Pino Bertelli
Le opere cinematografiche di Guy-E. Debord praticano e allargano la critica radicale della civiltà dello spettacolo. L’utopia situazionista disseminata in questi film s’incentra su una poetica del fuoco e sulle tentazioni di appiccarlo a tutti i Palazzi d’Inverno. È l’utopia che guida le passioni e moltiplica i contrasti e i sogni, spezza destini e annuncia nuove epifanie dell’anima. Dove la merce ha seminato la sua seduzione non spunta più che la sua tirannia. I falsi bisogni si sostituiscono all’autenticità dei desideri e la psicologia individuale, la ripetizione dei comportamenti, la seduzione dei corpi in disfatta, prende forma nella filosofia balorda dei grandi magazzini. “Un umanesimo astratto ha sparso ai quattro venti i diritti della libertà e della dignità e coloro che li raccolgono non sono soltanto privati del loro uso, ma vedono per di più impoverirsi una sopravvivenza che, per quanto insufficiente, era almeno necessaria al superamento e al compimento di una vita fondata sull’emancipazione dei desideri.
La sola libertà effettiva è quella che la merce si attribuisce, di scambiarsi con se stessa e di non aver altro uso. Il futuro così immaginato si lacera tra la volontà di vivere e la potenza del denaro che ne fa la parodia e la nega assolutamente” (Raoul Vaneigem). Tutto vero. Gli arrivisti della fatalità e della chiacchera da portinai sono all’origine di tutte le persecuzioni della storia. Chi si schiera con i palafranieri del proprio tempo, seppellisce il proprio genio nel letame. “Tremare è facile, ma saper dirigere il proprio tremito è un’arte: da qui derivano tutte le ribellioni” (E.M. Cioran). Chi non ha mai conosciuto la barbarie di un confine, non possiederà mai la saggezza dell’esilio.
URLA IN FAVORE DI SADE (1952), SUL PASSAGGIO DI ALCUNE PERSONE ATTRAVERSO UN’UNITÀ DI TEMPO PIUTTOSTO BREVE (1959), CRITICA DELLA SEPARAZIONE (1961), LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO (1973), CONFUTAZIONE DI TUTTI I GIUDIZI, TANTO OSTILI CHE ELOGIATIVI, CHE SONO STATI FINORA DATI SUL FILM «LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO» (1975), IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI (1978) e GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS (1994) di Debord, realizzato da Brigitte Cornand, sono invettive, bestemmie, provocazioni contro tutto quanto figura la degenerazione dei chiasmi di dominio approntate dall’uomo contro l’uomo. Qui Debord insegna che “lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa” ed è anche la principale produzione di consenso della società moderna. Lo spettacolo è il monologo elogiativo delle proprie forche, è l’autoritratto del potere di un’epoca. “Là dove domina lo spettacolare concentrato domina anche la polizia... Lo spettacolo non vanta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni” (Guy E. Debord). Ecco perché ogni merce è anche una confessione e la coscienza del desiderio o dei piaceri inconfessati si trascolora in genuflessione d’infelicità e solitudini senza desideri.
«Il cinema è morto! Viva la Banda Bonnot!, si canta nel cinema sovversivo di Guy E. Debord. Sparate allo schermo, prima di strisciare in quella fabbrica di sogni che mortifica l’intelligenza dei poeti. La magia del cinematografo è altra cosa. La menzogna hollywoodiana (e delle sue indegne emulazioni planetarie) è un simulacro spettacolare dove le puttane e le madonne, i mostri e gli eroi, la catastrofe e il lieto fine… sono parte del linguaggio sequestrato delle scimmie e i loro fantasmi si manifestano come semidèi di celluloide in attesa di assurgere al più alto dei loro compiti, quello dell’istupidimento dell’immaginario collettivo. I codici del cinema dominante sono gli stessi messi in opera nelle galere, nei manicomi o nei parlamenti: la promessa di felicità… insomma che “gli ultimi saranno i primi”… e le umiliazioni saranno rimesse con i peccati, nei confessionali della storia. Sull’orlo della preghiera o nei calchi del consenso non si chiede nessuna libertà vera, ma soltanto l’illusione della libertà. Questo perché ogni libertà, come ogni religione, “è finita quando smette di generare eresie” (E.M. Cioran). Le rivoluzioni non sono mai state attuali, pretendevano di rovesciare il potere con gli stessi mezzi. La rivoluzione, come la volgarità, è contagiosa, specie nei momenti in cui i rivoluzionari di professione hanno già venduto l’entusiasmo dei loro sostenitori al miglior offerente.
La delicatezza non fa parte dei comitati centrali di qualsiasi ordine, solo in punto di morte i fanatici del potere si rendono conto della loro inutilità, ma i mostri che hanno partorito sono già ascesi alla gloria dei cleri e dalle segrete delle banche hanno appestato i banchi del sapere, contaminato gli asili pubblici, oliato la lama della ghigliottina economica… e senza un filo di nobiltà hanno eretto il dogma del mercato globale. I morti non si contano più. La vendita di armi sì. La Borsa internazionale accomuna i morti per fame e le vacanze degli operai. I bambini si possono uccidere, vendere, stuprare… basta un poco di riservatezza. I prezzi sono buoni. Ci sono tanti padri di famiglia, timorati di Dio e dello Stato, che non sanno rinunciare alla tentazione di violare una bambina, specie se nera, ma vanno bene anche asiatiche, russe, bosniache... occorre soltanto un paio di dollari. È la stessa gente che chiede il rigore, la serietà, la coerenza ai parlamentari che crede di eleggere… porta i vessilli nelle parate militari, impalma la politica della rapina pubblica… e non trova nemmeno il coraggio di mortificarsi delle proprie tenebre o di spararsi un colpo in bocca. Non ci sono governi buoni né governanti che non siano ladri di bellezza.
Fare la festa al cinema. Alla macchina/cinema, è un modo di pensare. Iniziare a sognare una nuova storia desacralizzata del mezzo cinematografico, non importa se in pellicola, in digitale o con i “bastoni animati”. Disneyland, McDonald`s o Coca-Cola fa lo stesso. Rappresentano la peste del gusto ma tutti i “poveri cristi” non riescono a farne a meno. Come il cinema, la televisione o la carta stampata. Il fatto è che nessuno può continuare a essere istupidito in questo modo e a questo prezzo. Cochise, Falco Nero, Nuvola Rossa, Joseph, Seattle, Toro Seduto, Cavallo Pazzo o Geronimo non hanno accettato il “cavallo d’acciaio” del progresso e sono stati uccisi e le loro tribù sterminate soltanto perché sostenevano, a giusta ragione, che “sviluppo” non significa sterminare i bisonti, profanare la terra, inquinare i fiumi… il massacro di Wounded Knee è l’apogeo di uno sterminio continuato che mostra di che pasta sono fatti i fucili delle democrazie a stelle e strisce.
Lo spettacolo concentrato, come la galera, è alla base del controllo sociale delle burocrazie totalitarie e lo spettacolo diffuso, come il genocidio, è al fondo delle società di consumo e del consenso neoliberista. L’alibi dell’ipocrisia democratica è stabilito nel delirio del più infame o nel cannibalismo della politica istituzionale. Siatene certi, nessun partito ci terrà mai conto sulle abolizioni dei privilegi dell’economia politica. Nella follia umiliante della politica gli stilemi telematici del consenso sono anche le candele del sacro. I dissennati, gli eretici, i disobbedienti… vanno lapidati, denunciati, impedito loro qualsiasi forma di resistenza. Inginocchiarsi davanti alla mediocrità della politica, significa fare parte dei cortigiani, dei vassalli, dei servitori ciechi della marchiatura del potere. Ormai anche i proletari sono tutti addomesticati dai sindacati, dai partiti, dalla bonomia mistificata della democrazia dell’apparenza, e hanno smesso di scendere davvero in piazza con i pugni chiusi, e anche di parlare. Sono “parlati” dall’omologazione e dall’idiozia collettiva che trionfa nella merce della società dei consumi.
GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS è un contenitore di segni, tracce, icone dell’intera opera cinematografica di Debord. La critica radicale di Debord rinnova qui la negazione dell’ovvietà e attacca la produzione del nulla nei suoi esiti non solo formali, ma anche e soprattutto etici e politici... Le anime candide del cinema d’avanguardia o di quello detto “sociale” restano all’interno del pianeta mercantile e senza fare della cattiva dietrologia, non è difficile riconoscere i falsari della ragione storica, quanto i maestri innocui della mitologia dello spettacolo come evento personale... La mediocrità è la professione del pensiero post-moderno e la felicità o il ricatto del consenso passano attraverso l’impostura e la simulazione… Il clamore degli applausi si misura sulla morte delle idee.
L’imbecillità della macchina/cinema non basta a distruggere ciò che il cinema di Debord ha detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo, lo spettacolo… il linguaggio dei situazionisti è sparso ovunque e ha reso ovunque tutti un po’ più intelligenti o un po’ più stupidi... Nell’ideologia mercantile, la pubblicità stradale, l’intrattenimento televisivo, le parole d’ordine delle sinistre al potere, le sciocchezze cinematografiche che passano nei festival internazionali del cinema “impegnato”, fino alla “rivoluzione in sartoria” delle ondate giovanilistiche… sono ormai parte delle baracconate circensi assemblate dai mercanti d’illusioni contro la messa a morte dell’immaginale liberato e della poesia della bellezza.
GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS si apre su Parigi e alcuni “ritratti” di situazionisti negli anni ’60 (Debord, Alice Becker-Ho, Asger Jorn, Gilles Ivan, Gil J. Wollman…). Il film prende il volo intrecciando “lotta libera” tra donne, pompe e trivelle per l’estrazione del petrolio... La distruzione di interi quartieri popolari è accostata a foreste pietrificate dalle piogge acide... L’avvento di Hitler al potere è montato con l’uccisione di John F. Kennedy... Le repressioni con i carri armati degli studenti cinesi di Piazza Tienammen sono contrapposte alle miserie e alle imbecillità da parata della Russia comunista... poi l’Africa... le rivolte, le uccisioni, i colonialismi... la lapidazione di una donna africana, una puttana (forse), da parte di una folla inferocita.
Guerriglia urbana, attentato in una scuola, informazioni pubblicitarie sono mescolati a frasi filosofiche, cartelli, musiche, montati secondo i moduli dei cinegiornali di guerra... La catastrofe di Chernobyl è descritta come caduta della stupidità politica sovietica e nella quale s’innesta il rigurgito dei fascisti in Europa... La citazione amorevole del poeta Arthur Cravan (morto suicida nel 1920) in un incontro di boxe del 1916, cancella il mortuario artistico del neodadaismo. Le centrali nucleari in Francia (in filmati dolcificanti) sono circondate da fiori e greggi di pecore brucanti, quanto false... Silvio Berlusconi, strappato da un telegiornale, è visto (giustamente) come un pagliaccio e la sua ridicola pomposità è contrapposta alla falsità spettacolarizzata dei funerali di Stato.
Il film si chiude su turisti in fila per vedere “La Gioconda”... I ragazzi cinesi picchiati dalla polizia... Arafat che parla nella sede dell’UNESCO... Un dibattito televisivo sulla cultura e l’economia in Francia e nel Mondo... Le inondazioni del pianeta... Un plastico animato che mostra le città future... Il lavoro per il recupero dei detenuti nei penitenziari francesi... Ancora i volti di alcuni situazionisti (Asger Jorn, Gilles Ivan, Gil J. Wollman e Alice Becker-Ho negli anni ’90)... Bill Clinton che corre in un parco pubblico, intervistato sul mercato globale... Una scheda avverte che la riunione dei G-7 ha ormai sistemato il mondo in affamatori e affamati... Il presidente di Francia, Mitterand, con una rosa in mano, entra nel palazzo del potere.
GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS è un manifesto contro il “buon governo della cattività” (Omar Wisyam)… un testo audio/visivo che non spiega né dimostra nulla se non l’intollerabilità dei poteri e dei saperi che la civiltà dello spettacolo deborda come valori e dogmi all’umanità tutta. La critica trasversale del film non implica (solo) una teoria o una parodia dell’ovvio e dell’ottuso che fuoriescono dalla produzione di nullità mercantili ma centra le proprie invettive nell’origine del male, nei commerci di fedi, di armi, di menzogne che i potenti della terra chiamano “sviluppo” e fanno delle genuflessioni di massa il porcile dei loro misfatti.
II. ELOGIO DELLA DISOBBEDIENZA
La poetica sovversiva di Debord è stata quella di elaborare il centro della rottura con i gangli della sopravvivenza statuale e individuare nella “società dello spettacolo” l’origine di tutte le oppressioni e le mediocrità dell’uomo sull’uomo. La critica radicale/situazionista di Debord ha rotto il fascio dei confessionali e ha manifestato la necessità e l’urgenza di “una notte di San Bartolomeo degli uomini di lettere” (E.M. Cioran), di fede e di quelli in divisa… gli uomini di genio sanno che le persecuzioni nascono dall’odio e l’intolleranza dagli ideali imposti… ecco perché scelgono il limitare del bosco, l’esilio o la rivolta estrema. Sabotare il servaggio mercantile, politico, dottrinario delle democrazie dal volto umano (comandate dalla banda dei G-8) non è solo un bisogno di bellezza ma soprattutto è un desiderio di libertà.
Della Terra di Utopia
Digressione necessaria per comprendere al meglio quanto la filosofia radicale/situazionista, libertaria, sovversiva di Guy Debord, Raoul Vaneigem, Asger Jorn e uno straccivendolo della mia città che si chiamava Lenin, finito poi in manicomio per aver sputato contro la Madonna in processione… quanto questa visione anarchica dell’esistenza — dicevo — abbia inciso sulla mia poetica della rêverie applicata alla critica della vita quotidiana… sono i luoghi comuni che rendono stupidi… il vero uccide la vita, che solo il piacere rende possibile… ho sempre pensato che qualunque ideologia, qualunque religione, qualunque simulacro sono dispositivi di violenza e oppressione e solo l’utopia che si riprende le tracce d’una bava originaria può essere il rizoma o la deriva della felicità o della comunità che viene. “Ciò non toglie che l’idea degli anarchici di annientare qualsiasi autorità resti una tra le più belle che siano mai state concepite” (E.M. Cioran)… nulla è più sospetto delle democrazie dello spettacolo o dei regimi comunisti… le vie della crudeltà sono infinite e l’unico ordine di grandezza al quale è giunta la civiltà della demotivazione sociale è quello del suo fallimento.
Mi ricordo sì, mi ricordo… di una “favola” che mia madre (sia benedetta tra le rose di campo) mi ha lasciato in sorte sin da bambino (o forse l’ho solo sognata). Era una parabola dell’eccellenza ebraica che non so dove avesse preso e nulla aveva a che fare con quelli di Israele, diceva:
— “Un rabbino, un vero cabalista, disse una volta: per instaurare il regno della pace, non è necessario distruggere tutto e dare inizio a un mondo completamente nuovo; basta spostare solo un pochino questa tazza e quest’arboscello o quella pietra, e così tutte le cose. Ma questo pochino è così difficile da realizzare e la sua misura così difficile da trovare che, per quanto riguarda il mondo, gli uomini non ce la fanno ed è necessario che arrivi [qui mia madre si fermava, ridendo anche, e diceva NON] il messia”, ma l’uomo libero, l’uomo in amore, l’uomo della bellezza, il messaggero di pace” —.
Il commento di mia madre a questa parabola [NON il messia ma l’uomo libero è messaggero di pace!] non mi ha più lasciato e mi sono commosso quando — molti anni dopo — ho ritrovato la stessa storiella chassidica in un meraviglioso libriccino di Giorgio Agamben e prima ancora negli scritti di Walter Benjamin. Proprio Benjamin mi ha disvelato la Terra d’utopia, dove tutti sono ricchi perché nessuno è povero:
“Fra gli chassidim si racconta una storia sul mondo a venire, che dice: là tutto sarà proprio come è qui. Come ora è la nostra stanza, così sarà nel mondo a venire; dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso”. Per cambiare il mondo intero, dunque, basterebbe fare solo un piccolo spostamento delle nostre certezze. “Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso”. Con queste idee in testa la società che viene è già qui.
Mi ricordo sì, mi ricordo… una storia che mi raccontava sovente mio padre (che sia benedetto nel vento di scirocco di mare) e che aveva ricevuto in sorte dalla madre sua. Non so quanto era vera, però mi ha sempre commosso e ho pensato a quelle parole quando nei giorni dello slancio e della tempesta della mia generazione, mi sono trovato a scegliere tra le parole di piombo e le lacrime della libertà.
— “Una sera di mezza estate, quando la madre di mio padre accompagnava alla macchia alcuni giovani che si erano nascosti sul tetto della nostra casa e sotto il letto di mia madre… incontrarono lungo un sentiero di nidi di ragno… un gruppo di giovani partigiani che avevano stretti al collo degli straccetti rossi… stavano per fucilare un giovane fascista che doveva avere la loro stessa età. La madre di mio padre disse: «Chi fa nascere i fiori nei prati?». Uno dei giovani partigiani: «Il sole di primavera, vecchia signora dagli occhi color del mare». E la madre di mio padre: «E chi siete voi per giudicare e uccidere? Voi non siete neanche il sole». I giovani dissero che i fascisti erano feroci e impiccavano i partigiani ogni volta che li prendevano. «Non facciamo la stessa guerra di quei bastardi…», rispose la madre di mio padre. I ragazzi ripresero il cammino, scomparvero nel bosco e andarono insieme a cantare i giorni della meglio gioventù che dettero vita a nuove speranze di democrazia partecipata. Quel fascistello morì qualche anno dopo, senza amici, senza amore e senza mai più trovare un sorriso. Infelice è quell’uomo o quel popolo che ha bisogno di martiri e di eroi per mostrare la bellezza della libertà —.
I colpevoli di ingenuità stanno tutti dalla parte del boia… le sinistre lo sanno bene… hanno battuto tutti i marciapiedi del potere e conosciuto tutte le forme della decadenza, compreso quella di governare con successo contro i lavoratori, i poveri, i migranti… bisognerebbe essere fuori dal mondo come un bambino o come un cretino per credere che quest’accozzaglia di bastardi lavori per il bene comune… è inconcepibile aderire a un partito o a una religione fondata sulla servitù volontaria… la libertà è un delitto d’indiscrezione e la lusinga elettorale un confortorio della rassegnazione istituzionalizzata... un mandato a vita a uomini dalle mani sporche… a giustificazione di tutti i crimini che saranno commessi contro i popoli impoveriti — nel nome santificato dello sviluppo globale —.
Il cinema ereticale di Debord si scaglia contro lo spettacolare integrato che regna nel mondo… chiede il rispetto delle differenze e disvela l’ordine oligarchico della partitocrazia come sistema accettato della società regolata dal potere della merce… i diritti umani sono divorati dalla dittatura dei media e larghi pezzi di popoli assoggettati sono sterminati per alzare i dividendi delle multinazionali, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale… Debord viola la “sindone dello schermo” e si sbarazza dell’imbecillità farisea di farsi comprendere da tutti e in ogni modo… lavora sul disinganno e rivendica la speranza del folle o dell’impiccato: le grandi verità si dicono sulla soglia di un manicomio o sul patibolo con il cappio al collo… la sofferenza è intollerable e non ci sono matti o ribelli che non hanno mai confuso l’inferno col paradiso… l’innegabile piacere del sapere non ha nulla a che fare con il tempo del mercimonio… a parte la bellezza della verità (o viceversa), tutto è menzogna.
Lo spirito pubblico e la pubblica felicità sono al fondo d’ogni principio di libertà. Rendersi padroni della nostra esistenza significa imparare a dire no!, fare delle passioni, dei desideri, dei giudizi estremi il principio di tutte le rivolte e mostrare che la disobbedienza in permanenza non è solo un’azione, ma una partecipazione delle differenze al mutamento della vita quotidiana. In questo senso, Debord considerava la progettualità rivoluzionaria nel rovesciamento dei saperi e turbamento della legalità e sosteneva, a ragione, che gli uomini sono liberi di cambiare il mondo e costruirne uno nuovo a partire dal cambiare loro stessi.
Solo ciò che invita alla disobbedienza civile, merita di essere ascoltato… la critica radicale delle democrazie dello spettacolo e dei regimi comunisti è una sorta di odio profondo che gli uomini della disobbedienza allevano, custodiscono e scagliano contro ogni forma di autoritarismo… le istituzioni che pretendono di incarnare il potere del popolo… sono espressione di odio, corruzione, violenza... tengono i loro sudditi nella paura e nel terrore di riduzione materiale dei beni acquisiti… non ci sono governi buoni se i cittadini sono esclusi dalla fruizione (su basi egualitarie) delle ricchezze che contribuiscono a produrre… il 20% dei saprofiti delle democrazie spettacolari e dei regimi comunisti si mangiano l’80% di quanto produce l’intera umanità… uccidono l’ecosistema del pianeta… fanno del genocidio l’arte di esportare la democrazia con le armi e del mercato globale la forca consumerista di nuovi colonialismi… la perversione delle moderne forme di tirannia implica anche la nascita, l’emersione, l’insorgenza di libere azioni di uomini in rivolta contro le istituzioni del male… la ricerca della publica felicità è al fondo delle democrazie parecipate o delle democrazie dirette… e quando gli uomini sono ridotti a soggetti elettorali o consumatori d’illusioni… gli uomini della disobbedienza sono liberi di cambiare il mondo e introdurvi il nuovo.
La disobbedienza libertaria che filtra ad ogni taglio di montaggio di GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS, combatte la criminalità costituita nei parlamenti e nelle economie di sfruttamento dell’uomo sull’uomo... sfida l’autorità, la tortura, la galera… e si fa portatrice di altri diritti. La legalità è il patibolo dei diritti dell’uomo. La “legalità” si fonda e si modifica giorno dopo giorno e i politici hanno la pretesa di renderla valida per tutti. “In realtà ci troviamo di fronte a un ordine senza leggi, ma non di fronte all’anarchia, perché un ordine del genere può essere conservato da un’organizzazione e da mezzi di forza” (Hannah Arendt). L’Anarchia (che non è caos, lo sanno anche i bambini con i piedi scalzi nel sole e la pioggia sulla faccia) è “governo della giustizia tra eguali” o luogo-felice (eu-topos) del non-governo. La sola obbligazione che ogni uomo ha nei confronti della propria comunità, è fare ogni cosa, anche la più estrema, con amore. Né dio né stato, né servi né padroni!