TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 5 giugno 2010

Guido Seborga - Edoardo Sanguineti: storia di un'amicizia II




Seconda parte dell'intervista concessa nel 2004 da Edoardo Sanguineti a Francesco Verdino, in cui il poeta recentemente scomparso ricorda la sua amicizia con Guido Seborga. Nella prima parte, pubblicata ieri, vera protagonista del racconto era stata la Torino intellettuale e artistica della fine degli anni Quaranta, ora la scena si sposta a Bordighera...


Edoardo Sanguineti

Non voleva essere definito neorealista, eppure...

Intervista a cura di Stefano Verdino* - Seconda parte



Qualche debito, comunque, verso di lui...

Io gli sono grato per avermi prestato e fatto conoscere dei libri che altrimenti era difficile trovare, come nel caso di Artaud. Ero riuscito a mettere le mani su Eliogabalo – Héliogabale, naturalmente, non esistevano traduzioni – lui aveva Le suicidé par la societé, il libro su Van Gogh, e Pour en finir avec le jugement de dieu. Ero ansioso di leggere questi testi che non si trovavano allora in Italia. Qualcuno poteva averli, ricordo le acrobazie di allora per leggere La recherche: un mio compagno di università mi fece prestare dal padre, un volume alla volta, tutta La recherche e io me la lessi: non solo non era tradotta, ma averla nell'edizione Gallimard era allora un lusso raro. Così capitava per tutto. Ad esempio per il Journal di Kafka (dico Journal perchè la prima era una edizione scelta dei diari di Kafka in francese), e si andava avanti in questo modo.
Con Seborga si parlava di una quantità di argomenti, che andavano dalla politica alla letteratura. La cosa si rinforzava quando ci ritrovavamo a Bordighera, dove io andavo tutti gli anni. A Torino, in pratica, ci frequentavamo poco. Lui capitava magari nei caffè di piazza San Carlo, di via Po... era sempre arrabbiato e gridava con tutti...

Il fatto nell'ambiente era...

Certo, era molto mal visto, perchè allora Torino era una città di borghesi più di quanto non lo sia oggi, paradossalmente. Tutta la classe operaia era davvero emarginata nelle periferie e in dormitori. Invece il centro della città, i caffè...

Era ancora una città ottocentesca...

Era ancora una città sabauda, in sostanza, una città molto contegnosa. Lo erano un po' tutti i torinesi, a paragone dell'Italia, e anche i bohémiens conducevano una vita tutto sommato molto composta. Quello che avveniva di scomposto avveniva negli studi dei pittori, non in pubblico. Seborga invece, in piena piazza San Carlo, urlava contro questo o contro quello. Era uno che si vantava continuamente di aver conosciuto tizio caio e sempronio, di esserne amicissimo, ma nessuno poteva verificarlo. Poi era preda di un fortissimo vittimismo: “Mi vogliono male, mi perseguitano, non vogliono pubblicare i miei romanzi... io che a Parigi...” eccetera, eccetera. Questo lo isolava molto.



Capo Sant'Ampelio



Invece a Bordighera...

Invece a Bordighera era tutto tranquillo. Si andava a fare il bagno. Lui che faceva finta di essere un grande nuotatore – è vero quello che alcuni raccontano – invece non amava nuotare. Ci trovavamo a Sant'Ampelio, c'era un bar. Arrivava di solito che aveva già sbrigato il bagno; lo facevamo lì tra le rocce, ma non ricordo che mai avessimo nuotato insieme, anche perché era una spiaggia assolutamente invernale. D'estate non c'erano turisti, non esisteva una cabina, era tutta sassi. Gli indigeni nuotavano pochissimo, anche i giovani, semmai si praticava un po' di pesca. Ricordo che pescavo con la lenza tra gli scogli. Avevo uno zio che abitava lì, c'era mio cugino, che aveva qualche anno più di me; cominciai a giocare a tennis con lui, lui fu un po' quello che mi rivelò il jazz, mentre io ero molto legato al melodramma e alla musica classica per l'imprinting famigliare.
Allora a Sant'Ampelio c'era una specie di automatico appuntamento: verso le undici, tranquillamente, sbrigato il bagno, ognuno per proprio conto, si andava là, si leggevano i giornali, c'era un po' di radio accesa – ché allora la televisione non c'era ancora – e ascoltavamo questa musica di fondo come si usa ancora oggi, ma era più discreta, nel complesso, e si chiacchierava di tutto. Ricordo che si leggevano le cose più strane del mondo, per esempio il Mallarmé di Bo, un libro durissimo, dove l'ermetismo era veramente una forma di terrorismo culturale; oppure Otto studi egualmente di Bo: ne ricordo uno veramente impressionante, era su Proust e si intitolava Lo scrittore P. Perchè dire “lo scrittore Proust” era troppo volgare... Il surrealismo patrocinato da Bo e in seguito in qualche modo, che so, da Gatto o altri, era però addomesticato all'italiana, insomma quello che c'era di rivoluzionario era sparito. Rimanevano i secondi futuristi, importanti allora nella Torino dei pittori, anche se magari ormai esuli, come Oriani, Crispolti scrisse un libro importante, quando scoprì questo movimento torinese e fu l'apertura d'interesse verso di esso. Ma eravamo ormai in anni più avanzati.

E a proposito degli scritti di Seborga...

I libri di Seborga, secondo me, hanno un interesse. Lui non voleva essere definito neorealista, in realtà apparteneva chiaramente a questa corrente, perché i suoi scritti, pur rimanendo in quell'ambito, contenevano però una certa volontà sperimentale. Più che nell'Uomo di Camporosso, soprattutto nel Figlio di Caino si avverte questo tentativo: un romanzo epicizzante in versi, dove l'influenza di Brecht mi pare abbastanza evidente. Era comunque un esperimento, si può discutere quanto riuscito: le parti erotiche sono molto ingenue, il finale retorico. Ci sono si queste debolezze, però è stato sepolto sotto un oblio totale e questo non è giusto. Ci si può consolare pensando a quanto Novecento sia stato emarginato e per quanto tempo, ma poi ogni tanto risorge. Penso a Baldini, per esempio, o anche a Landolfi, uno scrittore che appare e scompare, ma in ogni caso non è uno scrittore popolare. E questo, ingiustamente, è successo a molto Novecento.

Dove invece sopravvive la Deledda, un nome sopravalutato...

Ma lì c'è di mezzo un Nobel, che rappresenta una specie di paradiso, una nicchia da cui è difficile essere tolti.

* Conversazione registrata a Genova, 9 marzo 2004


(Da: La Riviera Ligure, Quaderni quadrimestrali della Fondazione Mario Novaro, anno XV - Numero 43/44, gennaio-agosto 2004)


Ringraziamo la Fondazione Mario Novaro per l'autorizzazione a riprendere questo articolo.



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