TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 28 ottobre 2018

Verso il '68. Gli anni '60: stagnazione o neocapitalismo?




Negli anni Sessanta l'Italia cambia volto. Il boom economico di fine anni '50 provoca profondi cambiamenti nella società che la sinistra fa fatica ad interpretare. Iniziano ad emergere temi e approcci che avranno poi pieno sviluppo nel '68. Centrale in questa fase è l'azione di Raniero Panzieri.

Giorgio Amico

Stagnazione o neocapitalismo?

Dopo il 1956 la crisi dello stalinismo coincide in Italia con uno sviluppo economico accelerato e con una profonda trasformazione degli assetti e degli usi sociali che rende ineludibile a sinistra il compito di trovare strumenti e metodologie nuove di analisi e di intervento. Il primo a porre con forza questa esigenza di rinnovamento è Raniero Panzieri, già esponente di punta della sinistra socialista e direttore della rivista teorica del PSI. In maniera del tutto inedita egli punta sull'adozione di nuovi strumenti di analisi, incentrati sull'incontro fra sociologia (una disciplina guardata fino ad allora con sospetto da una sinistra che la considerava troppo “americana”) e politica, ma soprattutto su un intervento “dal basso” sulle fabbriche capace di trasformare il movimento operaio e le sue avanguardie da oggetto passivo di indagine a protagonista dinamico della ricerca stessa.

    Panzieri ai cancelli di Mirafiori

Centrale è la critica di Panzieri alle tesi del PCI che, nonostante i mutamenti in atto, continuano a descrivere l'Italia come un paese sostanzialmente arretrato, condannato alla stagnazione economica dall'alleanza reazionaria fra blocco industriale-finanziario del Nord e agrari del Sud. Tesi elaborate negli anni Venti e Trenta da Gramsci e riprese poi nel secondo dopoguerra da Palmiro Togliatti che le pone, attenuandone di molto la carica rivoluzionaria, alla base di una strategia riformista di lungo periodo finalizzata al completamento di quella rivoluzione democratico-nazionale che la borghesia italiana non avrebbe saputo e voluto fare prima nel Risorgimento e poi nella costruzione dello Stato unitario.

Confrontandosi con il dinamismo dell'Italia del boom, Panzieri ritiene invece che proprio lo sviluppo intenso della produzione industriale abbia definitivamente fatto saltare il tradizionale equilibrio del blocco industriale-agrario e che ci si trovi ormai di fronte ad una nuova realtà, una sorta di “neocapitalismo” fondato sull'integrazione fra capitalismo di Stato e monopoli privati e incentrato sulla “programmazione” come modello anticiclico, sull'integrazione del proletariato tramite il pieno accesso al consumo e infine sul recupero in funzione anticomunista di parte della sinistra nella gestione del potere. Panzieri parla esplicitamente di “fanfanismo” dal nome dell'esponente politico democristiano che più di ogni altro aveva operato al fine di rendere simbiotico e permanente il rapporto tra il partito cattolico e lo Stato. Argomentazioni riprese dieci anni dopo pressocchè integralmente dalle organizzazioni della Nuova Sinistra, compresa la campagna contro il “Fanfascismo” sviluppata da Lotta continua alla vigilia delle elezioni presidenziali del 1971.


Tutto questo sullo sfondo di profondi mutamenti degli assetti produttivi e sociali del paese: dal 1955 al 1962 l'Italia cambia aspetto, il reddito e i consumi raddoppiano, il Sud si spopola, le campagne vengono abbandonate, le città del Nord si gonfiano a dismisura di una massa di immigrati in cerca di lavoro nelle fabbriche in piena espansione. In pochi anni si conta un milione di operai in più.

É una classe operaia di tipo nuovo, radicalmente diversa da quella che fino ad allora aveva rappresentato l'avanguardia di fabbrica e che non era sostanzialmente cambiata dai tempi de l'Ordine Nuovo. Si riduce sensibilmente, fino quasi a sparire nei principali centri industriali, la figura dell'operaio di mestiere, altamente professionalizzato e geloso delle sue competenze, soppiantato da una massa di giovani lavoratori, ex contadini, per lo più immigrati, sprovvisti di tradizioni sindacali e di una vera formazione professionale, ma accomunati da un lavoro estremamente parcellizzato, semplificato, fondato sulla ripetizione meccanica e standardizzata sempre degli stessi gesti.

É l'operaio-massa che non ha rivendicazioni particolari di categoria o professione da avanzare, ma solo richieste egualitarie (aumenti uguali per tutti, eliminazione dei cottimi, delle gabbie salariali e delle qualifiche) che saranno poi la vera novità rivoluzionaria dell'autunno caldo. Una forza lavoro dequalificata, a basso costo, composta di immigrati dalle campagne che si accalcano nelle periferie fatiscenti dei grandi poli industriali, di cui Danilo Montaldi offrirà nel 1960 nel suo libro Milano, Corea una descrizione ancora oggi insuperata.

(Giorgio Amico, Le culture del Sessantotto, 2)