TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 15 agosto 2022

L'estate torbida del 1945 tra vendette e misteri

 


Appena letto

L'estate torbida (1990) è il secondo romanzo di Carlo Lucarelli nato dalla sua tesi di laurea sulla polizia della Repubblica di Salò. È la storia di un poliziotto repubblichino, che pur non avendo avuto parte nei crimini del regime, è in fuga dopo la Liberazione, Lucarelli compone una storia torbida, fatta di vendette, omertà, paura, ma anche di orgogliosa rivendicazione della lotta partigiana. Uomo onesto, il commissario De Luca, si trova costretto sotto falso nome ad indagare sul massacro di una famiglia di contadini nella Romagna violenta dell'estate '45. Un quadro vivissimo dell'Italia di allora popolato di ex fascisti che di notte scompaiono per non riapparire più, partigiani che sognano la rivoluzione o che sono diventati gangster, ragazze (“la Tedeschina”) che sono andate con i tedeschi e ora ne pagano le conseguenze. Onnipresente il “Partito”, che cerca non senza fatica di bloccare la spirale delle vendette, perché il tempo delle armi è finito e ora si apre la stagione della ricostruzione. Ma non tutti lo capiscono e l'accettano. Un libro da leggere per capire l'atmosfera di quei giorni e come sia impossibile uscire da una dittatura ventennale e da due anni di guerra civile feroce mantenendo integra la purezza degli ideali.

Un romanzo di 80 pagine, intensissimo, a dimostrazione che anche con i "polizieschi" si può fare letteratura e storia. Ne proponiamo una pagina:

«Qui si c'è da fare... il fronte è stato fermo sul fiume e per due mesi ci siamo presi le cannonate di tutti, tedeschi, inglesi e polacchi. Non c'erano praticamente più vetri in paese. Ma noi ci siamo dati da fare... ha visto la scuola, ingegnere? La stiamo rimettendo su da soli, con i soldi della cooperativa». «Davvero?» disse De Luca, con interesse esagerato. Ma c'era Camera che lo fissava, dall'altra parte del tavolo e lui Io sentiva, anche se non lo guardava, lo vedeva con la coda dell'occhio, appoggiato pesantemente al piano di legno, con le mani enormi sulle braccia, le spalle larghe e il collo massiccio, il volto magro e affilato, dalla carnagione scura. Sotto il tavolo si strinse le mani fino a farsi male.

«E questo è solo l'inizio, ingegnere» disse Bedeschi, che aveva i capelli bianchi e un paio di baffetti sottili, stretti sul labbro superiore. «Tempo un anno e Sant'Alberto sarà meglio di prima. E lo sa perché? Perché qui siamo uniti. Io non conosco le sue idee politiche, ingegnere...».

«Non mi interesso di politica» si affrettò a dire De Luca.

Bedeschi annui, serio. «Neanch'io, se questo significa parlare e basta, ma quando fare politica significa progettare il futuro, allora è proprio questo il momento adatto, perché adesso, cacciati i fascisti e cacciati i tedeschi, si tratta di ricostruire. E d'accordo, ingegnere?».

De Luca si strinse nelle spalle, imbarazzato. «Ecco, io...» iniziò, ma la voce profonda di Camera lo copri e copri anche il brusio indistinto che c'era nella stanza.

«Via i fascisti e via i tedeschi, bravi! E adesso che è finito tutto possiamo tornarcene a casa. Come dici tu, Savioli? Normalizzazione...».

«La guerra è finita, Learco...» disse il sindaco, duro, con la voce che gli tremava.

«Ah, è finita? Io non me ne sono accorto... perché in giro io vedo sempre la stessa gente di prima e qui e a Roma ci sono ancora le stesse facce da culo o da prete. Ci vogliono solo delle teste dure come voi per fare certi discorsi!» e batté il pugno chiuso a martello sulla fronte di chi aveva vicino, guardando il sindaco, che spostò indietro la test istintivamente.

«Le cose cambieranno, Learco» disse Bedeschi, con un sorriso indulgente, «cambieranno, vedrai e anche in fretta... ma ci vuole il sistema giusto».

«Io ce l'ho il sistema» Camera si batté una mano sulla giacca, vicino alla cintura, «ed è un pezzo che vado avanti con quello».

Il sindaco sfilò dalla tasca un giornale piegato per il lungo e lo tenne in mano, agitandolo. «Sull'Unità di oggi» disse, «c'è un corsivo di Togliatti che dice Noi vogliamo uno stato democratico forte e ordinato, con un esercito solo, una sola polizia...».

Carnera si sollevò sulle braccia, strappò il giornale di mano al sindaco e lo gettò sul tavolo, con violenza. De Luca lo prese al volo, fermandolo prima che gli rovesciasse addosso il bicchiere.

«Che venga qui, Togliatti!» ruggì Carnera, «ce l'ho anch'io un bel discorso da fargli a Palmiro! Se proprio vuole la mia pistola, eccola qua! Che venga a prendersela!».

Mise una mano sotto alla giacca e sfilò una pistola, sbattendola di piatto sul tavolo.

«Con te non si può parlare!» sibilò il sindaco, irrigidito contro lo schienale della sedia».


Carlo Lucarelli
L'estate torbida
Einaudi 2017 (nuova edizione)