TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 10 giugno 2010

Quando il moralismo diventa etica... Riflessioni su "Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde"


La proposta di legge sulle intercettazioni e le polemiche seguitene sono lo specchio di una società e di un Paese che hanno perso ormai in larga misura ogni visione etica, in cui i "vizi privati" tendono sempre più a divenire "pubbliche virtù". E' riflettendo su questo che abbiamo chiesto ad Armida Lavagna di parlarci de "Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde", il capolavoro di Robert L. Stevenson.

Armida Lavagna

Quando il moralismo diventa etica... Riflessioni su "Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde"

A metà tra il giallo e l’horror, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è in realtà, soprattutto un efficacissimo e sempre attuale romanzo psicologico incentrato sul dissidio dell’anima umana, ed ancor più una spietata denuncia della società vittoriana e del suo moralismo.
I comportamenti sociali dell’avvocato Utterson e del suo amico e parente Richard Enfield forniscono una chiave interpretativa per il romanzo di Stevenson, e la forniscono già dalla prima pagina, dove l’avvocato, descritto accuratamente, risulta “severo nei confronti di se stesso”, “tediato” da quello che pure sembra essere il suo svago preferito, le passeggiate che sono soliti fare la domenica lui ed Enfield, che “salutavano con evidente sollievo l’apparire di un comune conoscente”.
Uno svago forzato, un passatempo finalizzato non a conversazioni intime, a confidenze sincere, ma al reciproco “rinforzo” delle proprie posizioni morali e sociali, attraverso la minuta e attenta osservazione della realtà circostante. Una sorta di esercizio spirituale senza nulla di spirituale.

Poche righe dopo, Enfield racconta il primo episodio della favola tragica di Jekyll/Hyde: lo scontro notturno ad un incrocio fra due strade tra una bambina ed un uomo in corsa precipitosa il quale, dopo averla calpestata, prosegue la sua strada abbandonandola ferita. L’episodio ha un che di grottesco più che di tragico. Non siamo di fronte ad un efferato omicidio, ad una meditata violenza, ma ad una sorta di “incidente” seguito da una omissione di soccorso. Certamente un atto infame, ma di sicuro non il più atroce delitto commesso da Hyde. L’attenzione dell’autore non è tanto rivolta alla riprovevole condotta del sinistro uomo, bensì alle minacce rivoltegli da Enfield e dalle altre persone accorse in aiuto della bimba: Hyde viene persuaso a versare un indennizzo alla famiglia della bambina non attraverso la minaccia di denunciarlo alla polizia (a nessuno balena in mente questa possibilità, mentre più d’uno alla vista di quella “creatura infernale” d’istinto medita l’omicidio, pur senza confessarlo; atto ancora più atroce di quello commesso da Hyde...), ma con la minaccia della diffamazione: ”noi potevamo fare e avremmo fatto un tale scandalo dell’accaduto, da infamare il suo nome da un capo all’altro della città. Se aveva amici, o qualsiasi credito, sarebbe stato nostro compito farglieli perdere”. Enfield, narrando l’accaduto all’amico, insiste sul fatto che le loro facce erano minacciose, piene d’odio come mai ne aveva viste fino ad allora, le donne “selvagge”, mentre Hyde cerca di non mostrare il proprio spavento, che pure “si vedeva”, simulando una “tetra ironica freddezza”.
Ad un lettore attento, non può sfuggire che da quella “creatura infernale” i visi minacciosi che la circondano sono meno lontani di quanto Enfield voglia ammettere, sono in qualche modo parenti. Perché, ci direbbe il dottor Jekyll, ognuno di essi nasconde dietro di esso un “piccolo” mister Hyde, senza vederlo e ammetterlo.
Dentro ogni essere umano c’è sia il bene che il male, o almeno la curiosità verso il male (che invece non è assolutamente curioso del bene), la tentazione di cedervi; nella società vittoriana in cui il romanzo è ambientato, questa verità viene soffocata con cura, dissimulata, attraverso il perbenismo, attraverso l’applicazione di una morale morbosa che ha come sommo principio quello di non mostrare il male casomai sia commesso, di non renderlo noto.



E’ questa l’origine della tragedia del dottor Jekyll, nel quale la componente malvagia, prima del ritrovamento della pozione che le dà vita e alimento, è in fondo ridotta, se non proprio trascurabile: qualche piccolo vizio, qualche debolezza, che vanno tuttavia tenute accuratamente nascoste per salvaguardare l’immagine cristallina che egli ha costruito di sé. Ma la curiosità verso il male crescerà a dismisura, ed il ricorso ad esso diventerà un’abitudine, una droga, dal momento in cui potrà essere compiuto sotto un’altra identità, sotto un altro aspetto che lo illude di non essere, com’è in realtà, un altro se stesso.
Il messaggio di Stevenson, il suo giudizio sulla società in cui vive, è agghiacciante e spietato: il vero freno inibitore, il vero responsabile della nostra condotta morale non è la coscienza, ma la vergogna, la riprovazione da parte della comunità.
Tale giudizio risulta ancora più negativo dopo la lettura di un’altra affermazione di Enfield, sempre riguardante l’episodio citato: “Sono piuttosto contrario a fare domande; è troppo nello stile del giorno del giudizio. Se tu fai una domanda, è come se lanciassi una pietra. Te ne stai tranquillo sulla sommità di una collina; la pietra rotola giù, e ne smuove tante altre; sinché qualche ottimo vecchio (l’ultima persona cui pensavi) non viene colpito sulla testa nel suo giardino, e la famiglia deve cambiare nome. No, signore, ne ho fatto una regola per me: più una cosa appare curiosa, meno io domando”.
Utterson non sembra avere lo stesso atteggiamento dichiarato da Enfield, tant’è vero che fino a quel giorno si è rammaricato e crucciato di non sapere chi fosse lo sconosciuto erede testamentario del dottor Jekyll, verso il quale - prima ancora di saperne qualcosa - nutre sospetto e diffidenza. Il consiglio del suo amico tuttavia non è in contrasto col suo comportamento: la prima ragione di dubbio su questo sconosciuto Hyde sta proprio nel fatto che egli non è favorevolmente conosciuto. La “regola” di Enfield, infatti, non è ispirata da precetti evangelici, non è il ripudio del ricorso al biasimo altrui previsto dal motto “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, ma riflette un atteggiamento ben meschino e assai poco “morale”: il rischio nel porre domande è che lo scandalo cada su un “ottimo vecchio”, su una persona stimata per lungo tempo, tranquilla nell’intimità della sua casa, dentro la quale può aver perpetrato chissà quali delitti, ma senza che sino a quel momento siano stati scoperti. Meno se ne scoprono, più sarà garantita la stabilità sociale e il conformarsi alla morale dominante, almeno nelle apparenze.
Le domande che il dottor Jekyll ha osato porre, che ha osato porre a se stesso, hanno condotto lui alla “scomparsa” e Hyde al suicidio, ma hanno anche messo in discussione il sistema morale su cui si regge la società in cui è ambientata la vicenda; se l’avvocato Utterson avesse lo stesso coraggio del suo amico dottore, vedrebbe nel corpo contorto di Hyde l’immagine di se stesso riflessa da uno specchio deformante. Ma siamo certi che non ha quel coraggio. Siamo certi che, se la storia di Stevenson continuasse, leggeremmo che con sollievo è stata data la notizia della morte dell’ignobile Hyde e con rammarico quella della misteriosa sparizione dello stimato dottor Jekyll. Se possibile, si cercherà di salvare il suo nome, poiché è quello, non l’identità, a discriminare il bene dal male agli occhi della comunità.
Il metro utilizzato nel giudizio è la rispettabilità sociale, data dalla fama, dalla posizione sociale, dalla professione, dall’aspetto; a priori, prima ancora di indagare sulle motivazioni delle azioni e sulla gravità delle stesse, la sentenza è emessa in base a questo.


Questo ritratto al vetriolo della società vittoriana dovrebbe rappresentare oggi un quadro interessante di un lontano passato. Invece, questo romanzo è un classico. E classico è quel testo che non ha mai finito di dire ciò che ha da dire. Il dottor Jekill ha ancora molto da dire, anzi da gridare, alla nostra società. Apparentemente disinibita e “moderna”, in realtà ancora intrisa fino al midollo di un moralismo spacciato per etica da cui evidentemente non riusciamo a liberarci. E come potrebbe liberarsi dall’idea che il male è tale solo quando viene divulgato, reso pubblico, palesato in maniera inconfutabile, una società che tutto basa sull’apparenza e sulla rappresentazione? Quanti avvocati Utterson e quanti Enfield sono oggi impegnati a mostrare reverenza per una rispettabilità sociale a priori, in nome della quale vietare intercettazioni, ridurre il numero di notizie disdicevoli sulle pagine dei quotidiani, minimizzare il rischio che diano scandalo i potenti e gli abbienti, i vescovi, politici, i poliziotti, costretti se colti con le mani nel sacco da una telecamera o da una registrazione ad una gogna mediatica che è l’unica pena, l’unica sanzione che realmente temono, poiché spesso è l’unica sanzione che fino ad oggi (tra poco neppure più quella...) viene realmente loro applicata?




Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.