TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 3 giugno 2010

Cancellare la paura per sconfiggere la violenza: "Invictus" di Clint Eastwood


"Invictus" l'ultimo film di Clint Eastwood

"Invictus", l'ultimo film diretto da Clint Eastwood, racconta la storia del Sud Africa dopo la fine dell'apartheid e il tentativo di Nelson Mandela di riunificare il paese e superare l'orrore del regime segregazionista. Un film di grande impegno civile di cui ci parla Armida Lavagna.

Armida Lavagna

Cancellare la paura per sconfiggere la violenza: "Invictus" di Clint Eastwood


“Il perdono libera l’anima, cancella la paura, per questo è un’arma così potente”. Verrebbe facile dire che questo è il solito film “alla Eastwood”. Un protagonista che si riscatta, socialmente o moralmente, un contesto che rende arduo farlo, e che a volte esclude il lieto fine (basti pensare a “Gran Torino”), ma che proprio in quanto tale garantisce l’affermazione granitica della dignità del personaggio, che una volta trovato o ritrovato se stesso non si volta più indietro. Un eroe, insomma, anche quando è travestito da antieroe. Eppure, nulla di stereotipato, né di eccessivo, nonostante il continuo rischio di scadere nel buonismo di una rappresentazione troppo schematica, troppo facile, dove tutti i conflitti sono sepolti e dimenticati. Le baracche di lamiera non scompaiono. Le famiglie che festeggiano nelle case sono monocolore. Charles si distingue troppo facilmente dagli altri. Non è il resoconto di un miracolo dunque, ma la narrazione del pervicace tentativo di ottenere ciò che più ad esso si avvicina. Forse lo si può ottenere solo nella breve euforia della vittoria, nel breve volo del sorriso bianco di un ragazzino nero sollevato da braccia esultanti. All’apartheid oggi non si è sostituito un benessere diffuso. I conflitti sociali non sono risolti. Ma quel momento storico, quel personaggio e tutto quello che ha significato, sono comunque un traguardo per l’umanità: per i popoli e per gli individui.



Il film si apre con un’etichetta che suona come giudizio inappellabile: “terrorista”. Il “terrorista” Mandela, nel giorno della sua liberazione, passa lungo una strada i cui fianchi sono marcati da una robusta staccionata da un lato, da una rete dall’altro. Dietro la prima il rugby dei bianchi, dietro la seconda il calcio dei neri. Due muri, due mondi. Senza mediazione possibile, troppo sangue versato, troppa oppressione, troppa paura. Eppure, le prime parole di Mandela sono “prendete i vostri fucili, i vostri coltelli e buttateli in mare”. Gli obiettivi sono tanto irraggiungibili che neppure vengono pronunciati: pace, unità, fino a dimenticare il colore della pelle di chi ti siede accando in uno stadio, fino a riuscire a sostituire al significato di una bandiera o di un inno un nuovo significato. Le parole suonano stanche e vuote oggi, bollate subito come retoriche col cinismo spietato di chi non crede possibile che qualcuno vi creda davvero. Allora, poche parole e tante immagini e sguardi e gesti. La fiducia è il bambino che si avvicina alla macchina della polizia come un animale diffidente ad un grosso carnivoro sonnolento pronto a ghermirlo, per poi ritrovarcisi seduto a cavallo. La libertà è la domestica silenziosa e invisibile che urla la sua gioia dagli spalti, l’unità è la folla di un bar dove i colori finalmente si mescolano casualmente, la pace è il popolo che cinge d’assedio la macchina del Presidente di tutti i sudafricani.

Il perdono è la porta stretta attraverso cui liberare l’anima dalla paura. Anche dopo secoli di soprusi. Anche dopo un quarto di secolo di carcere. E’ la vittoria totale, perché toglie al nemico ogni alibi per continuare ad esserlo. E’ traguardo per pochi, per chi possiede davvero una forza invincibile; ma chi vi riesce può moltiplicare il suo risultato, rendendo ad altri più agevole raggiungerlo e raggiungere chi su quel cammino lo ha preceduto. “Grazie per aver fatto tanta strada per venire da me”, dice il presidente ai suoi ospiti. Ad avere il coraggio di percorrere quella strada, non c’è muro che non possa essere abbattuto, non c’è ferita che non possa essere medicata, non c’è strappo che non possa essere ricucito, non c’è torto che non possa essere riparato.

Sarebbe da ricordare a chi l’altro ieri ha aperto un quotidiano definendo gli attivisti attaccati da Israele “amici dei terroristi”, attruibuendo quel pesantissimo nome ad una popolazione intera, fiaccata da un assedio, a donne e bambini sofferenti. Dimenticando o non volendo vedere che violenza chiama violenza, fino a che qualcuno non trova il coraggio di spezzare quella catena, di rinunciare alla vendetta.




Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.