TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 4 aprile 2022

Orvieto etrusca

 


Che la storia degli etruschi sia piena di misteri è un luogo comune. Uno di questi è la collocazione della città di Velzna, capitale politica e religiosa della Dodecapoli etrusca. Tra la fine dell'Ottocento e primi decenni del Novecento si sviluppò una vivace, ma anche confusa, diatriba se Velzna dovesse essere identificata con l'attuale Orvieto o con Bolsena. Un dibattito che, come dimostra Massari nell'introduzione che riprendiamo quasi integralmente, prese poi negli anni del fascismo carattere politico e perfino economico, legato com'era al commercio dei reperti etruschi. Insomma, un vero e proprio giallo. E piacevole come un giallo è leggere il libro di Pericle Perali, uscito originariamente come saggio nel 1905 e poi in volume nel 1928. Una vera e propria riscoperta di un testo colpevolmente dimenticato per decenni e ancora oggi ostracizzato dagli “addetti ai lavori” per motivazioni, come dimostra Massari, non sempre confessabili.


Roberto Massari

Una congiura del silenzio ben poco etruscologica

Premetto d’essere partigianamente a favore dell’opera che qui presento dell’orvietano Pericle Perali. Lo considero, infatti, l’unico etruscologo (a parte il paletnografo Ugo Antonielli, altro orvietano e suo entusiasta sostenitore) ad aver mostrato la logica storico-archeologica che sottende e unisce due tesi in genere tenute separate o erroneamente accorpate: la Velzna etrusca stava dove doveva stare (sui colli Volsinei) e il Fanum di Voltumna stava dove doveva stare (cioè a Orvieto). Aggiungo che, per mia ignoranza del testo di Perali all’epoca in cui scrivevo il mio Volsinii etrusca nelle fonti greche e latine (Bolsena 2020), non ebbi modo di segnalarlo come il principale antecedente della teoria che nel libro formulavo su Orvieto. Mi resta solo il dubbio se in passato qualcun altro - oltre a Francesco Orioli (†1856) - ha formulato l’ipotesi per ora solo mia, secondo cui i riferimenti liviani al Fanum indicano anche il nome dell’antica zona sacra sita sulla rupe orvietana e intorno ad essa, come il dato archeologico sta confermando definitivamente. Ed è con questo spirito totalmente partigiano che invito il lettore ad accompagnarmi nella riscoperta di uno studioso colpito dalla damnatio memoriae ad opera dei suoi stessi ingrati concittadini.

Oblio ingiusto di due grandi studiosi orvietani

Nel 1928, quando uscì l’edizione rinnovata di Orvieto etrusca - in forma di libro e non più come saggio del 1905 interno a una rivista specialistica - la congiura del silenzio contro l’opera di Perali non era ancora cominciata. Anzi, tutto il contrario, se si pensa che il libro fu pubblicato «a cura del Podestà di Orvieto» e stampato a Roma dalla Tipografia del Senato. E anche la dotta ed entusiastica introduzione di Ugo Antonielli - uno dei massimi paletnografi italiani, successore di Luigi Pigorini (un monumento nazionale nel campo dell’etnografia preistorica, morto tre anni prima) e direttore del Museo omonimo - contribuiva ad accrescerne l’ufficialità. Si aggiunga che il 1928 non fu un anno qualsiasi nella storia d’Italia, perché allora nacque effettivamente il «regime» fascista: adozione della nuova legge elettorale; instaurazione del totalitarismo in campo scolastico, linguistico, giudiziario, corporativo-sindacale, di stampa e radio; partenza a pieno ritmo dell’azione politico-repressiva da parte del Tribunale speciale (attivo dal 1927) con condanne a valanga, mentre si preparava il Patto col Vaticano che sarà firmato l’anno dopo. Ebbene, l’etruscologia non fu neutrale. Ci fu un utilizzo ideologico del dibattito sulla provenienza tur(s)enica (orientale o autoctona), con strumentalizzazioni razziste e nazionalistiche, e con diramazioni in campo artistico e letterario1: il tutto sotto impulso dei principali etruscologi, i più noti dei quali, fascistissimi e collaboratori del regime in campo culturale, furono tra gli altri, oltre a Massimo Pallottino, Doro Levi (Trieste 1898-Roma 1991), Pericle Ducati (Bologna 1880-Cortina d’ampezzo 1944) e Giulio Quirino Giglioli (Roma 1886-1957), scopritore dell’Apollo di Veio, deputato del Partito nazionale fascista nel 1934. Ma fascista e filohitleriano fu anche Ranuccio Bianchi Bandinelli [1900-1975], prima di convertirsi all’antifascismo militante (Partito d’Azione e poi Pci) nel 1944.

Un atto importante per la futura valorizzazione propagandistica (ma anche scientifica) dell’etruscologia era stato compiuto nel 1925 con la fondazione a Firenze dell’Istituto nazionale di Studi etruschi e italici. Sotto la sua supervisione s’iniziò nel 1927 la pubblicazione della rivista annuale Studi Etruschi e tra aprile e maggio del 1928 - l’anno di Orvieto etrusca - fu convocato il I Congresso Internazionale Etrusco. Il lavoro di Perali e la concorde introduzione di Antonielli non potevano che essere valide carte di presentazione per entrambi nell’àmbito dei lavori di tanto illustre consesso. E quanto illustre esso fosse lo sta a dimostrare la lista dei 360 partecipanti italiani ed esteri, in larga parte membri dell’Istituto. Più o meno nella stessa epoca a Perali fu intestata una strada a Roma, nei pressi della stazione di Ottavia (terminata nel 1927), come atto onorifico giacché nella stessa zona erano stati trovati l’ipogeo degli Ottavi (nel 1920) e tracce d’epoca etrusca pertinenti l’asse viario proveniente da Veio. Mai però fu intestata, nella loro città natale, una strada a lui e all’altro celebre orvietano, Ugo Antonielli. Ancor oggi i loro nomi sono sconosciuti nella toponomastica di Orvieto. Ragion per cui, le brevi note che seguono cercheranno di fornire elementi per una prima riflessione su questo grave vulnus (sgarbo?) alla loro memoria di studiosi. E si vedrà che non è stato mai perdonato loro di aver così strenuamente difeso l’ubicazione bolsenese e non orvietana dell’antica Velzna etrusca.

Dal garbuglio all’imbroglio

Conviene partire da alcuni dati sugli inizi della questione, per darle un minimo d’inquadramento storico. Nel 1905, quando uscì la 1ª versione di Orvieto etrusca, l’argomento era ancora oggetto di una discussione teorica, anche se ben poco scientifica, fra etruscologi. Esisteva una lunga tradizione, a dir poco bimillenaria, che aveva sempre riconosciuto nella città sita sui colli volsinei la diretta discendente della città-stato di Velzna, capitale politica e religiosa della Dodecapoli etrusca centroitalica. Era quindi dato per acquisito che il centro cittadino si fosse spostato dalle alture (Mozzeta di Vietena e dintorni) a siti in maggiore prossimità al lago (Poggio Moscini e dintorni) dopo la repressione della rivolta servile (264 a.C.), di cui parlano ampiamente le fonti latine e greche. Riguardo a tale forzoso spostamento urbanistico, il consenso era stato sempre generale, includendo anche fonti autorevoli come George Dennis (1814-1898) e Karl Otfried Müller (1797-1840) nel suo Die Etrusker del 1828 (vol. I, pp. 220-2). Lo stesso Müller, però, aveva avuto un parziale ripensamento e nello stesso tomo, in una noticina di p. 451, aveva espresso il dubbio che Velzna fosse ubicata originariamente a Orvieto. Una semplice frasetta che però, nell’edizione del 1877, il curatore Wilhelm Deecke (1831-1897) farà scomparire, considerandola probabilmente controproducente per lui che credeva sul serio che Velzna stesse a Orvieto. Sicché col tempo la frasetta del 1828 era diventata irreperibile, ma in qualche modo doveva esser girata la voce che Müller aveva cambiato idea, tant’è vero che alcuni studiosi di fine Ottocento cominciarono a far propria tale posizione, attribuendola artificiosamente allo studioso prussiano, senza distinguo di sorta e soprattutto senza mai citare la famigerata frasetta. Era nata comunque la leggenda che esistesse una «teoria» di Müller sull’ubicazione orvietana di Velzna: credenza ancor oggi in pieno auge presso i principali etruscologi che continuano a ignorare il testo mülleriano e, per ignoranza o malafede, non citano la frasetta in questione.

Nel corso dell’Ottocento la tesi degli «orvietani» (d’ora in avanti chiamerò in tal modo i sostenitori dell’ubicazione di Velzna in Orvieto, per distinguerli dai «bolsenesi») trovò proseliti, ma anche oppositori e a volte una confusa mescolanza dei due, creando una sorta di garbuglio teorico, se non un vero e proprio guazzabuglio. I contributi alla discussione dati da studiosi come Chevalier Bunsen (1791-1860), Niccola Palma (1777-1840), Francesco Orioli (1783/85-1856), Luigi Canina (1795-1856) e gli altri sopra citati, sono stati comunque tutti analizzati nel mio lavoro già segnalato, dove credo di essere riuscito a dipanare in gran parte il garbuglio.

A parziale spiegazione, e forse giustificazione della confusione tra gli etruscologi di fine Ottocento, va detto che le ricerche archeologiche sui colli volsinei (e non nella sola città etrusco-romana) stentavano a partire, e soprattutto ancora non era stato intrapreso lo scavo di una parte dei 6 km della cinta muraria di Velzna (che comincerà solo negli anni ’40), anche se Perali aveva parlato già da tempo di quei «grandiosi muri tufacei etruschi nelle vicinanze della moderna Bolsena» (per es. nella conferenza per la Società Storica Bolsenese, a luglio del 1905).

Va riconosciuto, comunque, che si trattò pur sempre di una discussione teorica, con argomenti più o meno condivisibili da una parte e dall’altra, venata di quel tanto di toni polemici che non possono mancare nelle diatribe fra studiosi, meno che mai in campo archeologico. Ma quando nel 1881, un pezzo da novanta dell’etruscologia come Gamurrini scrisse il saggio appena citato, il piatto della bilancia sembrò pendere dalla parte «orvietana». Per incredibile che possa sembrare, quel testo così ingenuo, rimane ancor oggi l’unico saggio che si sia posto il compito di dimostrare che Velzna stesse a Orvieto e non a Bolsena. Gli altri etruscologi «orvietani», infatti, si sono sempre guardati bene dal proporre un’analisi complessiva a dimostrazione della propria tesi: si limitano a brevi cenni all’argomento (spesso in forma di frecciatine polemiche), si danno ragione o si rinviano gli uni con gli altri, oppure (vedi per es. «Società e cultura a Volsinii» [1985] di Giovanni Colonna) forniscono una descrizione dell’antica Orvieto dando per acquisito che essa fosse Velzna.

Sulla storia di come il garbuglio divenne imbroglio tornerò tra breve. Si può immaginare lo scompiglio che nel mondo etruscologico si verificò quando nel 1896 Gamurrini ritrattò pubblicamente la sua precedente posizione e affermò che Velzna era stata sempre a Bolsena (v. avanti, pp. 121 sgg). Certo, nei primi del Novecento restavano ancora degli accaniti difensori della tesi «orvietana» (in primis Luigi Adriano Milani [1854-1914]) o un po’ meno accaniti (come Ettore Gabrici [1868-1962]); ma tornando al 1928, si può dire che la fase più accesa della polemica era sostanzialmente superata e ormai nel mondo etruscologico italiano la maggior parte degli studiosi propendeva per la tesi «bolsenese». Fosse stato altrimenti, Perali e Antonielli non avrebbero avuto tanto riconoscimento ufficiale proprio nel 1928.

La conferma concreta di quanto appena detto l’abbiamo nel 1939, quando il trentenne Massimo Pallottino (Roma 1909-1995) - già emerso alla celebrità con il libro sulla lingua etrusca (1936) e al quale il regime aveva conferito importanti incarichi come la Sovrintendenza alle Antichità di Roma (1933) o la direzione del Museo di Villa Giulia (1937) - pubblicò la 1ª edizione del suo celebre manuale: Gli Etruschi (C. Colombo, Roma, 296 pagine). È una «1ª edizione» che non viene mai citata, preferendo fingere che la prima sia stata nel 1942 (Hoepli, stesso formato, stesso numero di pagine e contenuti simili, ma titolo mutato in Etruscologia). E la ragione è molto semplice: nell’ed. del 1939 Pallottino aveva affermato chiaramente che Velzna si trovava accanto al lago di Bolsena (p. 197), mentre in quella di gennaio 1942 (edizione rivista quindi nel corso del 1941, quando l’Italia era entrata in guerra a fianco di Hitler) Bolsena scompare (salvo rari e generici accenni), mentre di Orvieto si dice solo che era «una grande città etrusca della quale ignoriamo il nome antico» (p. 135).

Insomma, Bolsena e Orvieto etrusche erano state di fatto cancellate! Qualcosa era accaduto o qualcuno era intervenuto perché Pallottino facesse marcia indietro sulla questione Velzna bolsenese. Ma lui, pur tacendo, aveva trovato il modo di ribadire più o meno celatamente che Orvieto non era stata Velzna. Nel 1947, nella 2ª edizione del manuale (la 3ª, nel mio conteggio), Velzna ricomparve miracolosamente sui colli bolsenesi e, visto ciò che lì stava emergendo grazie a Raymond Bloch e all’École française, Pallottino fece anche un riferimento ai «ritrovamenti di una certa importanza che si sono fatti» (p. 144). Con parole analoghe e varie aggiunte questa sarà la sua posizione in tutte le edizioni successive fino alla 6ª (in realtà la 7ª) del 1968 che ebbe 4 ristampe, ogni volta riviste («integrate») fino al 1980. (Nel mio libro le ho tutte citate, riportando sempre i numeri di pagina.)

Ora ci dobbiamo concentrare invece sulle tre date «pallottiniane» perché gettano un fascio di luce sinistro sull’intera vicenda: abbiamo detto che nel 1928, domina ufficialmente la posizione «bolsenese» (Perali, Antonielli ecc.); nel 1939 Pallottino lo conferma nell’edizione in anteprima del suo celebre libro; nel 1942 (in realtà 1941), Pallottino tace sull’argomento e solo indirettamente fa capire che continua a pensarla come prima; nel 1947 Pallottino torna a difendere esplicitamente la posizione «bolsenese», come del resto farà fino al 1980.

Cos’era accaduto tra il 1939 e il 1947?

La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo. In mezzo a quelle due date c’era stata la guerra, con un crescente avvicinamento del regime fascista al nazismo, e con un aumento vertiginoso dell’influenza nazista in Italia, sfociata poi nell’occupazione vera e propria dopo il settembre 1943. Ed è noto che i nazisti andarono a caccia di reperti etruschi, così come avevano fatto e continuavano a fare alcuni ricchi esponenti dell’aristocrazia orvietana e della Tuscia. Ma i nazisti, a differenza della maggioranza degli studiosi italiani, avevano alle spalle anche una tradizione teorica tedesca di stampo «orvietano» risalente all’Ottocento (vedi Deecke e altri) e via via rafforzatasi. Inoltre in Germania le questioni accademiche e archeologiche dipendevano dal Ministero della propaganda nazista diretto da Joseph Goebbels, mentre in Italia erano in mano al MinCulPop, cioè il Ministero della cultura popolare, dal quale dipendevano anche istituti economici come l’Ente nazionale per le industrie turistiche e il Comitato per il credito alberghiero. Parlando quindi del periodo bellico va detto che, al di là della dimensione teorica e secondo le ben note leggi di mercato, cominciò a prevalere la dimensione commerciale, nel senso della valorizzazione (=accrescimento di valore) che potevano acquisire i reperti etruschi comprati o trafugati, se si fosse potuto garantire che la loro provenienza era dalla capitale della Dodecapoli etrusca e non semplicemente da tombe sparse nella valle del Paglia o da una rupe tufacea della cui città posta in cima s’ignorava il nome. In realtà il trafugamento e il mercato dei reperti esistevano da oltre un secolo, ma il contesto bellico e il connubio nazi-fascista (con tutta l’illegalità che essi rendevano più facile) favorì inaspettatamente tale «commercio».

Fu quindi per ragioni economiche che la teoria «orvietana» riprese vigore, grazie al nazismo e alla collaborazione dei gerarchi fascisti, locali o di altre città. E fu così che anche alcuni «collezionisti» italiani di etruscherie trovarono più utile ricominciare a imporre la teoria «orvietana» a detrimento della «bolsenese». Ma fu anche questa la ragione per cui il nome di Perali e il suo Orvieto etrusca caddero nell’oblio, dal quale li trae fuori ora, dopo quasi un secolo, questa pubblicazione. Mi rendo conto di non aver prove concrete per quanto affermo, perché il mio ragionamento è fondamentalmente d’ordine logico-storico. Sono però pronto ad ascoltare chiunque riesca a spiegarmi 1) perché nel 1941-42 Pallottino dovette tacere sulla questione Velzna «bolsenese» che aveva invece difeso nel 1939; 2) perché nel 1947 poté tornare a esprimerla liberamente; ma soprattutto 3) perché la tesi «orvietana» riprese vigore nel dopoguerra, proprio quando era divenuta più che mai indifendibile in séguito allo scavo di 6 km di mura ciclopiche sui colli volsinei.(...)

E comunque, se la tesi «orvietana» riprese vigore durante la guerra non per nuove scoperte teoriche o archeologiche, ma per ragioni puramente materiali, significa che si trattò di una truffa. E di questa ora dobbiamo parlare, avvisando che essa ha perso da tempo gli originari connotati economici (pur restando un qualche strascico in campo turistico), e ha invece acquisito dimensioni accademiche ferree: da decenni, infatti, non viene più consentita la carriera universitaria o archeologica a coloro che non sottostanno al diktat di alcuni titolari di cattedra, di alcuni responsabili di Sovrintendenze o di istituzioni museali. Tra tutti costoro si è da tempo stabilita una sorta di omertà «etruscologico-orvietana», per cui solo continuando a fingere che Velzna stesse a Orvieto si può sperare di accedere alle relative carriere. Se un paio di studiosi affermati, seguendo l’esempio di Gamurrini, avessero il coraggio di denunciare dall’interno delle istituzioni l’inconsistenza della tesi «orvietana» (come ha fatto il sottoscritto, ma da outsider) il castello crollerebbe e si vedrebbe che l’imperatore è nudo.

La paura che la verità emerga spiega anche comportamenti frutto di autentica paranoia o inquisitoriali come quelli che riporto al termine di questo libro.