Paradisi perduti.
Fiori, ulivi e liberty. Fu la rivista aziendale della Sasso, prima in
Europa, a creare un secolo fa l’immagine della Liguria oggi
sommersa dal fango e dal cemento. Uno scrittore ne ripercorre la
storia.
Giorgio Bertone
L’invenzione della
Riviera
Visto dal Righi, sulle alture di Genova, in una tregua delle catastrofi pluviali, così simili ai monsoni, l’azzurro del Golfo e delle due Riviere mi appare invaso da osceni laghi d’acque giallomarrone, che ogni fiume o torrente erutta, insieme con i detriti, in mare. Ricostruire a braccia, pala e ruspe, sì, che forza d’animo, ricostruire è anche un esercizio della memoria collettiva.
Le Riviere che convergono
nella capitale — quella di Ponente e quella di Levante: quasi solo
in Liguria si usano termini da carta nautica — sono diventate nel
Novecento un paesaggio riconoscibile, fatto di pietre, ulivi, coste
rocciose e scoscese in un mare profondissimo e calvo, privo di
mediazioni insulari, solo tre isolotti e lo scoglio di Bergeggi. Una
sorta di brand image che racchiude la terra e il lavoro di pescatori
(pochi) e contadini (tanti), di produttori industriali di quello che
si chiama oggi l’agroalimentare, ricollegato tardivamente allo
stile e dieta mediterranea: farina e pasta (Agnesi), latte e lattine,
e olio, olio dovunque.
Storia del primo Novecento, che ripercorro sulle belle slides inviatemi dalla Fondazione che si intitola a quel Mario Novaro, uno dei proprietari della Sasso, la cui rivista, La Riviera Ligure, da lui diretta dal 1910, contribuì formidabilmente all’ invenzione della Riviera. Il “foglio unto”, come veniva chiamato, era distribuito gratuitamente ai clienti della ditta, fino a raggiungere le centomila copie, firmato agli inizi (1895) da “Paolina Sasso e Figli”, già con una grafica, elementare, ispirata ai luoghi della costa (Oneglia e Capo Berta).
La Riviera era stata già
inventata nel pieno dell’Ottocento dagli anglosassoni, e il
patriota e latifondista di ulivi in quel di Taggia, Giovanni Ruffini,
aveva servito subito un romanzo, Il dottor Antonio, scritto in
inglese per gli inglesi (Edimburgo, 1855). Si trattava di
reinventarla a uso degli italiani. Il paradosso sta nel fatto che il
progetto di Novaro, filosofo e poeta in proprio, si intrecciò con il
destino di una personalità fortissima ma diversa anche
ideologicamente.
E oggi che per il
centenario si rilegge Il peccato di Giovanni Boine (1914, La Voce di
Prezzolini, ma a puntate sulla Riviera già dal ‘13), un romanzo
sperimentale, concitato come una burrasca di libeccio, si vede bene
che Boine diede un apporto tutto suo, antiottocento, pronto per
distruggere il pittoresco.
E il muro del Convento
delle Carmelitane al Monte Calvario (Porto Maurizio), dove sta la
monaca novizia dalla bellissima voce canora, di cui s’incanta il
protagonista, è già infitto di cocci aguzzi di bottiglia. Agrario
senza terra, bibliotecario senza biblioteca, traduttore lodato ma
inedito, volontario per la guerra subito riformato, Boine si avvicinò
a Novaro: “Novaro è un simpaticissimo uomo. Sono andato a
trovarlo. Sono entusiasta di questa gente che dà cinque o sei ore al
commercio e poi legge Hobbes e ride di Croce”.
Garantiva la rigogliosa e duratura attività della rivista proprio la pubblicità dell’olio e la munificenza di Novaro. Non proprio uno sponsor, come disse Sanguineti. L’Olio Sasso era poi pubblicizzato sulle ferrovie e — si tramanda oralmente — in un grande cartellone che nello stretto di Gibilterra salutava i migranti, accompagnandoli nei loro irrinunciabili consumi. Nella prospettiva di Boine l’olio di raffineria industriale (i primi impianti al mondo) uccideva la campagna e i proprietari terrieri, come spiegò in un testo capitale, La crisi degli olivi in Liguria ( La Voce , 1911).
Ma oggi si può dire che
i tanti nuovi oleari e pastai realizzavano in un luogo geografico non
casuale una nuova industria soft di cui beneficiarono poi i tanti
lavoratori fino a pochi decenni fa, prima della crisi, nel loro
tipico doppio lavoro: operai in fabbrica per otto ore, come i nostri
nonni, il mio proprio alla Sasso, e il resto a coltivare l’orto e
gli ulivi, con magari una terza occupazione saltuaria di pescatori
d’anguille in torrente e di polpi tra scogli.
Tutto ciò prima che la Liguria vendesse gran parte dell’anima al Lucifero del cemento. L’opera da Belle Epoque di conciliazione di paesaggio e industria sulla base di un territorio reale in trasformazione fu anche uno specchio incantato, un poco illuso- rio. L’antologizzatore e redattore della rivista riuscì comunque a infilare nelle casse dell’Olio spedito solo e direttamente ai clienti (come tutti i produttori allora, e oggi solo la “Fratelli Carli” e altre Case, tutte attentissime al family brand) i nomi più famosi e quelli d’avanguardia. Perché pagava bene, in soldi o in “olio buono”. Di qui l’eterogeneità degli ospitati: Pirandello, Deledda, Di Giacomo, Pascoli, Capuana, Soffici, Papini, Sbarbaro, Ungaretti, Savinio, Palazzeschi.
Ma l’impresa di dar
vita a uno dei primi house organ in Europa, sintetizzato in un logo
topografico, non sarebbe riuscita senza l’apporto della pittura e
della grafica. Quella più avanzata e alla moda: il Liberty. Bello e
pronto per annettere all’estetica il nuovo volto della tecnologia
industriale e già affermato nelle Riviere con la costruzione degli
hotel ispirati alle “ villes d’eaux”. Novaro ingaggiò due
campioni, Plinio Nomellini e Giorgio Kienerk. Al secondo affidò il
lettering e la copertina.
Boine non apparteneva per
nulla al Liberty, semmai all’espressionismo europeo, e neppure
Novaro, poeta in proprio. In parte il destino dei due rimase comunque
legato, come testimonierà a morte avvenuta (di tisi a trent’anni,
1917) Montale: “È morto Giovanni Boine!!! Questa notizia mi ha
fatto male. Per l’avanguardia (parlo della parte seria di essa) il
danno è incalcolabile (…). La Riviera Ligure ne resta come
diminuita” ( Quaderno genovese). Ma di fronte ai nuovi
imprenditori, quella di Boine era una ideologia conservatrice, patita
sulla propria pelle: “Si vende qui su in vallata, a dieci
chilometri dal mare, sopra Porto Maurizio, la casa di mio nonno”.
Il luogo è Dolcedo,
capitale degli antichi frantoi artigianali, che cedevano ai frantoi
industriali onegliesi: “I frantoi in vallata non lavorano più; son
chiusi in gran parte, ma i magazzini dei negozianti al mare, le
giarre, i pozzi, i truogoli dei negozianti al mare sono pieni, son
colmi”. “Botti rigonfie, botti di olio non nostro che ha nome di
nostro” (sempre La crisi degli olivi). Perché l’industria compra
da tutte le coste del Mediterraneo, anche se oggi è più attenta a
differenziare i label richiesti dai consumatori italiani e foresti.
Da quell’ideologia derivano le pagine aspre su un paesaggio duro, esente da sfumature psicologhe e sentimentali, semmai legato a una “razza”: “Terreno avaro, terreno insufficiente su roccia a strapiombo, terreno che franerebbe a valle e che l’uomo tiene su con grand’opera di muraglie e terrazze. Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra su pietra, hanno con le loro mani costruito”. Una terra a gradoni, terrazzamenti, maxei ( muri), in basso coltivate a orti, pomodori, fave e fiori, poi a ulivi, più su a grano e patate, ancora negli anni Cinquanta. E dove non ci sono più né ulivi, né castagni, né capre, né uomini, ancora fasce antiche, abbandonate.
Anche a Genova poco distante dal centro e dall’industria pesante, fino a pochi decenni fa, prima dell’anno domini della speculazione edilizia. Anche attorno al sempre terribile Fereggiano che scarica la sua furia nel Bisagno, bloccato dallo scirocco, c’erano fasce e orti mi raccontava un anziano proprietario di un laboratorio di serramenti, nei primi del novembre 2011 subito dopo l’alluvione assassina, mentre cercavamo di avvitare i giunti di plastica di una tubatura di pvc nero da un pollice e mezzo per riattivare l’acqua potabile, stando tutti e due a cavalcioni di quel torrente che pochi giorni dopo lo straripamento era già ridotto a un rigagnolo largo quanto la divaricazione delle nostre gambe.
Erano tutti orti, mi
descriveva, mentre guardavo dal basso in alto la configurazione di
isometriche costituita da palazzoni, enormi pareti verticali,
affiancati da brevi spiazzi asfaltati per le auto, poi un muraglione
verticale di cemento, una ridottissima intercapedine e, più sotto,
un altro condominio- caserma, a chiudere tutti insieme come cospirati
sull’alveo stretto del torrente.
Oggi però, qui dall’Alpicella (Capo Berta), luogo di passeggio di quelli della Riviera (alcuni dei loro manoscritti erano pieni di aghi di pino) dove nelle giornate limpide di Maestrale si vede a Levante fino al Tino e a Ponente fino all’Esterel, pare che la Corrente prevalga. La Corrente del Golfo che attraversa l’Atlantico, si infila in Gibilterra e poi risale l’Italia verso Nord a lustrare l’arco delle due Riviere da Est a Ovest, mi sembra riprendere forza, meno intersecata dal fango vomitato dai fiumi. Mi pare che il mare cominci a riprendere l’azzurro brillante.
La Repubblica – 23
novembre 2014