TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 13 maggio 2014

Raffaele K. Salinari, Walter Benjamin e l’omino con la gobba



Dunque nel rito messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini, all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza”

Raffaele K. Salinari

Walter Benjamin e l’omino con la gobba

C' è un per­so­nag­gio che accom­pa­gna, nasco­sto nel pro­fondo per­ma­nente ed immu­ta­bile degli arche­tipi infan­tili, tutta la vita di Wal­ter Ben­ja­min; un «chi è» che tro­viamo armeg­giante nei nascon­di­gli imma­gi­nali in cui il filo­sofo dei Pas­sa­ges ha voluto espli­ci­ta­mente col­lo­care la sca­tu­ri­gine del suo pen­siero. Un essere meta­fo­rico che si nasconde nel buio più recon­dito da cui ori­gi­nano le sue fol­go­ranti intui­zioni, e che da quella posta­zione gli disa­mina la visione delle cose.

Que­sto per­so­nag­gio ha solo una spe­ciale richie­sta, che fa per per­pe­trarsi nel tempo e nel ricordo di altre gene­ra­zioni, eter­niz­zare la sua essenza mutan­done la forma, come avviene per ogni immor­ta­lità sim­bo­lica: chiede che il suo nome resti segreto. In caso con­tra­rio egli spa­ri­rebbe, e con lui il mondo che lo ospita. È il dyb­buk di Wal­ter Ben­ja­min: l’«omino con la gobba» che tro­viamo nasco­sto anche nell’automa gio­ca­tore di scac­chi della prima Tesi sul con­cetto di sto­ria. «È noto che sarebbe esi­stito un automa costruito in un modo tale da rea­gire ad ogni mossa di un gio­ca­tore di scac­chi con una con­tro­mossa che gli assi­cu­rava la vit­to­ria.

Un mani­chino vestito da turco, con una pipa in bocca, sedeva davanti alla scac­chiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di spec­chi veniva data l’illusione che vi si potesse guar­dare attra­verso da ogni lato. In verità c’era seduto den­tro un nano gobbo, mae­stro nel gioco degli scac­chi, che gui­dava per mezzo di fili la mano del mani­chino. Un cor­ri­spet­tivo di que­sto mar­chin­ge­gno si può imma­gi­nare nella filo­so­fia. Vin­cere sem­pre deve il mani­chino detto «mate­ria­li­smo storico».



Esso può com­pe­tere senz’altro con chiun­que se prende al suo ser­vi­zio la teo­lo­gia, che oggi, com’è a tutti noto, è pic­cola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere». Ma que­sto «nano gobbo», per ammis­sione dello stesso Ben­ja­min, è in realtà un suo «dop­pio», il dyb­buk che lo pos­siede e lo spinge a fare ciò che vuole, così dirà nel suo sag­gio Avan­guar­dia e rivo­lu­zione, citan­dolo come impa­ren­tato ai per­so­naggi scan­zo­nati, vaga­bondi e gio­iosi di Robert Wal­ser «che si muo­vono nella notte, dove essa è più nera; una notte vene­ziana, se si vuole, illu­mi­nata dai deboli lam­pioni della spe­ranza, con qual­che luce di gioia negli occhi».

Il dyb­buk, nella tra­di­zione popo­lare ebraica polacca e tede­sca, è lo spi­rito disin­car­nato al quale è stato vie­tato l’ingresso in para­diso per aver com­messo pec­cati mor­tali, come il sui­ci­dio per amore. Ad alcune di que­ste anime, per imper­scru­ta­bili motivi, viene data la pos­si­bi­lità di emen­darsi con­di­vi­dendo l’anima di un altro corpo, ed avere così una seconda possibilità.

Nelle vec­chie sina­go­ghe di Ber­lino, quando Ben­ja­min era ancora bam­bino, si nar­rava anche che i dyb­buk fos­sero fug­giti dalla gehen­naa, un ter­mine ebraico tra­du­ci­bile libe­ra­mente con «luogo dei mia­smi». Ma ciò che dà il senso ultimo del dyb­buk è l’etimologia della parola, che deriva dall’ebraico davok, «attac­carsi»: il dyb­buk dun­que è un qual­cosa che si attacca ad un vivente per coa­bi­tare in esso, in senso ampio una «pos­ses­sione». Que­sta sim­biosi forma un dib­bu­kim, ed è così che descrive la pro­pria rela­zione con l’«omino gobbo» il filo­sofo ber­li­nese in una let­tera all’amico Ger­shom Scho­lem: «con­serva le mie imma­gini, io non posso divi­dermi da lui», come ad evo­care qual­che cosa di deter­mi­na­tivo per tutto il suo essere.



















Que­sto per­so­nag­gio appare la prima volta nella rac­colta di imma­gini Infan­zia ber­li­nese, edita postuma nel 1950 a cura dell’amico Theo­dor Adorno: «Nel 1932, men­tre ero all’estero, ini­ziai a ren­dermi conto che pre­sto avrei dovuto dire addio per molto tempo, forse per sem­pre, alla città in cui ero nato… Nella mia vita inte­riore avevo più volte spe­ri­men­tato come fosse salu­tare il metodo della vac­ci­na­zione, lo seguii anche in que­sta occa­sione e inten­zio­nal­mente feci emer­gere in me le imma­gini — quelle dell’infanzia — che in esi­lio sono solite risve­gliare più inten­sa­mente la nostal­gia di casa.

Cer­cai di con­te­nerla restando fedele non al cri­te­rio della cau­sale irre­cu­pe­ra­bi­lità bio­gra­fica del pas­sato bensì a quella, neces­sa­ria, di ordine sociale. Ciò ha com­por­tato che i tratti bio­gra­fici che si deli­neano piut­to­sto nella con­ti­nuità che nella pro­fon­dità dell’esperienza, in que­sti brani restino del tutto sullo sfondo. E con essi le fisio­no­mie — quelle della mia fami­glia al pari di quelle dei miei com­pa­gni. Mi sono invece sfor­zato di impa­dro­nirmi di quelle imma­gini in cui l’esperienza della grande città si sedi­menta in un bam­bino della bor­ghe­sia. Ritengo pos­si­bile che a tali imma­gini sia riser­vato un par­ti­co­lare destino. Non sono ancora attese da forme ben model­late come quelle di cui, nel sedi­mento della natura, da secoli dispon­gono i ricordi di una infan­zia tra­scorsa in cam­pa­gna. Le imma­gini della mia infan­zia nella grande città invece sono forse ido­nee a pre­for­mare nel loro intimo l’esperienza sto­rica suc­ces­siva. Almeno in que­ste, spero, appare com­pren­si­bile quanto colui di cui qui sui parla in una fase suc­ces­siva fece a meno della sicu­rezza che era toc­cata alla sua infanzia».

Così Wal­ter Ben­ja­min motiva la ricerca delle sue immagini-guida nell’introduzione di Infan­zia ber­li­nese. Qui il tema del ricordo, della recher­che di tipo prou­stiano, si ali­menta, ma solo in appa­renza, di un per­corso metro­po­li­tano che, però, fini­sce ine­vi­ta­bil­mente per con­ver­gere verso quel per­so­nag­gio attorno al quale, per espli­cita ammis­sione e scelta dell’autore, gra­vi­tano tutte le imma­gini capaci di «pre­for­mare nel loro intimo l’esperienza sto­rica suc­ces­siva». Qui Ben­ja­min allude, ancora una volta, alla «debole forza mes­sia­nica» di certe imma­gini, forse in grado di sal­vare un futuro pre­sente sul quale già si sten­deva minac­ciosa l’ombra incom­bente del nazi­smo. Theo­dor Adorno bene iden­ti­fica que­sto nesso quando, nella post­fa­zione alla prima edi­zione della rac­colta afferma: «Infan­zia ber­li­nese è stata scritta all’inizio degli anni Trenta… Le imma­gini che il libro fa emer­gere fino ad una scon­cer­tante vici­nanza, non sono né idil­lia­che né con­tem­pla­tive. Su di loro si stende l’ombra del reich hitle­riano. Come in sogno, con­giun­gono l’orrore che que­sto suscita a ciò che è stato. Di fronte alla dis­so­lu­zione del pro­prio pas­sato bio­gra­fico, l’intellettuale bor­ghese, con ter­rore panico, prende con­sa­pe­vo­lezza di se stesso come parvenza».

E cosa ci può essere di più par­vente, fan­ta­sma­tico, ma al tempo stesso reale e per­ma­nente, di un per­so­nag­gio infan­tile con il quale si è col­lo­quiato durante i lun­ghi anni della pro­pria for­ma­zione psi­chica? La sua cen­tra­lità è tale, nell’economia di Infan­zia ber­li­nese e non solo, che Adorno, nella post­fa­zione, dice chia­ra­mente che: «L’omino con la gobba doveva ser­vire da conclusione».

Dunque nel rito messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini, all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza



La scan­sione delle imma­gini di Infan­zia ber­li­nese, infatti, ci guida verso l’«omino con la gobba» attra­verso la descri­zione di luo­ghi defi­niti, come il Kai­ser­pa­no­rama, un pre­cur­sore del cinema con imma­gini da vedere attra­verso ste­reo­scopi davanti ai quali sede­vano gli spet­ta­tori, o i ricordi del Tier­gar­ten, il grande parco al cen­tro della città con i suoi favo­losi ani­mali, la lon­tra, i pavoni le far­falle, o della sua casa immersa nella luce lunare che «non è desti­nata al nostro vivere diurno», con tutto il cor­teo dome­stico di armadi, cal­zini, la sca­tola con gli stru­menti per cucire, o il tele­fono che, all’epoca, se ne stava «incom­preso ed esi­liato». Dun­que nel rito mes­sia­nico che Ben­ja­min ammi­ni­stra attra­verso l’accurata scelta delle imma­gini, all’«omino con la gobba» viene affi­data una pro­messa di salvezza.

Dopo que­ste «stanze», a mo’ di intro­du­zione, ecco ad un tratto appa­rire un essere, una entità, total­mente distinta, un tota­li­ter ali­ter cui Ben­ja­min, ina­spet­ta­ta­mente, attri­bui­sce il ruolo di alter ego, ma di un tipo affatto par­ti­co­lare, dato che è lui a vedere, senza essere visto, tutte le imma­gini pre­ce­denti: «Quando com­pa­riva restavo con un palmo di naso (nell’originale tede­sco Ben­ja­min usa l’espressione das Nach­se­hen haben, alla let­tera «seguire le cose con lo sguardo»). E intanto le cose si ritrae­vano, sino a che, pas­sato un anno, il giar­dino divenne un giar­di­netto, la mia camera una came­retta, la panca una pan­chetta. Le cose si assot­ti­glia­vano, ed era come se spun­tasse loro una gobba che le assi­mi­lava all’omino. L’omino mi anti­ci­pava sem­pre. E nell’anticiparmi intral­ciava il mio cam­mino. In realtà non faceva che riscuo­tere di ogni cosa cui vol­gevo la mia atten­zione, la metà del dimen­ti­care… Fu sem­pre solo lui a vedere me. Mi vide nel nascon­di­glio e davanti al recinto della lon­tra, nei mat­tini d’inverno e davanti al telefono…».

L’«omino gobbo» dun­que, assi­mila pro­gres­si­va­mente il mondo visio­na­rio ed infan­tile di Ben­ja­min nella sua gobba, riscuo­tendo inol­tre la «metà del dimen­ti­care». Ecco per­ché il filo­sofo, alla fine, lo ritiene il suo dyb­buk, una entità che vive con lui, che con­di­vide i sui pen­sieri più nasco­sti, ed anche che li pro­tegge dalla sto­ria nella sua mistica gobba. Come non richia­mare un’altra immagine-guida di Ben­ja­min, quella dell’Angelo della sto­ria con il volto alle mace­rie del pas­sato e le ali già spie­gate verso il futuro?



Non è forse il mondo che l’omino con la gobba pre­serva nella sua defor­ma­zione a costi­tuire il pos­si­bile futuro verso il quale l’Angelus Novus viene spinto? Come dirà delle immagini-costellazione nei suoi Pas­sage pari­gini, l’«omino con la gobba» vive in un luogo in cui «un’epoca sogna la successiva».

Tutto ciò che si pro­duce nell’ebraismo, ha scritto Rosen­z­weig in La stella della reden­zione, com­porta una dop­pia rela­zione, da una parte con que­sto mondo e dall’altra con un mondo che deve venire: Ben­ja­min ricava il suo spa­zio in que­sta tra­di­zione. Ecco per­ché l’«omino con la gobba» di Infan­zia ber­li­nese, nasco­sto nel buio not­turno della can­tina, così come il suo cor­ri­spet­tivo nasco­sto nel buio dell’automa gio­ca­tore di scac­chi nelle Tesi sul con­cetto di sto­ria, verrà da Ben­ja­min con­ti­nua­mente citato, richia­mato, allu­si­va­mente evo­cato in una plu­ra­lità di saggi, come quello su Kafka, al fine di essere poi uti­liz­zato come vei­colo meta­fo­rico, affi­da­bile pro­prio per la sua spe­ci­fi­cità for­male, per quella carica pro­iet­tiva che in Ben­ja­min, come in tutti i grandi visio­nari, cam­biava di pola­rità mutando la defor­mità in sal­vezza.

La genia dell’omino con la gobba. Ma chi erano i sodali dell’«omino gobbo», la sua genia occulta, nasco­sta nella buca del pal­co­sce­nico infan­tile del filo­sofo ber­li­nese? Tra quali per­so­naggi della tra­di­zione ebraica egli lo aveva scelto per la capa­cità di tra­sfor­mare in visione mes­sia­nica le angu­stie e le paure della sua vita erra­bonda, in deflusso esca­to­lo­gico le ansie infan­tili? Il filo sot­tile che lega que­sti per­so­naggi viene costan­te­mente evo­cato da Ben­ja­min come in una for­mula alche­mica, in cui ciò che si legge non cor­ri­sponde a nulla di frui­bile se non per un ini­ziato che pos­segga la chiave di let­tura. L’«omino gobbo» appar­tiene, lo abbiamo accen­nato, a quella stirpe di figure che Ben­ja­min rife­ri­sce all’arte di Robert Wal­ser; in spe­ci­fico a quella parte che «ci rivela donde pro­ven­gono i suoi diletti. E cioè dalla fol­lia, e basta».

Si tratta però di una forma di «fol­lia» par­ti­co­lare, più defi­ni­bile come «mania», avrebbe detto Pla­tone nel Fedro (244 A-C), come quella che «viene dalle Ninfe», che porta i doni più ambiti, una fol­lia che «illu­mina».

Anche in una let­tera al suo amico Ger­shom Scho­lem, Ben­ja­min scrive che «la fol­lia è l’essenza dei per­so­naggi di Kafka; da Don Chi­sciotte, agli assi­stenti, fino agli ani­mali», e aggiunge che solo l’aiuto di un folle è vera­mente un aiuto.



«Vi è, come dice Kafka, un’infinita spe­ranza, solo non per noi». Ecco che il dyb­bu­kim Wal­ter Benjamin-omino con la gobba, al tempo stesso lui e non lui, può lan­ciare uno sguardo sull’infinita spe­ranza. Nel sag­gio su Kafka, Ben­ja­min ci spiega che «que­sto ometto è l’inquilino della vita distorta; e sva­nirà quando verrà il Mes­sia, di cui un gran rab­bino ha detto che non intende mutare il mondo con la vio­lenza, ma solo aggiu­starlo di pochis­simo». E allora, que­sto «aggiu­stare di pochis­simo», que­sto rad­driz­zare i torti, come forse la gobba dell’omino, met­tono il per­so­nag­gio «kaf­kiano» in diretta rela­zione col Messia.

Il «gran rab­bino» a cui Ben­ja­min fa rife­ri­mento è Rabbi Nach­man di Bre­slav, uno dei padri fon­da­tori del chas­si­di­smo, il movi­mento mistico popo­lare che vedeva la spe­ranza palin­ge­ne­tica depo­si­tata negli emar­gi­nati, i folli e gli inetti. Rabbi Nach­man soste­neva, con disar­mante sem­pli­cità, che «la venuta del Mes­sia non cam­bierà nulla, salvo che ognuno si accor­gerà della pro­pria insipienza».

Da que­sto rife­ri­mento capiamo anche l’attitudine di Ben­ja­min rispetto al mondo miste­rioso dell’infanzia, a quei segreti nasco­sti all’interno della gobba dell’omino come nel buio dell’automa gio­ca­tore di scac­chi. Per que­sta cor­rente del misti­ci­smo ebraico, infatti, il solo nomi­nare que­sti segreti senza sve­larli, poteva affret­tare l’avvento dei tempi mes­sia­nici. Per capire il chi è dell’«omino con la gobba» si deve dun­que tor­nare alle visioni infan­tili che egli ritro­vava nelle espe­rienze con l’hashish, dove ad un certo punto dice: «La male­du­ca­zione è il dispia­cere che il bam­bino prova per il fatto di non essere capace di magia. La sua prima espe­rienza del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua inca­pa­cità di pra­ti­care la magia».

L’«omino con la gobba» è dun­que un essere favo­loso che ci riporta ai momenti esta­tici, auro­rali, dell’entusiasmo infan­tile: il tempo del mistero e del segreto, quando «tutto era ancora possibile».

«Non cre­diate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia» dice Rilke, e nes­suno più di Ben­ja­min, che ha teso tutta la sua vita tra le pola­rità di una fede poli­tica mate­ria­li­sta e una reli­gio­sità mistica, può capirlo.

Anche nel romanzo di Elias Canetti Auto da fé (nell’originale Die Blen­dung, acce­ca­mento), com­pa­riva un gob­betto gio­ca­tore di scac­chi, l’ebreo Fischerle, anche lui sim­bolo del legame che l’uomo deve avere con le rovine del pas­sato se vuole pro­get­tare il futuro. Sia per Ben­ja­min che per Canetti, allora, l’«omino gobbo» è il fan­ta­sma dell’identità che per nascon­dersi e sal­varsi, ma anche per agire sot­til­mente sul mondo, deve pren­dere forme deformi.Sullo sfondo di que­ste sto­rie si sta­gliano infine figure come quelle del Golem, creato da Jehuda Löw ben Beza­lel, rab­bino in Praga nel sedi­ce­simo secolo, o dell’Homun­cu­lus di Para­celso: simu­la­cri di vita pro­dotti arti­fi­cial­mente ed al ser­vi­zio del loro padrone certo, ma solo in quanto ani­mati dalle stesse forze misti­che che donano la vita, o la morte, agli esseri umani che li hanno concepiti.



La con­fes­sione

Que­sta chiave di let­tura intima, per­so­na­lis­sima, ci viene data da Ben­ja­min in punto di morte, come estrema con­fes­sione che ritro­viamo in una let­tera alla ado­rata Gre­tel Adorno, alla quale ha affi­dato il segreto dei suoi ricordi. Siamo qui a poche ore della morte sui­cida, nel Set­tem­bre del 1940 a Port-Bou in Spa­gna, men­tre ten­tava di emi­grare negli Usa. Ben­ja­min ha con sé una borsa nera nella quale, forse, si trova la ste­sura finale, «asso­luta» dirà lui, delle Tesi, che egli vedeva come pre­messa neces­sa­ria al grande affre­sco dei Passage.

Il suo stato d’animo è ben descritto dalla let­tera nella quale ritorna il con­te­nuto inti­mi­sta delle imma­gini di Infan­zia ber­li­nese: «Per quanto con­cerne la tua richie­sta di appunti che pos­sano risa­lire alla con­ver­sa­zione sotto gli alberi di mar­ron­niers, ebbene, si è pre­sen­tata in un momento in cui pro­prio que­gli appunti mi hanno dato da fare. La guerra, e la costel­la­zione che l’ha por­tata con sé, mi ha con­dotto a met­tere per iscritto alcuni pen­sieri che posso dire di aver tenuto per almeno vent’anni custo­diti in me, anzi pre­ser­van­doli pure da me stesso. Que­sto è anche il motivo per cui per­sino a voi non ho con­cesso altro che un fug­ge­vole sguardo su di essi. La con­ver­sa­zione sotto i mar­ron­niers fu una brec­cia in que­sti vent’anni. Ancora oggi te li con­se­gno più come un maz­zetto di erbe sus­sur­ranti messe insieme in pas­seg­giate medi­ta­tive che come una rac­colta di tesi (…).

Esse mi fanno sup­porre che il pro­blema del ricordo (e dell’oblio), che vi appare ad un altro livello, mi terrà occu­pato ancora per molto tempo». In realtà egli non ebbe tutto il tempo che avrebbe voluto, pochi giorni dopo una dose di mor­fina lo stron­cherà, ma nella mis­siva respi­riamo l’aria che aleg­gia intorno ai miste­riosi per­so­naggi che ven­gono diret­ta­mente dai giorni dell’infanzia, la loro sca­tu­ri­gine oni­rica ed allu­siva, che li ren­deva pas­sage dei pen­sieri segreti che solo in punto di morte Ben­ja­min si era deciso a sve­lare. E allora capiamo che la pre­ghiera finale di Infan­zia ber­li­nese dedi­cata al per­so­nag­gio kaf­kiano, è in realtà per se stesso: «Prega bam­bino mio, per l’omino con la gobba prega Iddio».


Il Manifesto – 17 maggio 2013