TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 31 agosto 2022

Quando l'Italia sbarcò a Tripoli. La verità sul colonialismo italiano in Libia

 


La tragedia libica, oggi visibile nella guerra civile strisciante fra i vari gruppo tribali e nella fuga disperata per mare dei migranti, ha radici lontane che chiamano direttamente in causa l'Italia. È quello che denunciavamo nel 1986 – quando ancora Gheddafi era ben saldo al potere – con questo articolo apparso sulla rivista della Lega Comunista Rivoluzionaria (LCR), sezione italiana della Quarta Internazionale.


Giorgio Amico

Quando l'Italia sbarcò a Tripoli


All'inizio di questo secolo l'Italia ha ormai raggiunto un grado di maturità imperialistica tale da rendere necessaria la conquista con ogni mezzo di nuovi mercati. L'avanzato processo di compenetrazione tra capitale finanziario e industriale spinge in direzione di una vigorosa politica espansionistica. Sono in particolare i gruppi legati alla finanza vaticana a puntare su di una proiezione nel Mediterraneo che in particolare privilegi il settore libico. Tra il 1907 e il 1910 con il fattivo appoggio del governo, il capitale italiano opera una capillare penetrazione in Libia fondando giornali come l'Economista di Tripoli, sorto nel 1910 con i fondi del cattolico Banco di Roma, e aprendo banche, istituendo linee di navigazione, creando aziende agricole.

Parallelamente, a livello politico nazionalisti, democratici di sinistra e perfino socialisti come Antonio Labriola, sviluppano la teoria del cosiddetto "imperialismo proletario", individuando in una politica espansionistica nel Nord-Africa la soluzione naturale alla questione meridionale e al problema dell'emigrazione. C'è poi chi, in questo precursore del vitalismo fascista, vedrà nell' espansionismo coloniale il segno di una "rinascita" morale del paese dal mediocre politicantismo affarista della classe dirigente dell'epoca. "L'impresa libica non ci darà nessun frutto materiale" scrive nel 1912 Gaetano Salvemini, "ma dovremo tutti alla fine considerarla, dal punto di vista morale, come un grande beneficio per il nostro paese".

L'occupazione della Libia finisce per diventare in quegli anni una sorta di idea fissa della politica italiana; l'entrata in guerra nel settembre 1911 col pretesto, tanto di moda anche oggi, della difesa dei residenti italiani in pericolo, suscita un'ondata di entusiasmo nel paese. Di fronte al fatto compiuto il movimento operaio, che pure è totalmente contro la guerra, stenta a reagire. La sinistra rivoluzionaria è isolata e divisa, mentre la destra socialista di Bissolati si schiera apertamente a fianco di Giolitti e il centro riformista di Turati-Treves non va al di là di una blanda condanna verbale. Nonostante il trionfalismo del socialista Pascoli che declama "la Grande Proletaria si è mossa", la storia militare della conquista della Libia è una delle pagine più nere della storia dell'esercito italiano. Il corpo di spedizione deve affrontare non solo poche migliaia di soldati turchi, ma la resistenza compatta e accanita dell'intera popolazione araba. La repressione è durissima, tutta rivolta contro la popolazione civile, ma non ottiene apprezzabili risultati se, ancora nel 1918, al di là della costa, il dominio italiano è solo formale. Al di fuori delle poche città presidiate dalle truppe, la guerriglia rende gran parte del territorio libico inaccessibile agli occupanti. "Arriveremo a Gialo, a Cufra e anche più in là" dice un'ironica canzonetta molto in voga tra i soldati italiani, "ma per uscire dalla porta, ognor la scorta ci vorrà".

Uno scritto di Lenin 

Le radici imperialiste della guerra per Tripoli e il suo carattere inumano sono lucidamente colte da Lenin in una nota pubblicata sulla Pravda dell' 11 ottobre 1912:

"L'Italia ha vinto. Un anno fa essa si è data a predare le terre turche in Africa e d'ora innanzi Tripoli apparterrà all'Italia. Non è superfluo gettare uno sguardo su questa tipica guerra coloniale di uno Stato civile del secolo XX.

"Che cosa ha provocato la guerra? La cupidigia dei magnati della finanza e dei capitalistici italiani, che hanno bisogno di un nuovo mercato, hanno bisogno dei progressi dell'imperialismo italiano. "Che cosa è stata questa guerra? Un macello di uomini, civile. le, perfezionato, un massacro di arabi con armi modernissime. Gli arabi si sono difesi disperatamente (...) per punizione (...) si sono depredate e massacrate famiglie intere, massacrati bambini e donne. Gli italiani: ecco una nazione civile e costituzionale. Circa mille arabi sono stati impiccati (...) 14.800 sono stati massacrati. La guerra, nonostante la pace, si prolungherà di fatto, perché gli arabi all'interno, lontano dalla costa, non si sottometteranno. Ancora per molto tempo essi saranno inciviliti per mezzo delle baionette, delle pallottole, della corda, del fuoco, degli stupri.

"Certo, l'Italia non è migliore né peggiore degli altri paesi capitalisti, tutti ugualmente governati dalla borghesia la quale, per una nuova sorgente di profitto, non indietreggia davanti a nessun macello". 


   Omar al-Mukhtar


La "riconquista"

Al termine della prima guerra mondiale l'Italia ha finalmente l' opportunità di procedere alla repressione del movimento patriottico libico, utilizzando a tal fine una parte rilevante delle risorse belliche accumulate negli anni della "grande guerra". E' il liberale e antifascista Giovanni Amendola, ministro delle colonie, a dare nel gennaio 1922 il via alla "riconquista" della Tripolitania. Benito Mussolini non farà altro negli anni successivi che continuare la politica coloniale dell' Italia liberale di cui eredita "miti, obiettivi, uomini".

I metodi saranno, se possibile, ancora più spietati di quelli usati nel decennio precedente e che Lenin aveva tanto efficacemente bollato. I generali italiani condurranno per oltre dieci anni una vera e propria guerra di sterminio contro una popolazione che non riescono a sottomettere. Lo sforzo militare si accanisce di più contro gli accampamenti dei nomadi che contro le bande dei ribelli. Le truppe italiane occupano una regione per volta, eliminando con ferocia ogni focolaio di resistenza.

Nel 1925 la Tripolitania è "pacificata", nel 1929 tocca al Fezzan e alle regioni del Sud sperimentare quella che il regime chiama pomposamente "la pace romana". Badoglio, governatore della colonia, e Graziani, comandante militare, si ispirano ai metodi militari e politici usati dai francesi in Marocco: repressione spietata, trattative con una parte dei capi locali, utilizzo spregiudicato delle rivalità ataviche fra le tribù.

La resistenza maggiore gli italiani la incontrano in Cirenaica: risponderanno facendo terra bruciata. "La società dei pastori seminomadi del Gebel" scrive a questo proposito lo storico militare Giorgio Rochat "fu distrutta con un genocidio freddamente preparato e portato a termine sotto la copertura della censura e della propaganda fascista".

Il massacro di un popolo

Nel 1930, di fronte alla disperata resistenza degli abitanti del Gebel, Graziani, il futuro capo dell'esercito collaborazionista della RSI, chiede e ottiene i pieni poteri. Per impedire ogni rifornimento ai ribelli, il confine con l'Egitto viene chiuso con uno sbarramento fortificato di oltre 370 chilometri, mentre la popolazione viene interamente deportata in cinque grandi campi di concentramento sulla costa.

Le oasi vengono occupate militarmente, i pozzi fatti saltare con la dinamite, il bestiame, unica ricchezza del territorio, massacrato. Ventimila persone fuggono in Egitto, alcune migliaia muoiono di stenti durante la fuga o vengono massacrate dagli italiani. Nei campi le condizioni alimentari e igieniche sono spaventose: si tratta, con alcuni anni di anticipo su quelli tedeschi, di veri e propri campi di sterminio in cui perderanno la vita oltre 40.000 libici, un quarto dell' intera popolazione della Cirenaica, in maggioranza vecchi, donne e bambini.

Privata dell'appoggio della popolazione, senza possibilità di rifornimenti, la guerriglia viene rapidamente soffocata. Nel settem-bre1931 gli italiani catturano e impiccano il capo della rivolta, Omar al-Mukhtar, un vecchio di settant'anni! Nel gennaio 1932 Badoglio e Graziani annunciano trionfanti che la ribellione è definitivamente soffocata.

"Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace" aveva scritto venti secoli prima Tacito a proposito della "pace romana", e in effetti la Cirenaica "pacificata", distrutta, spopolata, altro non può essere considerata che un deserto. Eppure né Badoglio, né Graziani, né alcuno dei numerosissimi ufficiali che allora si macchiarono di ogni sorta di crimini furono mai processati per tali atrocità, neppure dopo il 25 aprile 1945. Graziani fu condannato solo per i crimini commessi al servizio dei tedeschi durante la repubblica di Salò e amnistiato pochi anni dopo. A Badoglio, diventato capo del primo governo post-fascista, fu addirittura intitolato un paese. Molti criminali di guerra continuarono la loro carriera nel nuovo esercito "democratico". La "Repubblica democratica nata dalla Resistenza" stese un velo sulle sanguinose e brutali vicende libiche continuando così di fatto l'opera di rimozione già intrapresa dal fascismo.

Bandiera rossa, n.9, 15 giugno 1986