Le parole dicono tutto, anche chi
siamo. Ma bisogna lasciarle parlare e saperle ascoltare.
Pasquale Briscolini
Le parole
Cominciamo con un tono
leggero. Una canzone della nostra grande Mina del 1972 si chiamava:
“Parole, parole”; aveva un “parlato” per la voce Alberto Lupo
e poi, soprattutto, questo ritornello per Mina:
“Parole, parole, parole
Parole, parole, parole
Parole, parole, parole
Parole, parole,
Parole, parole, parole
Parole, parole, parole
Parole, parole,
Parole, parole
Parole soltanto parole
Parole tra noi…”
Parole soltanto parole
Parole tra noi…”
Insomma, era una bella
melodia che ruotava tutta attorno alle “parole”.
Perché “Noi abbiamo la
parola”, mi diceva Rosa Calzecchi Onesti in una delle innumerevoli
conversazioni avute per tanti anni. Che poi aggiungeva: “è
chiaro che anche gli animali hanno un loro linguaggio, ma solo l’uomo
ha la parola”.
Quelle con Rosa erano
conversazioni libere, così come venivano, ma la maggior parte
riguardava il problema educativo, la scuola intesa in senso lato.
Oltre a quelle su Pavese, naturalmente.
Ho poi continuato a
interessarmi del problema educativo che, come ogni problema serio –
ma questo sopra tutti – non si esaurisce mai. O forse dà
l’impressione di essersi esaurito solo quando si è superficiali,
come sintetizza con efficacia l’episodio del grande filologo
Domenico Comparetti, il bisnonno di Don Milani, sulla “presunzione
dei laureati”. E’ lo stesso Don Milani a raccontare che il
bisnonno aveva chiesto a una ragazza laureata: “ che studi fai?”.
E lei: “ho finito”. “Beata te che hai finito. Io no”, le
disse Comparetti che a quel tempo aveva ottant’anni e che studiava
ancora, cosa che fece fino alla morte avvenuta a novantadue anni.
La cultura di Comparetti
era immensa, fu uno dei più grandi umanisti dell’ottocento;
filologo, conosceva più di quindici lingue e partiva proprio dallo
studio del linguaggio. In famiglia si “spaccavano le parole”
anche per passatempo. Da bambini, Lorenzo Milani con il fratello e la
sorella si divertivano a ripetere uno scioglilingua ascoltato dalla
viva voce del bisnonno: “Alopex-pix-pox-pux-fux”. Era una
sequenza che dimostrava il legame etimologico tra una parola greca e
una parola tedesca, e che lascia intuire come le parole di lingue
diverse si siano influenzate nel corso dei secoli e dei millenni, e
come le culture si compenetrino in un continuum che è la vita
dell’umanità.
E si capisce anche come
ciascuno di noi porti dentro di sé la cultura delle proprie origini,
del “mare” nel quale si è trovato a nuotare dopo la nascita e,
forse, ancor prima di nascere.
E si capisce anche meglio
come Lorenzo Milani, a contatto con la realtà sociale dei poveri,
degli ultimi, abbia individuato la vera causa che li schiaccia, li
umilia fino a farli sentire “razza inferiore”: l’incapacità di
usare con disinvoltura lo strumento della parola.
In una delle lettere
dice: “Ciò che manca ai miei è il dominio sulla parola. Sulla
parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi,
sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le
infinite ricchezze che la mente racchiude”. E al direttore del
«Giornale del Mattino» il 28/03/1956 scrive: "Sono otto anni
che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai
tutte le materie. Non faccio più che lingua e lingue. Mi fermo sulle
parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno
una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi".
E’ proprio il lavoro
sulle parole (e non solo il fatto quantitativo di conoscere tante
parole) che costituisce il processo educativo. Così come il
“programma” che nasce a Barbiana giorno per giorno dalla lettura
del giornale, che costituisce l’innesco a conversazioni e
approfondimenti di storia contemporanea, di geografia, di politica,
di educazione sociale, di italiano, di scienze e così via. Come
racconta uno degli allievi, che ha vissuto con Don Milani
l’esperienza fin dall’inizio: “Si leggeva il giornale almeno
due ore al giorno, da cima a fondo, sviscerandone le notizie, con
l’obbligo di interrompere la lettura qualora si incontrassero
parole che non si conoscevano. Le parole erano la base del nostro
programma; dovevamo conoscerne il più possibile, usarle,
comprenderle, renderle il megafono di un pensiero che cresceva con il
nostro vocabolario”.
Le “parole”. Anche
Italo Calvino ha scritto il suo ultimo libro - forse il più bello e
complesso, interrotto dalla morte prematura – basandolo su sei
“parole”: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità,
molteplicità, consistenza.
Ad esse aveva affidato
nientemeno che altrettanti concetti ai quali la letteratura si
sarebbe dovuta ispirare per il millennio che sarebbe iniziato da lì
a quindici anni.
Calvino era preoccupato e
quasi angosciato dalla “caduta di forma” che aveva colto proprio
a partire dall’uso della parola: “Alle volte mi sembra che
un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà
che più la caratterizza, cioè l’uso della parola…”. Anche se
poi aveva continuato in quest’analisi per includere oltre al
linguaggio anche il mondo delle immagini. E per concludere
amaramente: “Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel
linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita
delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie
informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è
per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco
d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della
letteratura.”.
E’ bello ricordare che
anche Pavese ha scritto un articolo sulle parole, e le ha trattate
come una cosa viva e delicatissima*:
- “Tra compagni si è parlato di te e di quel che scrivi, - mi disse l’altro giorno Masino per strada. Quando ci spieghi cos’è un libro e come leggerlo, tu subito metti avanti le parole. Possibile?
- Pensaci un momento.
Masino ha di bello che
capisce un’occhiata. Mi guardò e disse:
- Già. Ma le parole voglion dire qualche cosa.
- Figurati. Ed è proprio per questo che bisogna stare attenti a quelle che si scelgono. Secondo che uno scrittore adopera certe parole o certe altre, tu capisci chi è. Prendi i compagni della guerra di Spagna: chi li chiamava rossi, chi lealisti, chi comunisti e sovversivi, chi patrioti. Ognuna di queste parole ti chiariva con chi parlavi, e veniva a significare una cosa diversa. Nelle parole che tu adoperi c’è la tua classe e il tuo lavoro, quello che sai, quello che mangi, le persone che frequenti. C’è tutto nelle parole.
- Ma in un libro c’è anche una storia, dei personaggi. Noi si diceva che dovresti parlarci di questo. Un operaio come me, se legge un libro, difficilmente sa dire la sua. Le parole le capisco. Ma succedono cose nei libri, che non sempre mi convincono.
- Se non vanno le cose, non van neanche le parole, credi a me.
- Ma ci sono dei libri che sembran ben scritti, e poi sotto ti accorgi che l’autore è d’accordo con quelli che ammazzano il popolo. Mica ha il coraggio di dirlo, ma ti pianta su una storia dove tutti di te se ne infischiano. Ti presenta un ambiente che non si sa di dove vengono le cene che mangiano e quel che consumano. Mai che si dica che senza la classe operaia questa gente non avrebbe neanche il bagno. Mai che si sappia che il mondo non finisce con loro.
- Lo vedi che capisci anche tu? Sta’ tranquillo che quel che manca in questi libri la gente come noi lo sente al volo. E’ come col prossimo: parli un poco e ti accorgi se una persona è dalla tua. Ci sarà chi è più serio e chi ama scherzare, ma quando ti dice come si immagina il mondo senti subito se è un poveretto. E un libro è sempre la descrizione di come uno s’immagina il mondo.
Quest’idea stupì
Masino, che non ci aveva ancor pensato. Vidi che mi strizzò l’occhio
come si fa quando si gode una cosa.
- Però non devi credere che basti scrivere del popolo e raccontare come vive, -dissi a Masino. - Molti ne fanno una speculazione. Ormai ciascuno crede di sapere chi è il popolo e, con tanti libri che si son scritti sul popolo, non è difficile imitarli e parlare come loro. Ma è qui che saltan fuori le parole. Mentre l’intreccio e i personaggi di un romanzo può copiarli chiunque e anche aggiungerci, c’è un tono delle parole e del discorso che ti tradisce per quello che sei. Puoi raccontarle come tue le storielle di tutti, ma la voce che adoperi è sempre la stessa. E la voce di chi scrive è lo stile, le parole che sceglie.
- Ma tu capisci dalla voce chi è sincero?
- Qui ti voglio, Masino. Qui serve la pratica e averci studiato. Molti credono che perché, bene o male, tutti sanno parlare, tutti possano dare un giudizio su quello che è scritto. Ma ci sono dei libri che, se tu non sai leggerli, se non sai le parole, non puoi dire nemmeno quel che valgano dentro.
- Sono libri per noi?
- Sono libri per chi li vuol leggere. Mi sai dire per chi è fatto un libro? Stai lontano dai libri che son fatti per questo o per quello. Anche un libro che è scritto in cinese, l’hanno fatto per te. Si tratta sempre d’imparare le parole di un altro uomo. Tutti i libri che valgono sono scritti in cinese, e non sempre c’è chi li traduce. Viene il momento che sei solo davanti alla pagina, com’era solo lo scrittore che l’ha scritta. Se hai avuto pazienza, se non hai preteso che l’autore ti trattasse come un bambino o un minorato, ecco che incontri un altr’uomo e ti senti più uomo anche tu. Ma ci vuole fatica, Masino, ci vuole buona volontà. E molta pazienza.
Adesso mi ascoltava testa
bassa e compunto.
- Non credere a chi dice che le parole non contano. Anche l’intreccio e i personaggi sono parole. Qualche volta in un libro i personaggi sono gli alberi, le case, le montagne. E che cosa vuol dire? Vuol dire che quello che conta è quel che questi personaggi son diventati nel racconto, quel che hanno in comune – cioè la parola. Una pianta o una donna in un libro non sono legno né carne, sono le parole che te le mettono davanti.
Masino mi ascoltava e
disse a un tratto:
- Ma dietro a un libro c’è una realtà. C’è una lotta di classe. Ci sono ideologie.
- Chi lo nega, Masino? Ma tutto nel libro diventa parole. E ti spiego che devi impararle, nient’altro. Quel che vale sarà la giustezza la finezza la profondità di queste parole. Bisogna amarle per capirle. Ed è proprio per questo che un mondo reazionario si tradisce subito con le parole che adopera: tu non sai cosa sia ma le senti ottuse, slabbrate, false. Mentre chi parla all’uomo con fede storica trova una voce fresca e nuova. E’ inevitabile.
Masino non è mai
contento. Dopo un poco mi fa:
- Ma com’è allora che voialtri, che capite queste cose, parlate bene anche dei libri vecchi che hanno già esaurito il loro compito?
Parlava per farmi
parlare, è evidente. Ma noi si scherza in questo modo.
- Le parole, -gli dissi.- Precisamente le parole. Non importa che un compito storico sia tutto esaurito. Quella fede nell’uomo che si è fatta parola, non attende che un lettore per rivivere. E ha di bello che, essendo svanita la realtà che le ha prodotte, le parole veramente danno adesso da sole tutto il senso e la freschezza che contengono. Il più antico dei libri – l’Iliade – si può leggere come un romanzo. Certo è difficile arrivarci.
- E non c’è differenza tra lui e i moderni? – disse Masino fermandosi. – Tra quelli che si studiano a scuola e i romanzi di Steinbeck?
- Per chi sa le parole, nessuna.
- Quest’è bella, – mi disse Masino. – Non avrei mai creduto.
- Però Steinbeck vale meno, – dissi.”
* Le parole, pubblicato su “L’Unità”
di Torino, 8 maggio 1946
Da: Le colline di Pavese, Ottobre 2014