Gli anni '60 rappresentano il periodo di massimo splendore del cinema italiano. Roma diventa una delle grandi capitali del cinema, capace di rivaleggiare ad armi pari con Hollywood grazie alle opere di registi come Antonioni, Visconti, Fellini.
Il risveglio del
cinema italiano negli anni ’60.
“Gli sbandati” è un
film di poco successo, ma che precorre i tempi e farà scuola nel
decennio successivo in un'Italia profondamente trasformata dal boom
economico e da una gigantesca migrazione al Nord che svuota le
campagne meridionali e riempie le fabbriche del triangolo
industriale. Una classe operaia nuova e una gioventù nuova, quelle
delle “magliette a strisce” che nel luglio '60 riscopre
l'antifascismo e scende in piazza contro l'apertura della DC ai
fascisti e la nascita del governo Tambroni. Sono i giorni di Genova e
poi di Reggio Emilia che aprono un decennio segnato da profondi
cambiamenti e che sfocerà poi nel '68.
Sono gli anni del
centro-sinistra, del ritorno delle lotte operaie dopo anni di paura e
di repressione. Nel luglio '60 si apre una stagione nuova, quella
delle riforme (nazionalizzazione dell'energia elettrica, scuola media
unica) destinata a interrompersi presto per la reazione delle forze
più conservatrici che minacciano il golpe (1964). Ma nonostante
tutto non si torna indietro. Il vento del cambiamento pare
inarrestabile. Dopo la stagnazione degli anni '50 l'Italia appare un
paese interessato da un profondo cambiamento. In dieci anni, dal 1954
al 1964, il reddito nazionale raddoppia. Aumenta la ricchezza, anche
se permangono e in alcuni casi si aggravano, sacche di miseria e aree
profondamente depresse.
La questione meridionale resta irrisolta, ma
resa meno esplosiva dall'emigrazione. Si spopolano le campagne e per
la prima volta le città raccolgono la maggioranza della popolazione.
Iniziano le prime forme di consumismo. E' l'Italia delle Seicento,
dei primi frigoriferi, di Carosello. Sono gli anni del boom edilizio,
alla periferia delle città sorgono nuovi quartieri. Sono palazzoni
grigi, spesso tirati su in fretta e furia, ma dotati di ascensore,
bagno, riscaldamento centrale. Una rivoluzione per un'Italia
contadina abituata ad una vita spartana, non molto diversa da quella
dei padri e dei nonni. Ora invece, cambia tutto. L'Italia è un paese
inquieto in cui si riaprono spazi per l'impegno culturale e civile
impensabili nel decennio precedente.
Il cinema inizia a raccontare
questa Italia frenetica e contraddittoria con film di una forza
straordinaria: Luchino Visconti con Rocco e i suoi fratelli (1960);
Federico Fellini con “La dolce vita” (1960); Dino Risi con “Una
vita difficile” (1961), “Il sorpasso”, (1962) e “I mostri”,
(1963); Francesco Rosi con “Le mani sulla città” (1963); Elio
Petri con “Il maestro di Vigevano” (1963); Vittorio de Sica con
“Il boom” (1965); Antonio Pietrangeli con “Io la conoscevo
bene” (1965). La stagione straordinaria della commedia all'italiana
caratterizza il decennio di massimo splendore del cinema italiano.
Roma con gli studi di Cinecittà diventa una delle grandi capitali
del cinema, capace di rivaleggiare ad armi pari con Hollywood grazie
alle opere di registi come Antonioni, Visconti, Fellini.
Il cambiamento è
generale. La televisione entra nelle case degli italiani soppiantando
la radio e scalzando progressivamente il cinema da prima forma di
intrattenimento. Le attenzioni dei censori si spostano sul nuovo
mezzo di comunicazione, che soppianta il cinema come strumento di
condizionamento dell'opinione pubblica. Quella italiana è e resterà
fino agli anni '80 una tv di Stato rigidamente controllata dal potere
politico. Un cambiamento di clima politico, a cui non è estranea a
livello internazionale l'inizio del processo di distensione fra i due
blocchi (la cosidetta “coesistenza pacifica” secondo la formula
del leader sovietico Nikita Kruscev) e su di un altro piano la svolta
storica della Chiesa con il pontificato di Giovanni XXIII e l'avvio
del Concilio Vaticano Secondo. Insomma, si inizia a respirare
un'aria nuova.
In questo clima più disteso la Resistenza ritorna
prepotentemente sugli schermi con una serie nutrita di grandi film
preceduti nel 1959 da “Il generale Della Rovere” di Rossellini,
vincitore del Leone d'oro alla Mostra di Venezia. E' una vera e
propria grandinata di titoli, ci limitiamo ai più noti. Nel 1960
escono “Tutti a casa” di Luigi Comencini, “La lunga notte del
'43” di Florestano Vancini, “Era notte a Roma di Roberto
Rossellini, “Il gobbo” di Carlo Lizzani. Nel 1961 è la volta di
“Un giorno da leoni” di Nanni Loy, “Una vita difficile” di
Dino Risi, “ Tiro al piccione” di Giuliano Montaldo. Ondata che
continua nel 1962 con “Le quattro giornate di Napoli” ancora di
Nanni Loy e l'anno successivo con “Il terrorista” di Gianfranco
De Bosio.
Rispetto alla prima stagione neorealista il cinema ora
guarda alla Resistenza con occhi meno innocenti, abbandonandone la
visione mitica incentrata, come si visto sull'unità antifascista
delle grandi masse popolari comuniste e cattoliche. E' una
descrizione in chiaroscuro, che progressivamente fa emergere le
contraddizioni, le ambiguità, il rimosso di un fenomeno che si
rivela estremamente complesso e sfaccettato. Si inizia a parlare dei
repubblichini (“La lunga notte del '43”, “Tiro al piccione”),
dei contrasti politici fra i partiti del CLN (“Il terrorista”),
della guerra di Liberazione come guerra civile che distrugge legami
famigliari e di amicizia (“Un giorno da leoni”), della
sostanziale continuità di molti aspetti del fascismo anche
nell'Italia repubblicana (“Una vita difficile”.
La Resistenza, da oggetto
di celebrazione diventa campo di indagine. Una ricerca che coinvolge
anche gli anni del regime, tanto che saranno almeno una quarantina i
film dedicati al ventennio.Siamo di fronte ad un cinema disincantato.
“Buona parte dei film degli anni sessanta – annota un critico - è
percorsa dal tema della disillusione, delle speranze e dei sogni
presto dissolti dopo la Liberazione, il senso del fallimento per un
Paese che non si era rinnovato nelle istituzioni e ancora lontano
dall’essere una democrazia compiuta, per un’Italia che avrebbe
potuto essere e non è stata. A percorrere questi film non è ancora
il rimpianto del mito della “rivoluzione mancata” o della
“Resistenza tradita” che diverrà assillante negli anni settanta,
ma sono la visione etica e morale della lotta di Liberazione e
l’incolmabile distanza, dopo quasi vent’anni, tra quanto
enunciato dalla Costituzione e quanto realizzato”.
Due film spiccano fra
tutti. “Una vita difficile” di Dino Risi del 1961, che racconta
l'impossibile reinserimento nella vita civile di un ex partigiano che
non vuole rinunciare ai propri ideali e ai propri sogni e paga per
questo un prezzo durissimo. Un film amaro con un grande Alberto Sordi
che offre in questa occasione forse la migliore prestazione della sua
carriera.
E poi “La lunga notte del '43”, tratto da un racconto
di Bassani che ricostruisce la strage di un gruppo di antifascisti.
E' il primo film in cui i fascisti sono protagonisti assoluti e
manifestano un odio feroce verso l'Italia che li ha traditi, una
voglia assoluta di morte tesa a cogliere anche il minimo pretesto per
scatenarsi in tutta la sua ferocia. Qui il disincanto diventa quasi
disperazione. Nella sequenza finale, ambientata negli anni '60 uno
dei protagonisti stringe la mano di uno degli assassini del '43 e non
perché vi sia stata riconciliazione o perdono, ma per quieto vivere
e indifferenza. Vent'anni dopo l'Italia ha già dimenticato,
carnefici e vittime sono diventati uguali. Il sogno di un'Italia
diversa pare definitivamente tramontato.
(Giorgio Amico, Da "Roma
città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza
nella filmografia italiana 4)