TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 26 marzo 2018

Cinema e Resistenza. 1968-1977 Gli anni dei pugni in tasca


    Asger Jorn, Manifesto del Maggio

1968: la contestazione (come viene chiamata allora la rivolta giovanile che scuote le metropoli) rimette in causa anche il mito della Resistenza.


Giorgio Amico

La grande contestazione del '68 e dei primi anni '70.

Preparata dai fermenti degli anni '60 nel 1968 inizia la stagione della protesta, esplodono le contraddizioni e le tensioni che si sono via via accumulate negli anni del boom e poi del riformismo mancato del centrosinistra. Il 1968-69 sono gli anni della grande contestazione, prima studentesca e poi operaia, della rimessa in discussione di tutti i valori (reali e presunti) su cui si è retto un ventennio. Tutto è rimesso in discussione. La rivolta è politica e sindacale, ma soprattutto generazionale. E' il mondo dei padri che viene radicalmente rifiutato con una forza mai vista prima.

Prima che una rivoluzione, il '68 è un rito collettivo con cui simbolicamente ci si vuole lavare dalle colpe dei padri. Una rivolta, non priva di riflessi edipici, che trova la sua prima rappresentazione in “I pugni in tasca” (1965), film di esordio di un giovanissimo Bertolucci. Film che fa scandalo per l'aggressività dei toni e la ferocia con cui si disseziona il quadro fino ad allora rassicurante della famiglia cattolica, borghese, benpensante. 


Anche la Resistenza è radicalmente ripensata. Torna il mito della Resistenza tradita, della rivoluzione mancata nel 1945 per la viltà opportunistica di un partito comunista che non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo, costi quello che costi. E fino in fondo vogliono andare i giovani, insofferenti ad ogni mediazione, ad ogni riforma parziale. “Siate realisti, chiedete l'impossibile” recita uno slogan del Maggio francese. “Corri, compagno, il vecchio mondo è dietro di te” incita un altro. Il mondo si è messo davvero a correre e non solo in Italia. In Vietnam la superpotenza USA non riesce a piegare la resistenza di un piccolo popolo di contadini, l'America Latina è nel segno del Che un solo focolaio guerrigliero, a Praga e a Varsavia i giovani si rivoltano contro il dispotismo sovietico, il Potere nero scuote le metropoli americane. Tutto sembra possibile, non è più il tempo delle mediazioni. E' l'ora del fucile proclama una canzone del 1971.


Gli anni di piombo sono dietro l'anno, ma i giovani ancora non lo sanno. Inizieranno a comprenderlo nel dicembre '69 con i morti di Piazza Fontana. E' il momento della perdita dell'innocenza, l'inizio delle deriva che porterà in breve alla lotta armata. Anche al cinema l'antifascismo diventa militante e più che narrare la Resistenza parla del presente. Non a caso il decennio si apre con “Corbari” di Valentino Orsini, dove i partigiani sembrano guardie rosse della Rivoluzione culturale cinese (manca solo il libretto rosso di Mao) e i padroni delle fabbriche (naturalmente fascisti) vengono sequestrati, sottoposti a un processo popolare e appesi per i piedi. Ma non è solo trionfo della retorica “rivoluzionaria”, è anche il momento del ripensamento critico. 


Gli anni Settanta portano con sé, lo abbiamo visto, la morte dei padri, la fine delle certezze, la crisi delle narrazioni ufficiali dell’antifascismo. L'Italia presente, gattopardesca, conformista e ipocrita, proietta una luce ambigua anche sulla Resistenza. “La strategia del ragno” (1970) di Bernardo Bertolucci è l'espressione più intensa di questo stato d'animo. Ispirato al tema del traditore e dell’eroe di Jorge Luis Borges, il film è interamente girato nel segno dell’ambiguità, della linea sottile che separa realtà e finzione. Bertolucci racconta la storia di Athos Magnani, figlio di un eroe antifascista il quale, tornato trent’anni dopo nella bassa padana, scopre che la verità è un'altra, che il mito paterno non ha fondamento eppure ha un senso e uno scopo. E decide di tacere.


Gli anni '70 sono anche gli anni della rivolta femminista, della riscoperta di uno specifico femminile sempre negato. A suo modo anche il cinema della Resistenza ne tiene conto. “L'agnese va a morire” di Giuliano Montaldo (1976) rompe finalmente il silenzio del cinema sul ruolo avuto dalle donne nella Resistenza. Tratto dal libro di Renata Viganò edito nel 1949, il film (che è anche un commosso omaggio al Rossellini di Paisà) si mantiene fedele al romanzo nel disegnare la figura di una contadina analfabeta che sceglie di stare con i partigiani non per scelta ideologica o politica, ma perché contro le “cose ingiuste” e che nella lotta trova finalmente per portare allo scoperto una identità sua propria, femminile, che gli uomini, a partire dal marito comunista, non le hanno mai davvero riconosciuta.


(Giorgio Amico, Da "Roma città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza nella filmografia italiana 5)