TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 28 marzo 2020

Debord al tempo del coronavirus




Tempo di Covid19, tempo di isolamento, tempo di letture. Fa piacere trovare questa mattina sulle pagine di un quotidiano milanese una lettura briosa e intrigante di un tuo libro.

Diego Gabutti

Debord tifava per la distruzione. Bruciava le amicizie come un atleta fa con gli zuccheri


Cinquant'anni dopo, tutte le passioni spente, non sono molte le cronache sessantottesche che si possono ascoltare con interesse (o anche solo fingendo dell’interesse). Meno di tutte, poi, le storie dei singoli gruppuscoli o, peggio ancora, del singolo gauchiste (con le sue idee fisse, le sue coazioni a ripetere, il suo profilo migliore, la sua vanitas, la sua rubrica sul Foglio). Passi ancora la cronaca dei tumulti. Questi hanno sempre un loro perché, vale a dire un lato avventuroso, non tanto epico quanto salgariano. Gli eventi, anche di scarso peso storico, come i sogni delle notti novecentesche di mezza estate, si possono raccontare con profitto, e persino suscitando passioni; i personaggi no, per quanto sgomitino e si alzino sulla punta dei piedi e rilascino autografi anche non richiesti e facciano ciao-ciao con la manina.

Siedi al tavolo grande del racconto storico se sei Napoleone, oppure Beppe Stalin o Gengis Khan, e non quando sei Daniel Cohn-Bendit o Rossana Rossanda, per quanti memoir tu scriva, e di quante bellurie siano imbottiti. Detto questo, c’è almeno un’eccezione: Guy Debord, artista e filosofo, ma soprattutto mitografo di se stesso, l’uomo che fece della propria vita, e di riflesso anche del Sessantotto parigino, un trompe l’oeil. Eccezione lui, ed eccezione il suo biografo, Giorgio Amico, storico del goscismo senza debolezze sentimentali. Amico racconta la storia di Debord con divertita ammirazione, come Gore Vidal o Edward Gibbon quando mettono in versi e musica le vite degli eretici e degli apostati. Non so quanto esemplare, è tuttavia una storia avvincente, che Amico illustra in bella prosa.

Morto suicida nel 1994, alcolista, scrittore senza pari, Debord costruì la propria leggenda consumando e demolendo, lungo la strada, ogni altra leggenda gli si parasse davanti: surrealismo e dada, per cominciare, e poi anche tutte le scuole scismatiche che si erano generate da se stesse, per partenogenesi, nel gran parapiglia della diaspora anarchica e marxleninista (trotzkisti, consiliaristi, bordighisti, maò-maò eccetera).

Joker del goscismo, Debord tifava per la distruzione. Non divideva gli onori (e la leadership) con nessuno. Bruciava le amicizie (e le affinità politiche) come un atleta gli zuccheri. Stava all’Internationale situationniste (il suo contributo alla storia delle iperboli dell’arte moderna e dell’anarcomarxismo) come il Capitano Nemo al Nautilus: c’era lui al timone, era sua la teoria, sue le mosse sulla scacchiera della rivoluzione, e pertanto era sua e sua soltanto anche la poltrona rococò foderata di velluto rosso con vista sui fondali oceanici.

Scrisse La società dello spettacolo, un prodigioso pamphlet (poco letto, anche poco comprensibile, brillante ma invecchiato, nonché universalmente diffuso) che ha prestato il suo titolo e un’orecchiatura del suo contenuto al gergo giornalistico corrente, diventando un orribile e gessoso tormentone sociologizzante. A Parigi, nel Maggio Sessantotto, les situationnistes non ebbero il ruolo che Debord avrebbe in seguito attribuito a se stesso, ma furono situazionisti gli slogan, i volantini più popolari, i manifesti murali. Situazionista l’immaginazione al potere, situazionista il vivere senza tempi morti; e situazionista, soprattutto, il programma minimo: essere realisti, chiedere l’impossibile.

Guy Debord, nel racconto di Giorgio Amico, appare nella sua identità più vera, o almeno più somigliante: quella dell’uomo che uccise Liberty Valance. Come nel grande film di John Ford, dove James Stewart non è il vero giustiziere ma soltanto il giustiziere della leggenda, allo stesso modo il situationniste in capo non fu la vera anima delle barricate di maggio (come pretese, e come avrebbe senz’altro meritato, per l’acutezza e l’impazienza con cui annunciò il 68 e i suoi tumulti molto prima che chiunque altro ne cogliesse i segni). Fu però in questa veste che entrò nella leggenda. Furono i giornali, nel film di Ford, a «stampare» la leggenda di James Stewart gabellandolo come l’uomo che aveva ucciso Liberty Valance. Con un piccolo aiuto da parte dei fan, Debord si stampò la leggenda da solo.

Ciò in una straordinaria autobiografia (Panegirico. Tomo I e II, Castelvecchi 2013) e in un bellissimo film d’avant-garde su Parigi e sulla gioventù: In girum imus nocte et consumimur igni (un famoso palindromo in lingua latina, che resta immutato comunque lo si legga, da destra a sinistra come da sinistra a destra, e che in italiano si traduce «giriamo in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco»). Non fosse che per questo film e per quel libro il fondatore dell’Internationale situationniste (nata nel 1957, sciolta nel 1972) s’è guadagnato un posto di prima fi la (massimo seconda) tra le gloires francesi. Un po’ ci faceva conto. Come diceva Walter Matthau in È ricca, la sposo, l’ammazzo: «Se non si può essere immortali, che si vive a fare?».



Giorgio Amico
Guy Debord e la società spettacolare di massa
Massari 2017
pp. 322
19,00 €

Italia Oggi, 28 marzo 2020