
generi interi e le loro convenzioni. Sono storie
centrate intorno al classico tema letterario
stile XVIII secolo del triangolo amoroso, e se
consideriamo questo, siamo costretti
a considerare l’ambiguità del livello
apparentemente di finzione del film: percepiamo
che Critica della separazione registri
e sia, allo stesso tempo, un pretesto – anziché
una simulazione – per la seduzione effettiva da
parte di Debord e forse della Bernstein della jeune
fille, che concentra in sé così tanta energia
e l’epicentro stesso del film.
Chi –
o cosa – è questa jeune fille? In un certo
senso, il vero mistero che il film insegue è proprio
questa domanda. Lei parla (è sentita) una volta nel film,
ma non dentro la “realtà” prodotta dalla struttura
di finzione della storia d’amore. Al contrario,
la sua voce è sentita proprio all’inizio del film,
recitante ciò che potrebbe essere chiamata la sua
epigrafe: un passaggio dal linguista André
Martinet sulla “dissociazione” di
linguaggio e realtà. La jeune fille, o ragazza
minorenne e ribelle, è un riferimento
tematico costante nei film di Debord, da Hurlements
en favour de Sade fino al suo grande
film finale, In girum.
Ma nei
suoi primi due film, Hurlements e Sur le
passage de quelques personnes à travers
une assez courte unité de temps, la jeune fille (e
l’adolescenza e la differenza sessuale, più in
generale) non è solo un riferimento tematico.
In questi due film, la jeune fille è per prima
cosa, anzitutto, una voce che
interagisce, dialetticamente, con
altre voci. In Sur le passage, per esempio, la voce
stessa di Debord, descritta nelle note tecniche per il film
come «triste e sorda», non è la sola voce, ma
è messa in scena in relazione con altre voci, una
esplicitamente identificata come quella
della jeune fille.
Questa
iniziale pluralità di voci necessariamente
sottolinea la struttura di finzione
o drammatica della stessa voce di Debord, negandole
il privilegio di una sua centralità
o status come fonte di affermazioni teoriche
o analitiche. È piuttosto
un tono fra gli altri,
malinconico e rassegnato, innescato
contro la voce stereotipata dell’
“annunciatore”dell’altra voce maschile e la
punteggiatura della voce della ragazza. Mentre le
due voci maschili occupano i poli convenzionali
della neutralità oggettiva e del lirismo
soggettivo, la posizione esatta della voce della
ragazza in questoWechsel der Töne non
è facilmente circoscritta.
La jeune
fille, qui, è spesso usata per incanalare testi che
sono particolarmente discordanti con la sua
voce e la sua età, ironizzandoli apparentemente.
Per esempio, come fosse ventriloquio, tramite
lei sentiamo la voce di Lenin parlare della “dittatura
del proletariato” in un testo che, inoltre,
denuncia ciò che Lenin chiama i disordini
“infantili” del comunismo di sinistra: un
orientamento politico con cui Debord
e l’Internazionale Situazionista si sarebbero
identificati, in modo particolare nel
periodo immediatamente successivo al 1961.
Documentario,
scherzo, serie, detective story, o “triangolo”
romanzato: Critica della separazionecita
e alle volte impiega tutti questi generi nella sua ricerca
dei misteri dell’alienazione. E tuttavia,
a differenza dei primi due film di Debord, qui il
“soggetto dell’enunciazione” che organizza il film
è non più frammentato attraverso una
pluralità di voci, toni, generazioni e generi
sessuali. Ora, l’autorità della voce è consolidata
nel monologo di Debord, e il gioco della finzioni
e dei generi sembra organizzato intorno questa
voce e il suo correlativo generico, il
documentario. La jeune fille che
interrompeva e disorientava il dialogo
tra uomini in Sur le passage non
parla più, essendo finita dentro il film. Muta, le è qui
assegnato il ruolo di un segnale che è venuto «da
una vita più intensa».
Fin
dalle sue prime battute, Critica della
separazione dichiara il suo
tema: la perdita. La sequenza iniziale del film, per
esempio, si conclude con la vignetta di un fumetto che
raffigura una donna che parla di insuccesso e una
jeep che si impantana nel fango di una palude, accompagnata
dalla voce fuori campo di Debord che domanda «quale vero
progetto è stato perduto?» La
forma della domanda sottolinea non solo il
fallimento o la sconfitta di un progetto, ma
una incertezza circa la natura e l’esistenza di quello
stesso progetto. Per i successivi quindici
minuti, il film ritornerà ripetutamente su
questo tema, dei progetti che hanno fallito e delle
avventure che hanno perso la loro strada.
In
questo senso, Critica della separazione è davvero
il “sequel” di Sur
le passage, che anche riguarda il
fallimento delle quelques personnes del
titolo per realizzare i progetti che
formularono nel 1952, quando per prima si formò
l’Internazionale Lettrista. Critica della
separazioneparla in particolare di perdita
e della sua relazione col tempo: “del “tempo vuoto”
che si svolge senza incidente, dei “momenti perduti”
e del “tempo sprecato” nel quale le opportunità
che mai ritorneranno sono mancate, e più in
generale del tempo che “scivola via” o che noi –
Debord, il movimento rivoluzionario,
la sua epoca come un tutto – abbiamo lasciato scivolare
via. Il tempo era lì per essere preso, la voce fuori campo di Debord
malinconicamente racconta, ma il tempo
presente, il tempo dello spettacolo, è organizzato
in un tale modo che ogni incontro reale, ogni vero inizio
nella storia è mancato: «non si è inventato
nulla»,«quando si è persa l’occasione?»
In uno
dei passaggi lirici più sviluppati nella
sceneggiatura – tante delle battute che Debord
pronuncia sembrano come frammenti, cocci, frasi
circondate da un contesto fantasma,
mancante – troviamo questo tema della perdita
collegato a una figura insistente nella
scrittura dello stesso Debord, non la jeune fille ma
più in generale il bambino, l’enfant: «Tutto ciò
che riguarda la sfera della perdita, cioè quanto ho perduto
di me stesso, il tempo passato; e la scomparsa, la
fuga; e più generalmente il trascorrere
delle cose, e anche nel senso sociale dominante, nel senso
più volgare dell’impiego del tempo, ciò che si definisce
il tempo perduto, s’incontra stranamente nell’antica
espressione militare “da soldati perduti”
(cioè mandati in avanscoperta, allo sbaraglio
– les enfants perdus in
francese, n. d. t.), incontra la sfera della
scoperta, dell’esplorazione di un terreno sconosciuto;
tutte le forme della ricerca, dell’avventura, dell’avanguardia.
È a questo incrocio che ci siamo trovati,
e perduti.»
Qualsiasi
cosa uno faccia delle sue tesi fondamentali
riguardo la vita, il lavoro e la politica di Debord,
Vincent Kaufman ha avuto sicuramente ragione
a organizzare l’intera traiettoria
del lavoro di Debord intorno all’espressione e tema del
“bambino perduto”. Il senso militare
dell’espressioneles enfants perdus si riferisce
a un distaccamento di soldati mandati in
avanscoperta, spesso dietro le linee nemiche
e generalmente con una cognizione che la loro
missione sarebbe stata fatale[…]. Quello che voglio
sottolineare in questo particolare
riferimento alesenfants perdus è semplicemente
il modo in cui la nozione di incontro è paradossalmente
coniugata con quella di perdita o fuga: i vaghi
contorni della sfera della perdita sono qui presenti
data l’immagine concreta dell’incrocio in cui “noi” ci
siamo subito trovati e perduti. Questa figura
generale di incrocio e di incontro mancato –
di un tempo o di una età che in qualche modo “perde”
se stessa – è ciò che il pedinamento del
film e di Debord della giovane ragazza (prima intravista
a un incrocio nella sequenza iniziale) sembra
rendere emblematico.
Quale “vero”
progetto, allora, è stato perduto?
* Traduzione
– parziale – dall’inglese di un saggio dedicato
al suo terzo film, il corto Critica della
separazione (1961), uscito
in un numero monografico del 2013 della rivista
statunitense «Grey Room», il numero 52,
e dedicato – appunto – al cinema di Debord. Il titolo
del saggio è Missed Encounters: Critique
de la séparation between
the Riot and the “Young Girl”. L’autore – anche curatore
del numero – è Jason E. Smith: filosofo; docente all’Art
Center College of Design (Los Angeles);
collaboratore di riviste importanti
(fra cui:«Artforum» e «Critical Inquiry»)
e autore la cui ricerca – interdisciplinare,
spesso tra estetica e pensiero politico post 1968
– si muove oggi, proprio, su Debord. (Traduzione
e cura di Gianluca Pulsoni)
Il Manifesto – 6
dicembre 2014