TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 30 settembre 2010

Contro l'editoria, ovvero il libro come merce


Roberto Massari, editore contro corrente, da tempo sta sviluppando assieme a Pino Bertelli una riflessione sul mercato della comunicazione che contiene spunti di grande interesse. Non ce ne voglia l'amico Roberto se riprendiamo per Vento largo un estratto di un suo lavoro molto corposo che sta circolando in bozze nel reseau libertario internazionale "Utopia Rossa".


Roberto Massari

Contro l'editoria, ovvero il libro come merce


Con l’avvento della società (civiltà?) borghese, il valore d’uso del prodotto editoriale non si volatilizza, non cessa di esistere e ancora resiste ai nostri giorni, nonostante le crescenti molestie informatiche che subisce per la concorrenza del World Wide Web. Ma esso perde qualsiasi forza d’attrazione o di condizionamento nei confronti dei centri decisionali dell’editoria dominante. Il potere editoriale capitalistico - in fieri in determinati contesti, come all’epoca dell’Encyclopédie, oppure già saldamente installato (secondo un percorso dell’editoria commerciale facilmente ricostruibile da allora ai nostri giorni e molto oltre) - perde via via interesse nei contenuti ideologici del libro al livello di macrosistema, conferendo il compito di regolatore delle scelte (sempre meno) redazionali al nuovo dominatore indiscutibile di ogni aspetto della vita economica e non solo: sua eccellenza Il Mercato.
(...)
I contenuti ideologici, politici o culturali a volte possono ancora interessare la singola impresa editoriale, soprattutto se caratterizzata (e finanziata) in senso confessionale, partitico o associazionistico, ma non possono alterare il ciclo di valorizzazione e riproduzione del capitale investito nel circuito librario dalle grandi imprese editoriali. Basti pensare, per averne un esempio recente tutt’altro che paradossale, alla miriade di libri e libretti rivoluzionari, guerriglieristici, anarchici, situazionisti, luddisti, operaisti, marxisti-leninisti ecc. pubblicati dalle grandi corporazioni editoriali dei principali paesi imperialistici (l’Italia e la Francia in primis) durante la rivolta antisistemica del ‘68 e negli anni seguenti. E non stiamo parlando solo di un imprenditori anomali come la Feltrinelli o Maspero (il Feltrinelli o il Maspero di allora), ma anche di grandi imprese economiche come Mondadori, Einaudi, Laterza ecc. (Sull’itinerario di queste e le altre principali imprese editoriali in Italia, si veda Nicola Tranfaglia-Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani, Laterza, Bari 2000, ma anche Mario Sabbieti, Mestieri di carta, La Casa Usher, Firenze 2007.)
Evidentemente, poiché pecuniae unum regimen est rerum omnium [l’unico governo di tutte le cose è quello del denaro], l’editoria dominante nella società del capitale monopolistico non trova più alcuna ragione per impedire la circolazione delle opere antagonistiche, purché esse siano in grado di farsi valere sul mercato. A ciò che può essere scritto dentro il libro, gli azionisti delle grandi imprese editoriali non potrebbero essere meno interessati, purché non si violino leggi o regolamenti che possano poi costringere a pagare multe o a far ritirare le merci dal circuito librario, perdendo così del denaro.
In tale orientamento - fondato sul predominio di criteri commerciali, che per il capitale è un fatto «naturale» e non un prodotto di scelte umane (è casomai l’essere umano che vi si deve adeguare) - l’editoria sistemica è confortata anche dal fatto che tutta la pubblicistica più o meno antagonistica che essa fa circolare, a intervalli determinati dalle ricerche di mercato e dalle mode, non costituisce più una minaccia politica nella stragrande maggioranza dei paesi capitalistici. La pubblicistica cosiddetta «alternativa» ha perso da tempo qualsiasi possibilità di modificare la consapevolezza delle classi subalterne o di incidere sui rapporti di forza tra le classi. E ciò per altre moderne ragioni che accenneremo alla fine del discorso e che possiamo nell’attesa anticipare nella formula del potere assoluto della società spettacolare di massa. Vi ritorneremo.
Per il momento ricordiamo soltanto che la storia dell’arte tipografica e dell’editoria di massa è strettamente legata alla nascita dei partiti, all’avvento dei sistemi parlamentari, alla necessità della propaganda politica, al ritmo convulso che via via hanno assunto le competizioni elettorali, ai grandi interessi economici in gioco nel corso di queste stesse sempre più frequenti consultazioni. Sul tema si rinvia volentieri a un gustoso libriccino (formato mignon di cm 8 x 11,5, ma di 384 pagine) - I comunisti mangiano i bambini. La storia dello slogan politico (Garzanti, Milano 1994) - in cui l’autore, Gianluigi Falabrino, offre alle pp. 6-7 una precisa sintesi della sua tesi di fondo:
«La premessa per la pubblicità commerciale e per la moderna propaganda politica è l’invenzione della stampa: l’una e l’altra potranno nascere quando alla stampa si aggiungeranno l’industria e i trasporti, così che lo stesso messaggio potrà essere distribuito in migliaia di copie (più tardi in milioni di esemplari) raggiungendo anche il pubblico più lontano (...). L’invenzione della stampa porta i primi frutti politici appena tre secoli dopo Gutenberg, alla fine del ‘700, con il fiorire dei giornali americani anticoloniali e con la Rivoluzione francese, contrassegnata, fra l’altro, dal pullulare dei partiti e dei loro giornali».



Nell’era del capitalismo industriale il libro diventa pertanto una merce a pieno titolo che con le altre merci condivide il generale carattere «feticistico», secondo la definizione che ne diede Marx nel I vol. de Il Capitale (tralasciando la ridda d’interpretazioni che il termine ha prodotto nella verbosità tipica degli epigoni del marxismo): e cioè il fatto che alla merce (anche in forma di libro) nella società capitalistica viene attribuita un’esistenza indipendente, un ruolo di rapporto sociale reale, perdendo di vista in tal modo la sua natura intima (l’essere necessariamente un prodotto del lavoro umano, quindi una cosa), e il fatto che, nel momento in cui essa assume tale status, sono i rapporti sociali esistenti tra gli uomini ad assumere nello scambio l’aspetto di rapporti tra cose. Marx lo chiama anche l’«arcano» del rapporto di produzione fondato sullo scambio di merci, e della forza di lavoro tra queste. [Sul tema del feticismo della merce e della merce-spettacolo in particolare devo rinviare al mio intervento al seminario dell’Aquila dedicato a Debord: «Da La società dello Spettacolo ai Commentarii. Note di lettura», in Antonio Gasbarrini (a cura di), Guy Debord. Dal Superamento dell’arte alla Realizzazione della filosofia, Angelus Novus/Massari ed., 2008, pp. 50-1.]
Ebbene, a questo feticismo «naturale» della merce-libro all’interno della società capitalistica, va aggiunto un secondo tipo di «feticismo» che non è deducibile dalle leggi di funzionamento economico del sistema, bensì dalla percezione che gli individui hanno della funzione del libro. In quanto tale, esso accompagna la forma-libro (tavoletta o papiro che fosse) fin dalla nascita. E pur modificandosi radicalmente nei secoli, si può agevolmente pensare che continuerà ad esistere ancora per molto, anche se è praticamente impossibile prevedere quali trasformazioni interverranno in seguito a profonde modifiche materiali cui stiamo assistendo nel processo di programmazone-ideazione, scrittura, fabbricazione e diffusione del libro, o di ciò che andrà ancora sotto tale nome.
Volendo chiarire meglio questo secondo tipo di feticismo, non prodotto specificamente dal capitalismo o da una determinata società di classe, il termine che viene spontaneo alla mente come forma di associazione concettuale è «miraggio». Il libro è un prodotto materiale, tangibile dell’operosità umana, ma è avvolto da un’aura di intangibilità e di prestigio quasi sovrannaturali. Esso sembra promettere la vita eterna o perlomeno una maggiore permanenza nel fluire del tempo. La promette in primo luogo per se stesso, in quanto oggetto materiale sopravvissuto al passare dei secoli e ormai sempre più facilmente riproducibile. E quindi per l’autore, forse per l’editore, ma un frizzico di quell’aura miracolosa finisce col cadere anche sull’animo del lettore. Questi, leggendo un’opera dell’antichità (per es. l’Asino d’oro di Apuleio o i Carmina di Catullo) sente rivivere in sé le emozioni che originariamente animarono gli autori e li spinsero a scrivere quelle opere. Poi, ascoltandosi meglio, sente rivivere la proiezione di quelle emozioni sui tanti altri lettori che prima di lui, nel corso dei secoli o dei millenni (i lettori di Omero, per es.) si sono accostati all’opera: avverte un-non-so-ché di collettivo ed extratemporale nel processo di fruizione, degustazione e archiviazione mentale del libro. Di lì a immaginare che le stesse emozioni potranno essere vissute dai futuri lettori, in epoche e galassie ancora da definire, il passo è breve.
Il feticcio (miraggio) di secondo tipo che il libro produce o evoca (e che spesso si riflette in altri libri ricavati dal libro originario, libri tra loro imparentati, libri che dialogano tra loro...) non è del tutto fittizio, a differenza del segreto arcano della merce di cui sopra, ma può avere anche una sua consistenza visiva e psicologica. Effettivamente il manufatto che giunge sulla nostra scrivania o accanto al nostro cuscino o tra le nostre mani mentre siamo impegnati in una delle funzioni fondamentali dell’organismo umano o in viaggio o nello zaino della guerriglia (Che Guevara) o dopo un lutto o prima di un esame o nelle pause di un grande amore o in una baita in cima a un monte o sotto una palma dopo un’immersione, sembra raccontare una storia antica e autentica allo stesso tempo. A volerci fare attenzione, c’è sempre un momento in cui possiamo sollevare gli occhi dal libro e metterci a pensare che qualcuno lo concepì e lo scrisse in epoche lontane, vicine o lontanissime, e che lo fece con l’amore (fedifrago) tipico degli autori; qualcuno poi gli diede una prima forma materiale, se antico - lo stampò e fabbricò, se moderno; qualcuno lo salvò e lo abbellì con la tenacia degli amanuensi (che noi oggi possiamo apprezzare nei musei o nelle copie anastatiche, per es. dell’editore Arnaldo Forni) o lo archiviò con lo scrupolo dei bibliotecari; e ancora qualcuno lo tradusse o lo rifinì con cura redazionale; qualcuno lo cucì e lo allestì, a volte anche con gusto o inventiva, e qualcun altro si incaricò di farlo girare per il mondo, per la città, per la libreria, per la biblioteca di casa o nello studio. Molti poi ne hanno parlato o discettato, curandone in vari modi la pubblicità, vale a dire la sua proiezione spettacolare.
(Per un rapido sguardo disincantato a uno dei trucchi con cui si alimenta questo aspetto propagandistico, si veda sul Corriere della Sera del 14 sett. 2010, p. 41, «Libri, la dittatura delle classifiche», di Paolo Di Stefano che ci avvisa che è «difficile non pensare alle classifiche dei libri come pubblicità gratuita e occulta». Ma se si vuole una disamina a tutto campo della corruzione fenomenale e fenomenica che regna in questo ambìto àmbito, e in più si vuole ridere con gusto, si veda di Franco del Moro - factotum di Ellin Sellae e nostro collega in disagi da piccolo editore - Il libro è nudo. Rivelazioni sul mondo letterario ai lettori che non sanno, Stampa Alternativa, Viterbo 2000.)
Forse non tutti i libri evocano sensazioni di questo genere o forse ne evocano solo barlumi. Ma la convergenza di un palpito extratemporale (succedaneo per il senso di eternità) e l’impressione di esser partecipi di un rito collettivo (di produzione o di usufrutto), danno la sensazione/ speranza/illusione al povero essere umano che con i libri in qualche modo si possano anche riportare delle vittorie parziali sui suoi due più grandi nemici, gli stessi che lo angustiano nell’arco dell’intera sua vita: la morte e la solitudine.



Siamo di fronte a delle componenti fondamentali del carattere feticistico caratteristico dei libri, che possiamo associare per analogia al miraggio. Ma non si ferma qui il potere evocativo di questa curiosa merce che saremmo tentati di considerare la Regina delle merci - e che sotto il profilo del fascino feticistico certamente lo è.
È difficile immaginare un’altra merce con pari forza evocativa e continuità temporale, se non passando ai prodotti originali nel campo dell’arte (pittura, musica, cinema ecc.): tutte manifestazioni della creatività umana che si possono comunque ricondurre ancora a dei libri (volumi fotografici per le arti figurative, spartiti, partiture e libretti d’opera, sceneggiature) o che comunque col libro hanno un rapporto privilegiato, anche se non si lasciano possedere altrettanto facilmente, se non nella forma di surrogati del loro prototipo originario (servizi prestati per ora dal libro d’arte, dal Cd musicale, il Dvd filmico, il sito Internet ecc.).
Solo le droghe, l’alcol e altre merci in grado di alterare gli stati di coscienza potrebbero competere in potenza evocativa con il libro, ma non con il suo effetto alleviatore per le paure di morte e solitudine. E comunque, anche se vincessero in quanto a intensità evocativa sul momento (e non è sempre detto), perderebbero sul piano della permanenza degli effetti nel tempo: ultraduraturi quelli dei libri, temporanei ed effimeri quelli delle sostanze «psicotropiche» o variamente alteratrici degli stati di coscienza. Per dare un esempio banale, il sottoscritto ricorda ancora immagini vivide evocate dalla lettura di Stevenson, Verne o London nella sua fin troppo lontana adolescenza (vissuta agli inizi della seconda metà del secolo scorso), laddove non saprebbe redigere a memoria una lista nemmeno incompleta per due terzi dei vini per altro meravigliosi degustati durante il triennio del corso di sommellier di pochi anni orsono. Il paragone semplicemente non è proponibile perché le due categorie di merce sono sostanzialmente incommensurabili. Ciononostante, ci si consenta di suggerire un possibile abbinamento di due distinte forme di merce «alteratrice»: un buon libro e un bicchiere di buon vino o la loro felice sintesi come nel prodotto da me inventato come editore: i Vini da leggere (Literary wines in inglese). L’effetto è garantito...




Figura storica del movimento trotskista internazionale, tra i maggiori studiosi della figura e dell'opera del Che, promotore della "Fondazione Ernesto Che Guevara", editore che ha il merito di aver proposto o riproposto autori e temi di decisiva importanza per una cultura della liberazione e della dignità umana, Roberto Massari è anche autore di una trentina di volumi fra saggi e romanzi.