TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 28 gennaio 2017

Bordiga, Gramsci, l'Internazionale e la "questione italiana"


Già dal 1922 l'emergere di un crescente contrasto fra il partito italiano e la direzione russa dell'Internazionale comunista porta ad una dura battaglia interna e all'ascesa del gruppo de l'Ordine Nuovo alla guida del Pcd'I.


Giorgio Amico

Bordiga, Gramsci, l'Internazionale e la "questione italiana"

Le vicende del Partito comunista italiano e del suo gruppo dirigente non possono essere analizzate in modo avulso dal contesto internazionale. Il PCd'I nasce a Livorno come sezione italiana dell'Internazionale Comunista, vero e proprio partito mondiale della rivoluzione, ragion per cui è solo nel quadro dell'evoluzione del Comintern e della sua sezione guida, il Partito comunista russo, che si possono comprendere le convulsioni che scuotono il partito italiano e che porteranno nel giro di pochi anni al tramonto della leadership bordighiana e alla formazione di un nuovo gruppo dirigente attorno alla figura di Gramsci. E' un percorso quello dei rapporti fra il PCd'I e l'Internazionale assolutamente non lineare, segnato fin dalle origini da incomprensioni e sospetti derivanti dalla vecchia polemica sull'astensionismo tra Bordiga e Lenin, aggravati dalla scarsa manovrabilità del gruppo dirigente italiano che pure non perde occasione per dichiararsi interprete fedele del bolscevismo. (38)

Nell'estate del 1921, a pochi mesi dalla scissione di Livorno, l'Internazionale Comunista tiene il suo Terzo Congresso in cui di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria si inizia a riconsiderare la questione dei tempi della rivoluzione in Occidente. La risposta verrà trovata nella tattica del fronte unito, vigorosamente caldeggiata da Trotsky. (39) Lo sconcerto è enorme. Terracini ricorda come i delegati italiani fossero colti di sorpresa dalla relazione introduttiva di Radek.

"Ci sembrò una richiesta assurda, stupefacente. Riunii la delegazione, che presiedevo come membro dell'Esecutivo del Partito, e fummo tutti d'accordo nell'opporre il nostro rifiuto". (40)

Il fatto è che la svolta è vissuta come una sconfessione implicita della scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento che pare giovare solo ai serratiani o a chi, come Tasca, dentro al partito non ha mai accettato la scissione come un fatto definitivo. La risposta di Bordiga e, bisogna dirlo, di larghissima parte del nucleo dirigente italiano, consisterà nelle Tesi di Roma, documento base del Secondo Congresso del PCd'I (Roma marzo 1922). E' la nascita di una "questione italiana" che si protrarrà per l'intero arco degli anni '20 per chiudersi solo nel 1930 con l'espulsione dei "Tre" e la definitiva stalinizzazione del partito.(41)


Alla redazione delle Tesi di Roma partecipa, nonostante l'affiorare di qualche dissenso, l'intero gruppo dirigente. E' Gramsci a darci il quadro chiaro della situazione:

"A Roma abbiamo accettato le tesi di Amadeo perchè esse erano presentate come un'opinione per il Quarto Congresso e non come un indirizzo d'azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione, dato l'ufficio grandissimo che egli aveva avuto nell'organizzazione del partito: non ci pentiamo di ciò, politicamente sarebbe stato impossibile dirigere il partito senza l'attiva partecipazione al lavoro centrale di Amadeo e del suo gruppo. (...) Allora ci ritiravamo e si doveva fare in modo che la ritirata avvenisse ordinatamente, senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento, senza aggiungere mai nuovi fermenti disgregatori a quelli che la disfatta determinava di per sè nel movimento rivoluzionario". (42)

Il contrasto degli "italiani" con il Comintern esplode nel novembre 1922 in occasione del Quarto Congresso, quando nell'ambito della politica di fronte unito accettata per disciplina da Bordiga ma mai messa in pratica, Mosca impone al PC l'apertura di una trattativa con Serrati in vista di una rapida fusione dei due partiti. Con l'eccezione di Tasca, il partito è ancora una volta compattamente schierato con il suo capo.

"L'opposizione di Bordiga alla politica dell'Internazionale - ricorda Terracini - era sostenuta dalla convinzione, pressochè unanime nel nostro partito, che da Mosca si analizzassero le cose in modo distorto. In sintesi, anche noi di 'Ordine nuovo' stentavamo a credere che fosse possibile ricomporre l'unità della sinistra italiana con un'operazione di vertice, trascurando le differenze profonde, non solo tattiche, ma anche strategiche, che c'erano tra noi e i socialisti". (43)

A fatica, dopo estenuanti contatti individuali, Lenin e Trotsky riescono a strappare l'assenso dei delegati italiani. Bordiga, per la prima volta messo in minoranza, minaccia le dimissioni e chiede un congresso straordinario del partito con un linguaggio pesante ai limiti del ricatto che allarma i russi ormai convinti della necessità di un cambiamento nella direzione del PCd'I. Durante le sedute del Congresso Gramsci viene avvicinato da Rakosi che gli propone "di diventare il capo del partito eliminando Amadeo, che sarebbe stato addirittura escluso dal Comintern se continuava nella sua linea".

Anche in questa occasione Gramsci rifiuta, ma questa volta più per la paura di non essere all'altezza che per fedeltà a Bordiga. Il fatto è che l'atteggiamento tenuto da Bordiga a Mosca ha rinfocolato le perplessità che Gramsci già nutriva ai tempi del Congresso di Roma sull'efficacia politica dell'intransigenza bordighiana. In particolare lo turba l'idea di una possibile scontro frontale con il Comintern, così come lo allarma il tentativo della destra e di Tasca in particolare di accreditarsi agli occhi dei russi come possibile carta di ricambio da utilizzarsi in caso di rottura definitiva con Bordiga.

    Amadeo Bordiga

"Io dissi - afferma Gramsci - che avrei fatto il possibile per aiutare l'Esecutivo dell'Internazionale a risolvere la questione italiana, ma non credevo che si potesse in nessun modo (tanto meno con la mia persona) sostituire Amadeo senza un preventivo lavoro di orientamento del Partito. Per sostituire Amadeo nella situazione italiana bisognava, inoltre, avere più di un elemento perchè Amadeo, effettivamente, come capacità generale di lavoro, vale almeno tre". (44)

L'occasione per mettere in pratica il cambiamento auspicato la fornisce la polizia fascista che arresta Bordiga al suo rientro in Italia. Questa volta Gramsci non può più "anguilleggiare" ed è costretto a prendere una posizione chiara in un momento che vede il partito in grave difficoltà.

"Essendo stato arrestato l'esecutivo nelle persone di Amadeo e di Ruggero - scrive Gramsci - si attese invano per circa un mese e mezzo di avere delle informazioni che stabilissero con esattezza come i fatti si erano svolti (...) Invece dopo una prima lettera scritta immediatamente dopo gli arresti e nella quale si diceva che tutto era stato distrutto e che la centrale del partito doveva essere ricostruita ab imis, non si ricevette più nessuna informazione concreta, ma solo delle lettere polemiche sulla questione della fusione (...) La questione fu posta brutalmente di ciò che valesse il centro del partito italiano. Le lettere ricevute furono criticate aspramente e si domandò a me che cosa intendessi suggerire....Anch'io ero rimasto sotto l'impressione disastrosa delle lettere... E perciò arrivai fino a dire che se si riteneva che veramente la situazione fosse tale come obbiettivamente appariva dal materiale a disposizione, sarebbe stato meglio farla finita una buona volta e riorganizzare il partito dall'estero con elementi nuovi scelti d'autorità dall'Internazionale". (45)

Bordiga, in carcere, viene escluso dal nuovo Esecutivo, ma questo atto d'imperio non è sufficiente a mutare la linea del PCd'I che almeno per tutto il 1923 resta sostanzialmente bordighiano, anche per le esitazioni di Gramsci ancora fiducioso nella possibilità di recuperare Bordiga alla politica dell'Internazionale. Pesa, inoltre, il timore che una aperta rottura del gruppo dirigente uscito dal Congresso di Livorno non possa che agevolare il tentativo della destra di Tasca di candidarsi alla direzione del partito. E' una situazione di stallo che inizia a chiarirsi alla fine del 1923, quando Bordiga fa uscire dal carcere un manifesto in cui senza mezze parole afferma che la crisi di direzione del partito non ha origine da dissensi interni, ma dalle divergenze tra il partito italiano e l'Internazionale Comunista. Divergenze causate dall'abbandono non solo delle linee tattiche, ma anche del programma e delle norme organizzative su cui l'Internazionale era nata.

Le conclusioni di Bordiga sono drastiche, in piena coerenza con le caratteristiche del personaggio: la sinistra italiana non può gestire una politica che non solo non condivide, ma che considera potenzialmente pericolosa. Disciplinatamente si accettano le decisioni di Mosca, ma si declina ogni responsabilità diretta nella guida del partito. (46)

Incalzato da Bordiga, il partito sbanda. Terracini, Scoccimarro e lo stesso Togliatti paiono, pur con mille esitazioni, disposti a firmare il manifesto. Solo Gramsci si dichiara nettamente contrario all'iniziativa, ben sapendo per i colloqui avuti durante il soggiorno a Mosca che questa strada non può che portare fuori dall'Internazionale. Un'ipotesi che lo spaventa e lo spinge decisamente dalla parte dei russi.

    Umberto Terracini

"In verità - scrive a Scoccimarro - dopo la pubblicazione del manifesto la maggioranza potrebbe essere squalificata del tutto e anche esclusa dal Comintern. Se la situazione politica dell'Italia non si opponesse a ciò io ritengo che l'esclusione avverrebbe. Alla stregua della concezione di partito che deriva dal manifesto l'esclusione dovrebbe essere tassativa. Se una nostra federazione facesse solo la metà di ciò che la maggioranza del partito vuol fare verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe immediato. non voglio, firmando il manifesto, apparire un completo pagliaccio (...) Non si può assolutamente fare dei compromessi con Amadeo. Egli è una personalità troppo vigorosa ed ha una così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di irretirlo con un compromesso è assurdo. Egli continuerà a lottare e ad ogni occasione presenterà sempre intatte le sue tesi". (47)

Sono concetti che ritornano spesso nella corrispondenza che Gramsci ha in questo periodo con i compagni del vecchio gruppo dell'Ordine Nuovo, quasi che egli debba convincere prima di tutto se stesso della necessità di rompere definitivamente quel sodalizio forse più umano che politico stretto nell'ormai lontano 1920 con Bordiga.

"Anch'io penso che il partito non possa fare a meno della sua collaborazione ma che fare ? - ribadisce a marzo - Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga invece proprio a prospettarci il problema di costruire il partito e il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza. Naturalmente la quistione non è chiusa: questo è il mio avviso, per ora". (48)

La necessità di rompere in maniera netta con Bordiga costringe Gramsci a operare un ripensamento complessivo della politica fino a quel momento seguita dal partito e porsi il problema della formazione di un nuovo gruppo dirigente. All'inizio del '24 Gramsci ritiene ormai disgregato il vecchio gruppo dell'Ordine nuovo e improponibile una semplice riedizione del suo programma. Questi concetti sono affermati con grande chiarezza in una lettera a Francesco Leonetti, l'unico schieratosi fin dall'inizio decisamente al suo fianco. Scrive Gramsci:

"Non condivido il tuo punto di vista che si debba rivalorizzare il nostro gruppo di Torino formatosi intorno all' 'Ordine nuovo' (...) D'altronde esiste ancora il nostro gruppo ? (...) Tasca appartiene alla minoranza avendo condotto fino alle estreme conseguenze la posizione assunta fin dal gennaio 1920 e culminata nella polemica fra me e lui. Togliatti non sa decidersi com'era un pò sempre nelle sue abitudini; la personalità 'vigorosa' di Amadeo lo ha fortemente colpito e lo trattiene a mezza via in una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli puramente giuridici. Umberto credo sia fondamentalmente anche più estremista di Amadeo, perché ne ha assorbito la concezione, ma non ne possiede la forza intellettuale, il senso pratico e la capacità organizzativa. In che dunque potrebbe rivivere il nostro gruppo? Sembrerebbe nient'altro che una cricca raccoltasi intorno alla mia persona per ragioni burocratiche. Le stesse idee fondamentali che hanno caratterizzato l'attività dell'"Ordine nuovo" sono oggi o sarebbero anacronistiche (...) Oggi le prospettive sono diverse e bisogna accuratamente evitare di insistere troppo sul fatto della tradizione torinese e del gruppo torinese. Si finirebbe in polemiche di carattere personalistico per contendersi il maggiorasco di un'eredità di ricordi e di parole".(49)

Il Partito deve trovare le sue ragioni d'essere non nel passato per quanto glorioso questo sia stato, ma nell'applicazione senza riserve della linea politica dell'Internazionale. Un Gramsci, dunque, convinto stalinista, come scrive Ragionieri, per il quale la politica del socialismo in un paese solo era perfetta per una fase appunto di 'guerra di posizione'? Oppure, come sostenuto dai tardi epigoni del bordighismo, un Gramsci opportunista che salta sul carro dei vincitori e si fa carico senza soverchi scrupoli della stalinizzazione del PC? (50) La realtà è ben diversa.

Educato proprio da Bordiga a fare della disciplina e della fedeltà al Comintern il cardine della propria azione politica, diventato alla scuola di Livorno un vero bolscevico, Gramsci non se la sente ora di rimettere tutto in gioco per porsi dal punto di vista di una "minoranza internazionale" dalle prospettive incerte. Bordiga, granitico nelle sue certezze, può anche correre il rischio di restare solo, convinto com'è che sul lungo periodo i fatti non potranno che dargli ragione. Gramsci, che considera il concreto agire politico (la prassi) come inveramento del marxismo, non può accettare di autoescludersi dall'azione politica, di restare tagliato fuori dall'avanguardia di classe, dalla classe operaia nel suo vivere e agire quotidiano. E' una decisione lacerante che Gramsci vivrà imponendosi, lui apparentemente sempre così fragile e indeciso, una linea di condotta ispirata al più rigido senso del partito e della necessità storica. (51)

    Palmiro Togliatti

Note

(38) Nel 1924 Gramsci rivela che già nei primi mesi del 1921 uno dei rappresentanti del Comintern presso il partito italiano aveva fatto pressioni su di lui perchè prendesse il posto di Bordiga in quanto "la tendenza di Amadeo aveva preso il sopravvento, ciò che era contro lo spirito delle decisioni del Comintern che voleva dare al gruppo di Torino la prevalenza nel PCI". (Cfr. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., p. 228). Quanto a Bordiga, egli rivendicherà sempre il merito alla sinistra italiana di essere stata, anche contro lo stesso Lenin, la più coerente interprete del leninismo (Cfr. a questo proposito i due scritti del 1924 e del 1960 raccolti in La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin, Milano 1964).
(39) I principali interventi di Trotsky al Terzo Congresso dell'Internazionale Comunista sono disponibili in italiano in L. Trotsky, Problemi della rivoluzione in Europa, a cura di L. Maitan, Milano 1979, pp.122- 219.
(40) U. Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 55.
(41) Cfr. per una sintetica ricostruzione dell'intero percorso G. De Regis, La "svolta" del Comintern e il comunismo italiano, Roma 1978.
(42) Cfr. la Lettera di Gramsci a Togliatti, Scoccimarro e altri del 5 aprile 1924; ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp. 272-273.
(43) U. Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 71.
(44) Cfr. le lettere di Gramsci a Scoccimarro e Togliatti del 1 marzo 1924 e a Togliatti del 27 marzo 1924, ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., rispettivamente pp 218-230 e 252-258. Gramsci motiva la sua scelta di prendere tempo soprattutto per la "preoccupazione di ciò che avrebbe fatto Amadeo se io fossi diventato oppositore: egli si sarebbe ritirato, avrebbe determinato una crisi, egli non si sarebbe mai adattato a venire a un compromesso....Se io avessi fatto l'opposizione l'Internazionale mi avrebbe appoggiato, ma con quali risultati, allora, quando il partito si organizzava a stento, nella guerra civile" (Ibidem, pp. 254-255).
(45) Cfr. la lettera di Gramsci a Togliatti del 27 gennaio 1924, ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp 174-175.
(46) Il "Manifesto" di Bordiga, pubblicato per la prima volta da Stefano Merli nel 1964 sulla Rivista storica del socialismo, è oggi riprodotto integralmente in Il partito decapitato, Milano 1988, pp. 54- 60.
(47) Cfr. la lettera a Scoccimarro del 5 gennaio 1924, ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp. 148-154.
(48) Cfr. la lettera a Togliatti del 27 marzo 1924, ivi, p. 255. Togliatti, con il suo inconfondibile stile gesuitico, commenterà che in quella situazione occorreva "liberare i compagni italiani da un prestigio di cui era (...) necessario che si liberassero" (ivi, p. 337). La via della distruzione sistematica del mito di Bordiga, fondatore e capo del Partito di Livorno, era ì tracciata e il PCI la percorrerà interamente, anche se va detto che Gramsci non accettò mai, neppure nei momenti in cui la polemica si fece più intensa, di scendere ai livelli di abiezione raggiunti da Togliatti e da altri ex-bordighiani nella polemica con la minoranza di sinistra.
(49) Cfr. la lettera a Leonetti del 28 gennaio 1924, ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp. 182-184.
(50) E.Ragionieri, Gramsci e il dibattito teorico nel movimento operaio internazionale, in AA.VV., Gramsci e la cultura contemporanea, vol. I, Roma 1969, p. 133. Per gli attacchi di parte bordighista a Gramsci cfr. La liquidazione della sinistra del PCd'It. (1925), Milano 1991, pp. 33-34.
(51) Fortichiari, che lo incontra a Vienna nella primavera del 1924, nota sorpreso questa evoluzione: "Malgrado le sue particolari vedute personali Gramsci diede sempre più importanza al partito; alla possibilità che il partito svolgesse un certo lavoro, alla necessità che il partito fosse forte (...) Gramsci si dedica talmente a questa funzione nel partito che in fondo rinnega se stesso, perchè non è più l'uomo che vuole i consigli di fabbrica come soviet, ora lui vuole un partito capace di imporsi, forte, monolitico; tutto il resto è secondario" (Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit. p. 162).


4. Continua