Arrigo Cervetto, partigiano diciottenne (1945)
Giorgio Amico
Arrigo Cervetto. Vita di un comunista attraverso le lettere
1. La passione per la lettura
L'ingresso di Arrigo Cervetto nel mondo grande e terribile, per usare l'espressione gramsciana, della politica come impegno intellettuale può datarsi al 6 gennaio 1948, quando Umberto Marzocchi, figura centrale dell'anarchismo italiano del dopoguerra, invia a Gigi Damiani, direttore di Umanità Nova, un articolo del giovane, allora ventenne militante del gruppo giovanile savonese della FAI “Né Dio né padrone”, accompagnandolo da una breve lettera di presentazione:
«A me sembra utile incoraggiarlo – scrive – avendo l'impressione che farà sempre meglio essendo appassionato e convinto delle nostre idee in modo che non sarò smentito in avvenire.»
«Appassionato e convinto». Marzocchi, con l'occhio sicuro del vecchio militante che sa valutare gli uomini, ha colto le caratteristiche centrali della personalità di Cervetto, la passione ideale e la tenacia nel perseguire le sue idee anche quando si troverà praticamente da solo a difenderle. In questo l'avvenire non smentirà Marzocchi, anche se solo pochi mesi dopo Cervetto abbandonerà la FAI deluso per il sostanziale immobilismo dei libertari rigidamente ancorati ad un passato eroico, ma ormai tramontato e incapaci di cogliere il nuovo che avanza e le richieste di un profondo rinnovamento della teoria che una nuova generazione di militanti, in larga parte passati per l'esperienza della lotta partigiana, avanza con impazienza tutta giovanile.
Un'impazienza e una voglia di fare e che aveva portato quei giovani alla scelta di militare nel PCI e poi, insofferenti del grigio e legalitario burocratismo del partito togliattiano, di cercare aria nuova, più respirabile nel movimento anarchico, idealizzandone, proprio come accade ai giovani, le potenzialità libertarie e rivoluzionarie. Di questo percorso Cervetto è buon testimone proprio nell'articolo che Marzocchi ha inviato a Damiani che lo pubblicherà sul n.4 del 24 gennaio di Umanità Nova, in seconda pagina:
«Quando migliaia di giovani ritornarono dopo mesi e mesi di sacrificio da quelle montagne dove erano andati a combattere, spinti più che da una preparazione rivoluzionaria. Da un istinto di rivolta, non trovarono degli educatori che avrebbero dovuto formare di loro un'avanguardia rivoluzionaria, bensì dei politicanti. Politicanti i quali anziché insegnar loro le ragioni e gli scopo della lotta, il perché dei sacrifici, insegnarono loro a votare. Invece di indicare loro la sola via del riscatto, la rivoluzione sociale, dissero loro di prendere una tessera e di pagare una quota. Invece di formulare degli uomini consapevoli, degli idealisti, formarono degli inquadrati. E i giovani, credendo che ciò fosse un dovere, sfogarono quel nobile istinto di rivolta, il diritto dell'azione diretta, nei balli e nei campi di calcio. Glielo avevano detto che si erano convinti che bastava credere ed avere fiducia in quello che facevano i capi. Preferirono all'odiosa riunione, dove si parla di tutto fuorché di azione, l'ospitale ed accogliente “dancing” o l'entusiasmante fioco del “foot-ball”, essi non hanno nessuna colpa all'infuori di quella di non vedere e non sentire ciò che succede intorno a loro. La colpa ce l'hanno quelli che predicarono e predicano la calma, l'ordine, la disciplina e non capirono che il giovane rappresenta l'avvenire, la forza unica e vera della rivoluzione.»
Idee semplici, espresse in un italiano ancora esitante, espressione di un vitalismo insofferente ad ogni limitazione, dove prevale l'accento morale più che quello politico. È quello che esplicitamente, e non senza un pizzico di perfidia per quanto riguarda l'uso un po' troppo personale della sintassi, gli fa notare Giovanna Berneri, rimandandogli perché lo riveda un articolo che il giovane ha inviato nell'estate alla rivista Volontà da lei diretta e amministrata:
«Caro Cervetto – scrive la Berneri – abbiamo avuto da Marzocchi il tuo scritto; e ci piace tanto. Chi sa se in questa tua forma libera da coordinazione logica ed anche sintattica riecheggino prosatori noti del nostro tempo – Hemingway? Joyce? - o se invece è proprio esclusivamente una “sorgente” nuova, in te, che s'esprime. In ogni caso ci pare pubblicabile, e lo metteremmo in programma per il prossimo (od uno dei prossimi) numero. Vorremmo però dirti: ci pare che potresti ancora limarlo. […] Attendiamo comunque notizie tue. Ed intanto ti vorremmo anche incitare ad usare del tuo dono espressivo per “dire” al prossimo delle idee meno indeterminate. Questo tuo lavoro è sostanza nel piano della poesia. Non potresti scrivere anche sul piano della prosa, narrativa descrittiva polemica., già che nel nostro mondo d'oggi, nel tuo piccolo mondo locale, infiniti sono gli stimoli a scrivere per te? La nostra rivista è “politica”; ed inoltre dobbiamo tener conto della media dei nostri lettori, che questo orientamento “politico” vuol percepire netto.»
Nonostante questa critica l'articolo apparirà sul numero del 15 luglio 1948 della rivista. Della lettera della Berneri colpiscono due cose: il riferimento a Marzocchi, che ancora una volta ha fatto da tramite e presentatore di un compagno altrimenti sconosciuto, e questo aperto richiamo ad essere più politico e meno letterario che stupisce non poco il lettore di oggi che di Cervetto tutto può pensare meno che di una spiccata e ancor più ricercata volontà letteraria.
Eppure, per quanto difficile a credersi oggi, il giovane Cervetto covava ambizioni letterarie e la sua formazione politica iniziale era avvenuta principalmente sui maestri del realismo sociale, da Gor'kij a Steinbeck, che negli anni bui della dittatura erano stati uno dei canali privilegiati della propaganda antifascista. È lui stesso a scriverlo a Giancarlo Masini, in una lunga lettera di presentazione, di poco successiva:
«Dovrei dirti di me – scrive con toni di grande sincerità, quasi con sofferenza – dovrei dirti che ho 21 anni, che lavoro e leggo. Che importa? Come sono tanti. Immaginati un ragazzo che va a scuola, finisce le elementari, studia due o tre anni in una scuola d'avviamento, poi comincia a lavorare a 14-15 anni per necessità finanziarie. Seguilo questo ragazzo. Lavora, passa un'adolescenza burrascosa, piena di dubbi, di stupidate, di domande sciocche, fa i primi passi nella giovinezza. Intorno a lui un mondo che capisce poco, un mondo “adulto” pieno d'acciacchi. Come si fa a capire il mondo a diciassette anni? E poi il mondo allora era fascismo, guerra, divise, canti. Riprendiamo il ragazzo. Gioca lui, si trastulla, non sa se piangere o ridere, ma pensa. C'è un sentimento che è più di tutte le lotte di classe, più di tutta la politica. È il sentimento guida, lavora di ascia nella giungla della vita. C'era il fascismo allora ma c'era pure la “Spia”, la “Madre”, “Furore” col latte della donna all'uomo affamato (ricordo sempre e lei sorrise misteriosamente) c'era “E le stelle stanno a guardare” col fatalismo che tra l'uomo fuori dalla miniera per poi rimettecerlo insieme al nipote. Sono romanzi che si leggono appena si è capaci di leggerli, e sono romanzi che formano. Così il ragazzo legge, riceve un aiuto alla sua aspirazione, capisce che questa sua aspirazione è libertà, progresso. Va in montagna, diventa un partigiano, patisce fame e freddo, spara, viene ferito, vede il pericolo, tocca quasi la morte, vorrebbe pregare un dio in quel momento ma non è capace, non sa chi pregare, quasi prega se stesso, resta solo davanti alla responsabilità di essere lui. Non è un'odissea. È una cronaca di un giovane. Potrebbe essere anche la mia cronaca. Avevo diciotto anni quando, dopo 12 mesi di partigiano, ritornai a casa. In tutta Savona serpeggiava attraverso il rosso delle bandiere, dei fazzoletti, delle coccarde rosse, l'entusiasmo comunista. Sembrava l'avvento di una nuova era, il premio di tante speranze. Si parlava, si beveva, ci si sentiva “compagni”. Mi iscrissi al Partito Comunista, frequentai le riunioni, le cellule, le sezioni. Mi misi a leggere Lenin, Marx, Engels come sapevo. “Questa è la verità”, pensavo tra me. Ma non bastava. Allora cominciai a leggere Vittorini e il Politecnico. Si formava in me quella passione per la letteratura che ho ancora adesso.»
È una lunga citazione, ma necessaria perché descrive alla perfezione la smania di apprendere, la fame di esperienze, la passione che anima il giovane Cervetto e lo spinge ad andare avanti, a continuare a leggere rubando ore al riposo, a prendere appunti, a cercare di affinare il suo vocabolario, ma soprattutto di capire. Non crediamo che Cervetto avesse letto Joyce né allora né dopo, su Hemingway abbiamo qualche certezza in più, soprattutto per quanto riguarda opere testimonianza come “Per chi suona la campana”, ma concordiamo con quanto scritto da Giovanni Berneri, la scrittura è letteraria, asciutta e tagliente. Il racconto scorre fluido, come un flusso di memorie, con stacchi netti ad accentuare la drammaticità dei momenti e delle scelte. Insomma,una bella pagina da leggere che rimanda l'immagine di un giovane ancora in cerca di una sua via, ma assolutamente determinato a trovarla, sicuro delle sue potenzialità. Non ci stupisce che Masini voglia immediatamente conoscerlo di persona.
In realtà i due si erano già incontrati di persona in una riunione della FAI a Savona, ma Masini non aveva fatto molto caso al giovane militante che, timido come era allora anche a causa di una leggera balbuzie – e anche questo sembra impossibile a chi lo ha conosciuto anni più tardi oratore infaticabile e trascinante – tendeva nella riunioni, soprattutto quando erano presenti compagni autorevoli, ad ascoltare e difficilmente prendeva la parola. La lettera, così sincera e diretta, cambia completamente il ricordo sfocato che ne ha Masini. I due si incontreranno a Livorno il 9 gennaio dell'anno successivo in occasione della manifestazione nazionale in onore di Pietro Gori e sarà amore a prima vista.
(Le citazioni sono tratte da: Arrigo Cervetto, Opere, 23, Carteggio, Edizioni Lotta comunista, Milano, 2018)
1. continua