TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 4 luglio 2020

Giuseppe Cesare Abba poeta. Canzone in morte di Byron

    J.D. Odevaere, Lord Byron on his Death bed (1826). Groeningenmuseum


Giuseppe Cesare Abba poeta. Canzone in morte di Byron

Di Abba conosciamo l'attività di scrittore. Famosi i suoi ricordi della spedizione dei Mille a cui partecipò come semplice volontario, meno noti i suoi racconti alcuni dei quali offrono un quadro vivissimo della Val Bormida contadina di metà Ottocento. Pochissimo conosciuto è invece l'Abba poeta, autore di "cantiche" giovanili, fortemente intrise dello spirito romantico del tempo, ma in cui già emerge quella aspirazione ad una società più giusta e libera che avrebbe connotato l'intero suo percorso culturale e politico. Di questa produzione poetica, peraltro rimasta limitata agli anni giovanili e dunque con non poche ingenuità anche stilistiche, riprendiamo la cantica dedicata alla morte del poeta inglese Byron, caduto combattendo per la libertà della Grecia dal dominio turco.
La poesia venne pubblicata, colla firma G. C. A. nel periodico Diario Savonese del 24 dicembre 1859, preceduta da questa premessa:
«Pubblichiamo assai di buon grado la seguente poesia d'un giovane, ingegnosamente studioso, del circondario, essendoci parsa e per nobiltà di concetto e splendida eleganza di forma degna di essere offerta ai cultori della civile letteratura, » 
G.A.

La morte di Giorgio Byron
Cantica

Fervean le greche pugne, e il generoso
Popolo Elleno i dì tristi fra l'armi
E le notti volgea sangue anelando,
Sacrosanto lavacro, onde la terra
Dove l'uomo ebbe vita al più sublime,
Al più sacro diritto, a libertate
Si vendica.—E d'armati ingagliarditi,
Che ostia fean giubilando della vita
Per la patria e per l'are, era un immenso
Campo, Grecia in que' dì.— Le donne anch'esse,
Gli ornamenti deposti e i nivei pepli.
Gareggiavano all'armi, e avventurosa
Sé gridava colei, che un pargoletto
Serrando al seno, al balenìo dei brandi
Educarlo potesse e sacramento
Far per l'infante che sarìa cresciuto
A libertade, e, per la patria, a morte.

Era l'alba; e la notte i peregrini
Angioli che su in ciel regnan beati
Ad ogni astro le faci allegratrici
Accese non avean.— Immensamente
Strano in Grecia capriccio di natura.
Su per l'alto premeansi roteando
Negre nubi, che nordica bufera
Malignando e ruggendo flagellava
Per la plaga d'Oriente anche scoverta.
Che, dispersa la porpora e l'azzurro.
D'argento si pingea, quasi novella
sposa, che cinge ancor per una volta
Le immacolate bende, ed, infiorando
Il labbro ancro di verginal sorriso.
Lo sposo aspetta.

E già pien di sublime
Maestade sorgea sull'orizzonte
Lampeggiando dell'alma onda sul crine
Il sol, gloria di Dio.—Ma non appena
Con raggio amico salutò le torri
Di Missolungi, nelle negre nubi,
Che cozzando irrompean per improvviso
Urto di vento, s'avvolse increscioso
Di rischiarare una luttuosa scena.

E triste scena io narro.— Entro fastoso
Padiglion, dove tutta si raccoglie
La pompa oriental, conta gli estremi
Aneliti di vita, e nella lotta
Angosciosa di morte s'affatica
Il cantore di Lara.— I generosi
Che gli fan cerchio, piamente accolti,
Stancano la pupilla in lui spiando
L'affannoso respiro ; e qual con dolce
Modo il guancial solleva e qual la mano
Gli bacia e qual profumato lino
La fronte pallidissima gli terge.
Ma la quete è profonda.

Ai limitari
Muti e nei volti di dolor dipinti
S'accalcano accorrendo i desolati
Mìssolungiti e, con sommesso accento
Quella calma rompendo, a gara a gara
Si fan dimanda— «Egli sen muore, in Dio
Del sommo Filleleno inebbriata
La grande alma si affissa !—Oh sventurati
Noi, esclama un guerrier, se ne abbandona
Il Brittan generoso !...— E forte ancora
Di sì fiorita gagliardia !Lo vidi
Son pochi di, che sul corsier fumante
Balenando nel volto, irosamente
L'erta vinceva ad inselvarsi; forse
Triste pensier lo contristava e smania
Avea di quete : ed or giace al guanciale
Della morte : Sorelle, oh doloroso !,
Le nostre man la funeral ghirlanda
Deggion tesser pel grande !»

Eran di mesta
Giovinetta gli accenti ; una di quelle
Greche, cui quel morente in più bei giorni,
Quando spirava dal divin sembiante
Tutta la vampa del suo cor, destato
Forse un palpito avea.— Spirto gentile.
Se il tuo cor sofferì, se mosso il petto
Da soave sentisti aura d'amore,
Ti sovvenga di Lui, che tempestosi
Volge i suoi giorni e non trovò cotanto
Raggio di gioia, a compensar gli affanni
Che l'esistenza infunestarglì ; tutti
Tutti i mattin che si destò, gli aperse
Gli occhi alla luce il genio del dolore !

Riacceso intanto di vital scintilla
Nel già pallido volto, alzò la fronte
E pien del fuoco che i supremi annunzia
Conati della vita, a quella parte
Di ciel li volse, ove il desir pingeva
Alla mente vulcanica la terra
Dei suoi padri.—E gli amici frettolosi
Gli si accolgono in giro e, gli alleggiando
Il peso che le membra gli opprimea,
Desiosi pendean dal tremulante
Labbro, che a calde si schiudea parole.