Spesso i nostalgici del vecchio PCI e della
vecchia Nuova sinistra sovrappongono lotta operaia e sinistra
politica come se fossero la stessa cosa. Non è così. E finchè non
si capirà questo, non si potrà davvero superare quella fase e
soprattutto comprendere il presente. L'impegno teorico e militante di
Raniero Panzieri parte proprio da questa consapevolezza.
Pasquale Martino
I giovani operai dei Quaderni Rossi
Ad agosto era morto Togliatti. Il 9 ottobre 1964
toccò a Raniero Panzieri. Il suo apporto innovativo alla cultura
della sinistra sarebbe apparso in piena luce nel decennio
seguente.
A lui, ebreo romano, nato nel 1921, le leggi
razziali avevano vietato di compiere studi universitari
(frequentava lezioni in Vaticano, dove leggeva… i classici del
marxismo!). Dopo la guerra poté laurearsi in filosofia e, in pari
tempo, aderì al Partito socialista. Verrà descritto come
l’“operaista”, apparentemente chiuso nel mondo delle
fabbriche torinesi; invece ebbe la sua formazione politica nel
Sud, in Puglia e in Sicilia, nelle lotte contadine: un’attiva
partecipazione che gli procurò denunce e processi, ma lo
promosse ai vertici del Psi. Rodolfo Morandi, vicesegretario
nazionale e capo organizzativo del partito, fa di Panzieri il suo
braccio destro e lo avvia a diventare un dirigente.
E qui va notata la qualità dei politici di
sinistra dell’epoca – oggi inconcepibile – i quali erano
prima di tutto intellettuali di altissima cultura e di livello
superiore alla media dei cattedratici (si pensi proprio a
Togliatti e a Morandi). Profondo conoscitore dei testi di Marx,
che leggeva in lingua originale, negli anni ’50 Panzieri
pubblicò la traduzione del libro II del Capitale cui
collaborò la moglie Giuseppina Saija (figura a sua volta notevole
di germanista, nonché traduttrice per Einaudi e per Utet).
A capo della sezione nazionale Stampa e
Propaganda, poi della sezione Cultura, Panzieri avrebbe potuto
succedere a Morandi quando questi morì nel 1955. Non fu così;
tuttavia collaborò strettamente col segretario Pietro Nenni, che
affiancò come condirettore (in realtà, direttore effettivo)
della rivista di cultura «Mondo operaio». Eppure – altro
aspetto degno di nota – egli non era un funzionario di partito.
Nel 1959 si trasferì a Torino per lavorare come redattore per
Einaudi. Qui dedicò l’ultimo quinquennio di vita a tessere un
nuovo progetto politico-culturale. Aveva ormai preso le distanze
sia dai socialisti indirizzati verso l’accordo con la Dc, sia
dai comunisti attardati nei postumi dello stalinismo e
distanti dalla concreta dinamica della lotta operaia.
Propugnava il ritorno a Marx: al Marx economista
e sociologo, l’acuto indagatore dei meccanismi capitalistici
(del quale oggi si riscopre l’attualità). Su questo punto,
infatti, Panzieri misurava tutta l’arretratezza della sinistra.
Fu tra i primi ad analizzare quello che venne chiamato il
«neocapitalismo»: la fase di sviluppo che, dopo la
ricostruzione postbellica, interessava l’Europa e si manifestava
nell’Italia del boom, del “benessere”, del consumo di
automobili ed elettrodomestici. Il che significava
meccanizzazione del processo produttivo, modernizzazione degli
impianti, tecnologia, organizzazione del lavoro, sapere
incorporato nelle macchine; e significava espansione del modello
capitalistico nell’agricoltura e nell’industria culturale;
cosicché i contadini da un lato, gli intellettuali dall’altro,
diventavano lavoratori dipendenti, proletari.
Ed era questo il vero centro di interesse di
Panzieri: la nuova classe operaia, specie quella della grande
industria, composta da giovani e meridionali immigrati. Egli seppe
scommettere sulla propensione dei giovani operai a rivendicare i
propri diritti a muso duro, senza timori reverenziali verso il
padronato. E dopo il letargo degli anni ‘50 un nuovo ciclo di
lotte gli dette ragione: fino alla rivolta di Piazza Statuto nel
1962, a Torino (seguita, nello stesso anno, dalla ribellione degli
edili baresi).
La rivista «Quaderni Rossi» (1961-66), da lui
fondata, è insieme centro studi, sede di dibattito e soggetto
politico informale, che si raccorda con gli operai attraverso lo
strumento dell’inchiesta in fabbrica – un altro caposaldo
della lezione panzieriana – e tenta di stimolare una dialettica
tra le posizioni più aperte nei partiti e soprattutto nel
sindacato.
È allora che la Fiom assume quel ruolo politico
che tuttora la caratterizza sia pure in un contesto del tutto
diverso. E nei primi anni ’70 i consigli di fabbrica furono i
nuovi organismi che ridefinivano il ruolo del sindacato e lo
spazio di autonomia dei lavoratori nel luogo di lavoro, il «potere
operaio» (un'altra espressione di derivazione panzieriana).
Più difficile era modificare i partiti, tant’è
che l’eredità di Panzieri sarà accolta soprattutto dai gruppi
della nuova sinistra post-68 (e non solo da quelli
etichettati come operaisti); ma lascerà un’impronta nella
sinistra socialista, fondatrice del Psiup, e nello stesso Pci (si
pensi al debito di Asor Rosa e di Mario Tronti verso di lui). Fu
profetico nel delineare la capacità del capitalismo di scomporre
il fronte operaio disperdendo la produzione, parcellizzandola,
creando rapporti di lavoro indiretti, individuali, precari,
persino inscenando la presunta “fine della classe operaia”.
A mezzo secolo di distanza, appare stupefacente
l’ampiezza dei suoi contatti e delle corrispondenze epistolari
(da Giovanni Pirelli a Renato Solmi, da Calvino a Fortini a
Vittorio Foa) e delle personalità intellettuali che devono non
poco al suo magistero di pensiero e d’azione (da Goffredo Fofi a
Edoarda Masi a Toni Negri, fino ai più fedeli eredi, Pino
Ferraris e Vittorio Rieser, scomparsi entrambi di recente).
Chi lo
conobbe ne ricorda il tratto di simpatia e di cordialità
dialogica, il fascino di un filosofo compagno di operai, di un
«Socrate socialista» (la definizione è di Stefano Merli) che ha
educato senza enfasi una generazione politica. Licenziato da
Einaudi nel 1963, isolato dalla sinistra maggioritaria per la
sostanza eretica delle sue idee, Panzieri morì a soli 43 anni. La
cerimonia funebre, a Torino, fu sobria, con pochi presenti. Ma
quello che se ne andava era un maestro esemplare nella storia
della sinistra italiana.
La Gazzetta del Mezzogiorno - 8 ottobre 2014