Gli
anni Sessanta sono segnati da una profonda trasformazione della
condizione giovanile. I giovani si percepiscono come diversi,
portatori di un'alterità radicale rispetto al mondo degli adulti che
si esprime attraverso la musica e il modo di presentarsi. La politica
verrà più tardi. Gli anni Sessanta sono gli anni del rock, dei
capelloni e delle minigonne.
Giorgio
Amico
Non
solo canzonette
Per
la prima volta, adeguandosi anche in questo ai paesi più avanzati,
l'Italia assiste al formarsi di una specifica “questione giovanile”
caratterizzata soprattutto da linguaggi, mode, atteggiamenti
particolari che non tengono in alcun conto le differenze, pure
fortissime, di classe o di istruzione, per privilegiare invece come
centrale il dato dell'età. Nello stupore e nella riprovazione
generale dei benpensanti, compresi quelli di sinistra, i giovani
iniziano a ostentare modi di vita sideralmente lontani da quelli dei
loro genitori. Tra il 1960 e il 1965 la rottura generazionale
diventa totale.
La
musica gioca un ruolo centrale in questo processo. Nasce un modo
nuovo di cantare, quello degli “urlatori”, che rompe con il
tradizionale genere melodico della canzone italiana. Si afferma una
nuova generazione di giovani cantanti, i cui capofila allora quasi
adolescenti, Adriano Celentano, Rita Pavone, Bobby Solo, Gianni
Morandi, Patty Pravo solo per citarne alcuni fra i più famosi, si
rivolgono ai loro coetanei per narrarne sogni, passioni, ma anche una
totale alterità rispetto al mondo degli adulti, i cosiddetti
“matusa”. É
la cosiddetta musica ye
ye che
fa da apripista al rock che irromperà a metà del decennio con i
Beatles e i Rolling Stones. L'effetto sarà quello di una esplosione
atomica che azzera e trasforma totalmente il paesaggio esistente.
E
se, come qualcuno fa subito osservare da sinistra, in fondo si tratta
solo di “canzonette”, di un fenomeno di mercato, favorito dalle
grandi case discografiche, amplificato e diffuso dalla televisione e
dalla radio, tuttavia questo modo nuovo di cantare esprime un
malessere profondo e un'insoddisfazione reale: dopo gli anni del
fascismo, la tragedia della guerra e l'immobilismo bigotto degli anni
Cinquanta la generazione degli anni Sessanta, figlia della
ricostruzione e del boom, si sente diversa da quelle che la hanno
preceduta, portatrice di valori nuovi, di un modo nuovo di intendere
la vita, del tutto alternativo a quello propagandato dalla morale
ufficiale.
“Noi
non siamo una banda di suonatori –
aveva dichiarato Mick Jagger, storico leader degli Stones-
Siamo un modo di
vita”.
E attorno a questo modo nuovo di vivere si raddensa progressivamente
una nuova cultura giovanile, una controcultura. Nel maggio '65 si
tiene a Frascati il primo grande raduno musicale giovanile, nello
stesso tempo nascono i primi complessi beat (circa 5000 solo fra il
1965 e il 1966), alcuni come L'Equipe 84, i Nomadi, i Dik Dik, i
Giganti, i New Trolls, i Pooh, destinati a un grande e duraturo
successo. Sempre tra il 1965 e il 1966 la vendita di chitarre in
Italia aumenta di otto volte toccando livelli mai raggiunti prima.
Da
Londra assieme alle canzoni dei Beatles arriva la moda dei capelli
lunghi e della minigonna, da San Francisco la controcultura hippie
dei figli dei fiori e le prime droghe leggere. La musica beat porta
con sé la letteratura, tra i giovani spopolano poeti come
Ferlinghetti, Corso, Allen Ginzberg di cui i Nomadi (e un quasi
sconosciuto Guccini) mettono in musica la poesia più famosa. Jack
Kerouac diventa un mito per migliaia di giovani che si identificano
nei suoi personaggi di ribelli senza una causa e scoprono filosofie e
religioni orientali o il nomadismo dell'autostop.
Il
fenomeno diventa presto fatto di costume. Sempre di più i giornali
parlano dei “cappelloni”. Anche i media ufficiali sono costretti
a tenerne conto. Nell'ottobre del 1965 la seconda rete radiofonica
manda in onda Bandiera
Gialla,
una trasmissione fortemente innovativa con cui Renzo Arbore e Gianni
Boncompagni si rivolgono direttamente ai giovani rivoluzionando il
modo di fare radio.
Nel
1964 su Vie
Nuove Elio
Vittorini parlerà di una nuova generazione che si forma “in linea
orizzontale” attraverso l’esempio reciproco e il confronto tra
pari delle esperienze collaterali, al contrario delle
generazioni precedenti che si erano fino allora formate secondo linee
verticali, attraverso il confronto con i padri,
con il passato, con le tradizioni. Un dato generazionale che sarà la
caratteristica del '68 studentesco, ma anche in larghissima parte del
'69 operaio.
“Dalla
fabbrica si esce sempre troppo tardi quando si ha vent’anni. Ed
ogni minuto trascorso fuori dalle mura dell’officina sembra essere
un minuto rubato al padrone e conquistato al mestiere di essere
giovani”,
dichiara nel giugno 1964 un giovane operaio al settimanale Vie
nuove,
esprimendo un senso di appartenenza duplice, di classe e
generazionale, tenuto insieme da un più generale malessere e da una
insoddisfazione profonda che diventerà presto aspirazione a un
cambiamento radicale, poi desiderio di rivolta e infine aperta
ribellione.
(Giorgio
Amico, Le culture del Sessantotto, 4)