TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 15 dicembre 2010

Francesco Biamonti, La terra decaduta. Considerazioni su Boine


Un testo breve, ma carico di significati e di echi. Quanto Francesco Biamonti parla di Boine, voce sublime e dimenticata del Ponente ligure, e quanto in realtà di se e del proprio scrivere lirico e tormentato?

Francesco Biamonti

La terra decaduta


V'è in Boine un contrasto fra la solarità mediterranea e l’esperienza interiore tra la concretezza e la spiritualità, la corposità della parola carica di forza espressionista e l’evocazione lirica che tende alla commozione e al silenzio. La scrittura, che sembra d’impeto, vortica in un rovello morale e la franchezza del vivere rude si assottiglia in dolorose querelles. Il suo animo s’accende all' improvviso, ma altrettanto all’improvviso si turba e si stanca; è radicato alla terra (agli ulivi, ai muri ferrigni) e se ne distacca nel contempo; la pace e l’onda vi si alternano.

Dagli ulivi e dal mare di Liguria Boine si apre all’ascesi e al misticismo delle terre di Spagna, Ma rimane il contadino che limosina il sole e la vita, aggrappato alle sue terrazze, e che pone la vicenda del suo uliveto a paradigma, a fondamento della storia del mondo. È una visione oscillante e piena di scoscendimenti, da solitario che nulla rassicura se non qualche preciso ricordo.

La sua polemica è semplice e umana. Recrimina, si lamenta del presente: il suo uliveto è decaduto e il fantasma di ciò che era lo perseguita. Quel fantasma prende le forme rustiche e dolci di una chiesa romanica. Come nell’Angelus di Millet, vede tralucere le zolle sacralizzate dalla fatica. Tutto ciò in cui il sacro in qualche modo non affiora gli pare di poco conto, anzi gli pare castigo e diversione.

La fatica tradotta in opere: ecco il suo punto fermo. I muri e i loro costruttori provocano la sua emozione, le "fasce" ora ridestinate al gerbido. Allora la sua scrittura si effonde, si rafforza nei tramandi delle generazioni.

Dalla vagheggiata eternità degli ulivi alla religiosità il passo è breve, "La religiosità è la germinale inquietudine, [...] è l’affacciarsi dello spirito oltre le forme che questo prodigioso sforzo d’ordinamento dell’uomo (della natura) ha definite e accordate. Tra forma e forma, per le rime, per le fessure, attraverso ogni forma con sforzo, scostando, ansiosamente guardare".

Ma poi la disperazione dell’io, la desertica contemplazione lo riprende. Quando si appresta ad abbandonare il mondo è un uomo spoglio.

"A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione. [...]
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento. [...]
Giunsi all'amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove".

Ritorna, braccato dalla morte, l’uomo di vallata: "Ci sono angosce rapide- vaste come bitume di nubi sopra le valli... Così è che chiaronero, chiaronero per gli affannosi crepuscoli preme il respiro l’ottuso cielo dell’impotenza e tutti gli sbocchi son sbarri biechi, tutti". E un uomo che ha contemplato la terra, ma decaduta, una "tierra tan triste que tiene alma",

(Da: La città di Boine, Centro culturale polivalente Imperia 17 Dicembre 1987- 31 Gennaio 1988)