TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 21 marzo 2018

Resistenza e Cinema




Nell'ambito del corso di aggiornamento per docenti a cura dell'ANPI di Savona La Resistenza nelle scuole. Fonti e metodi 2

22 marzo 2018
ore 16.00
presso l'ISS Patetta
Via XXV Aprile – Cairo M.

La Resistenza nella filmografia italiana
a cura di Giorgio Amico


L'incontro è aperto al pubblico

Anticipiamo la prima parte della relazione.



Giorgio Amico

Resistenza e Cinema


Non sono molti i lavori che il cinema italiano ha dedicato alla Resistenza. Una sessantina di film in tutto, ma sufficienti a disegnare una sorta di percorso di come l'Italia repubblicana si è posta di fronte alla guerra di Liberazione.

Un percorso complesso e contradditorio, segnato dall'alternarsi degli stati d'animo collettivi e del clima politico, riassumibile in alcune grandi stagioni che segnano la storia del cinema italiano e al contempo quella del dopoguerra dalla Liberazione alla attuale “Seconda Repubblica”. Un po' schematicamente si può parlare di sei periodi:

1. Il primo dopoguerra e il cinema neorealista (1945-1951)
2. Gli anni grigi della censura (1951- 1960)
3. Il risveglio del cinema italiano negli anni ’60
4. La grande contestazione del '68 e dei primi anni '70
5. Il riflusso degli anni '80 e il declino del cinema impegnato
6. Il nuovo millennio

Pur nel mutare delle situazioni e delle sensibilità, cambiamento che come vedremo presentò anche in alcuni casi aspetti traumatici, si possono tuttavia notare nella rappresentazione cinematografica del tragico periodo 1943-1945 alcune caratteristiche di fondo che restano inalterate nel tempo.

La prima è il carattere unidimensionale degli eventi presentati. Quella narrata dal cinema è più la storia della guerra di liberazione che della Resistenza nella sua integralità. Anche per motivi spettacolari l'attenzione è rivolta quasi esclusivamente al racconto di episodi o storie della lotta armata. Poco trattata è quella che è stata definita da alcuni storici la “Resistenza passiva”, il rifiuto quotidiano dell'occupazione nazista, il sostegno ai partigiani fatto di piccoli gesti, l'abbraccio protettivo di territori interi come le Langhe, l'Apennino ligure e quello tosco-emiliano, senza il quale la stessa lotta armata non avrebbe avuto alcuna possibilità di sopravvivenza e di riuscita.

Lo evidenzia Beppe Fenoglio in una pagina bellissima dei suoi Appunti partigiani: battere i tedeschi e i fascisti, scrive, “non fu abilità nostra. Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa”. Una realtà ovviamente presente nella filmografia resistenziale, ma mai da protagonista, sempre come sfondo (qualche volta anche sfuocato), tranne che per “Il partigiano Johnny”, film del 2000, straordinariamente atipico e bello proprio in quanto prima di tutto robustissimo film di paesaggio.


Altrettanto assente è la Resistenza dei soldati italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre e utilizzati come manodopera forzata nelle industrie e nelle miniere tedesche. Un popolo di schiavi, decimato dalla fame e dalle malattie, la cui condizione era di poco migliore di quella degli ebrei e che nonostante questo rifiutò l'adesione alla Repubblica Sociale e il ritorno in Italia. Una realtà trascurata anche dalla storiografia tanto che il libro “L'altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania” di Alessandro Natta (pubblicato con poca fortuna nel 1954) restò per lungo tempo la sola opera in materia. Una storia dimenticata anche dal cinema, l'unico riferimento rintracciabile è un brano di un film comico interpretato da Totò, Siamo uomini o caporali di Camillo Mastrocinque del 1955, in cui viene rappresentata (anche se in maniera semifarsesca) la condizione dei soldati italiani internati nei lager. In entrambi i casi comunque una Resistenza “militare”, una questione prevalentemente maschile con le donne, messe sullo sfondo come la rivolta silenziosa delle madri ne “Le quattro giornate di Napoli” di Nanni Loy o protagoniste di singoli episodi come la Anna Magnani “Pina” (non a caso premiata come migliore attrice non protagonista) nella sequenza più famosa di “Roma città aperta”.


All'interno di questa caratterizzazione prevalentemente maschile tipica (a partire da quello americano) del cinema “di guerra”, genere in cui (con qualche forzatura) si può far rientrare anche il filone resistenziale, si inseriscono poi autocensure e vere proprie rimozioni al fine di salvaguardare il mito degli “italiani brava gente” e una visione meramente patriottica della guerra di Liberazione. Quasi sempre i cattivi sono i soldati tedeschi, rappresentati come simbolo impersonale di una ottusa e bestiale ferocia. Poco si parla dei repubblichini, fascisti si, ma pur sempre italiani. Poco si parla, soprattutto, delle differenziazioni politiche fra le formazioni partigiane, del carattere di classe della Resistenza nelle fabbriche, della lotta nelle città. Una pagina scomoda, quella della guerra dei GAP, fatta di attentati e di esecuzioni di spie e di repubblichini, che poco aveva di spettacolare e molto di politico. Un terreno scivoloso per molti motivi (a partire dalla natura terroristica delle azioni), una materia difficile da trattare, non a caso ripresa (con qualche ambiguità), proprio negli anni bui del terrorismo. Pochissimo trattato, infine, il tema della guerra civile, vero e proprio tabù a sinistra almeno fino agli anni '90 quando Claudio Pavone pubblicherà il suo “Una guerra civile”, opera fondamentale per comprendere la complessità della Resistenza, al contempo guerra patriottica, guerra civile, guerra di classe.


Quello che di certo non c'è nei film sulla Resistenza italiana è il trionfalismo. E' sempre con un certo pudore che il cinema si è accostato alla vittoria finale dei partigiani. Solo in “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani una lunga sequenza è dedicata all'insurrezione vittoriosa rappresentata come uno sventolio di bandiere rosse issate sulle ciminiere delle fabbriche da operai in armi. Per il resto silenzio. La Liberazione è spesso evocata, mai descritta. Esemplare resta il finale di Paisà: un cielo livido sovrasta il Po che ha appena inghiottito i corpi di un gruppo di partigiani fucilati dai nazisti. Uno scenario spettrale su cui appare la scritta “Due mesi dopo la guerra era finita”. Tutto è silenzio, solo il sibilare del vento che fa ondeggiare le canne delle paludi. Qualcuno ha parlato di “rimozione”, ma non di questo si tratta. Per il cinema italiano, da “Roma città aperta” a “Il partigiano Johnny”, il punto nodale non è tanto il 25 aprile, quanto l'8 settembre, quando tutto è cominciato, il momento delle scelte, quello in cui un popolo diseducato da vent'anni di dittatura e disorientato dalla sconfitta inizia faticosamente a risollevarsi e a prendere nelle proprie mani il destino di un paese devastato.