In Italia le trasmissioni televisive iniziarono il 3 gennaio 1954, a cura della RAI. Ma già dal 1952 erano in corso trasmissioni sperimentali al Nord, limitate alle due emittenti di Torino e Milano collegate in rete. Gli inizi furono relativamente lenti, non solo per la difficoltà di far arrivare il segnale in ogni parte d'Italia, ma soprattutto a causa del costo elevato degli apparecchi. Tanto che nel 1956 gli abbonati erano di poco superiori ai 350mila.
In quegli anni un televisore era considerato un bene di lusso che solo pochi potevano permettersi. La stragrande maggioranza della popolazione seguiva i programmi, che si tenevano solo in fascia serale, nei bar, nelle parrocchie, nelle case del popolo, addirittura nei cinema. Avere un televisore era motivo di orgoglio e spesso i fortunati possessori invitavano i vicini che seguivano le trasmissioni molte volte portandosi le sedie da casa.
L' arrivo della televisione in Italia fu anche motivo di polemiche da parte dell'estrema sinistra rivoluzionaria di allora, come testimonia questo articolo del 1952 apparso sul giornale del Partito comunista internazionale.
G.A.
Il gigantesco affare della televisione italiana
Noi continueremo ad avere le idee che abbiamo sulla Patria e sulla Nazione, anche se l'Italia fosse, invece di quella che è, la più potente e ricca delle nazioni. Contrariamente a quanto fanno i patrioti delle patrie proprie o altrui, continueremo a combattere, per quanto è possibile, le ideologie del nazionalismo, del razzismo, ecc., che sono appunto basate sulla superiorità presunta o reale di uno Stato nei riguardi degli altri. Ma, ciononostante, ci ha fatto una certa impressione l'apprendere dal Tempo che, in quanto a televisione, l'Italia sta al primo posto in Europa. Nientemeno! Già, la poverella Italia, ricca solo di disoccupati affamati e di catapecchie, la sopravanza sulle ricchissime in beni e denaro Belgio, Svizzera, Svezia, Norvegia, Germania (ove solo ora sono in allestimento le stazioni di Amburgo e di Bonn) non solo, ma si lascia indietro persino la Francia e l'Inghilterra. La superiorità della televisione italiana, che si trova ancora alla fase sperimentale, si appaleserebbe sia sul piano tecnico che su quello organizzativo ed artistico. Bene, bene. Sicché, subito dopo gli Stati Uniti, con le loro mastodontiche cifre di 17 milioni di apparecchi televisivi e una quantità di stazioni trasmittenti, viene dunque, almeno nel mondo occidentale, la repubblica d'Italia.
Oggi funzionano due sole stazioni trasmittenti, a Torino e a Milano, che sono collegate da un «ponte». Entro l'anno venturo esse saranno collegate, mediante altri «ponti», con la rete delle stazioni della pianure padana, della Liguria e dell'Italia centrale fino a Roma. Solo dopo il 1954, i cafoni dell'Italia meridionale e delle isole saranno ammessi, in omaggio alla ricostruzione del Mezzogiorno, agli spettacoli televisivi. Avremo dunque il cinema in casa, come se non fosse già troppo il cinema che andiamo a vedere fuori...
Ma mentre l'industria italiana è molto progredita come appare dai prototipi di apparecchi televisivi, che, secondo il Tempo, sono «veramente ottimi», una grossa questione economica oppone i dirigenti della R.A.I. (che è la concessionaria dei servizi di televisione) e gli industriali della radio. Si tratta di far aumentare il numero degli utenti, che al presente sono ben pochi e neppure schedati, allorché la televisione uscirà, almeno per il Nord, dalla fase sperimentale. La divergenza tra l'ente concessionario e i fabbricanti sindacati nella A.N.I.E (Associazione nazionale Industriali Elettronici) sembra insolubile, ma è destinata a risolversi con l'intervento delle casse statali. Infatti la R.A.I. sostiene che il servizio di televisione non si può ancora estendere perché le Case produttrici di apparecchi televisivi non ne offrono al mercato un numero sufficiente. Si intende agevolmente che aumentando il numero dei «telespettatori» dovrà aumentare l'introito dei canoni da cui la R.A.I trae i fondi per il finanziamento dei servizi e dei programmi. Dall'altra parte, gli industriali elettronici, allarmati dalla autorizzazione recentemente concessa per la importazione dall'America di 5000 apparecchi, si dichiarano prontissimi a fabbricare un primo lotto di centomila apparecchi, richiesti dai dirigenti della R.A.I., ma chiedono delle garanzie. Quali? Calcolando che ogni apparecchio viene a costare la cifra media di 200.000 lire l'uno, il valore complessivo dei centomila apparecchi in preventivo si aggirerebbe sui 20 miliardi di lire. Se fossero di rapido smercio, gli industriali non starebbero a discutere, ne avrebbero già prodotti. Ma si tratta per loro di immagazzinare una merce che solo durante un periodo più o meno lungo si potrà esitare. Alle corte, gli industriali elettronici chiedono delle sovvenzioni. E chi potrà mollarle se non lo Stato, attraverso la R.A.I.? Siamo sicuri che il paterno Stato di Roma, con la sollecitudine affettuosa verso la grande industria che sempre lo ha distinto, alla fine cesserà graziosamente di farsi pregare ed allenterà i cordoni della borsa.
Significa ciò che tutti i rischi saranno addossati allo Stato, con le cui elargizioni le Case produttrici inizieranno, statene certi, la fabbricazione degli apparecchi televisivi. Agli imprenditori andranno tutti i vantaggi di chi non rischia del proprio e, naturalmente, gli utili. Alla «Nazione» la soddisfazione del primato italiano in televisione...
Di fronte a fenomeni del genere i teorizzatori delle statizzazioni come forma inferiore di socialismo non possono non mostrare di giocare nascondendo l'asso nella manica. Le vie dell'asservimento dello Stato alla fame di profitti del Capitale sono infinite, siccome le vie del Signore. Imprenditori che mettono le mani sulle casse dello Stato come nelle loro tasche, li potete chiamare ancora «proprietari privati»? Essi maneggiano qualcosa che non è, a rigore, proprietà privata, e cioè il cosiddetto pubblico denaro, cioè il denaro appartenente allo Stato. A volte si appropriano, a volte restituiscono in parte o in tutto, i capitali presi in prestito dallo Stato, intascando ogni volta il profitto. Esiste tutta una scala di gradazioni che va, per restare nel caso trattato, dagli industriali della A.N.I.E. che chiedono di operare con prestiti dello Stato, fino ai concessionari, di cui esempio sottomano è appunto la R.A.I., che traggono profitti da capitali appartenenti interamente e inalienabilmente allo Stato.
L'Italia se ha un primato tra le nazioni occidentali esso è da ricercarsi proprio nella stretta soggezione dello Stato al capitale, quello cioè che economisti classicheggianti e sgonfioni cominformisti concordemente definiscono «intervento dello Stato nell'economia», propalando la falsissima concezione della subordinazione degli imprenditori ai funzionari statali. L'Italia è il paradiso degli esperimenti di capitalismo di Stato, che vanno dalla statizzazione integrale alle forme intermedie di sovvenzioni, dei prestiti, delle donazioni a fondo perduto di danaro pubblico alle imprese private. Se fosse vera la equazione statizzazione-socialismo, sarebbe vera un'altra cosa, e cioè che l'Italia fosse... sulla via del socialismo. Più facile sarà ingollare le balle visive che la televisione si appresta ad ammannirci.
il programma comunista, n. 4, 20 novembre - 4 dicembre 1952