TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 8 luglio 2019

Il profumo, incanto e sortilegio




Bruciare erbe o essenze odorose è dai primordi dell'umanità aprire un canale di comunicazione con dimensioni altre e superiori. L'uso di profumi (l'incenso ad esempio) come strumento di purificazione, ma anche come segno di trasmutazione della materia. Da qui l'uso, presente in tutte le culture, di sostanza odorose nei riti religiosi, ma anche nell'alchimia, e nell'uso simbolico che ne fa Dante nella Divina Commedia.

Raffaele K. Salinari

Il profumo, incanto e sortilegio


Cosa c’è di più effimero e, al tempo stesso, più penetrante di un profumo? Quando le immagini legate ai ricordi scompaiono e la memoria rincorre vanamente una data, un luogo, un nome, quando tutto nella mente è silenzio, basta il solo il richiamo di un’essenza per rievocare il passato senza forma con la potenza del presente.

La parola profumo deriva dal latino per fumus che si riferisce al suo uso sia nelle cerimonie sacrificali verso la divinità, sia per raggiungere quello stato di estasi, di uscita da se stessi, che consente il ricongiungimento con l’Essere. Se, infatti, la luce è la manifestazione del Divino, il profumo è la quintessenza dello Spirito. Ma, poiché «ciò che è alto è come ciò che è in basso» – secondo quanto sostiene la Tavola Smeraldina di Ermete Trismegisto, il testo alchemico al tempo stesso più poetico e criptico – esso è anche un potente indicatore dell’Opera. E ancora, mentre il profumo, o l’essenza odorosa, sono strumenti per così dire ascensionali, cioè di elevazione verso il divino, il loro contrario, il lezzo, la puzza, i miasmi, evocano invece il mondo infero, quello della discesa verso la pura materialità senza spirito. Ecco che, allora, attraverso gli odori, vediamo emergere collegamenti ermetico-archetipici, ad esempio tra il bel Narciso e l’epicureo Farinata degli Uberti, o tra l’Opera al Nero e quella al Bianco.

La Bibbia

Un esempio fondante di uso sacrificale del profumo ci viene direttamente dallaBibbia: nel Genesi 8-21, infatti, Noè esegue, dopo il Giudizio Universale, l’ordine di Dio di sbarcare e lasciar uscire gli animali salvati «perché possano diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino su di essa». Il patriarca obbedisce ma, per assicurarsi che il Signore non ci ripensi, eleva un altare ed offre in sacrificio animali ed uccelli «mondati da ogni impurezza». E qui il testo biblico ci dice che «il Signore ne odorò la soave fragranza e pensò che non avrebbe maledetto più il suolo a causa dell’uomo»; così, finalmente, dopo questo sacrificio, la vita poté ricominciare. Interessante notare come Dio trovi «soave» la fragranza degli animali uccisi in suo onore e che sia proprio questa sensazione olfattiva a fargli decidere in favore della permanenza della vita sulla terra. Da questa primissima testimonianza biblica, dunque, possiamo già capire il significato essenziale che nell’antichità si attribuiva al ruolo del profumo, dato che senza di esso, forse, Dio avrebbe deciso altrimenti.

Anche la classicità greca annovera molti miti che ci parlano della nascita delle essenze profumate, tutte legate, non a caso, ad una relazione essenziale, è il caso di dirlo, con i quattro elementi fondamentali: aria, acqua, terra, fuoco, cioè con una lettura alchemica e trasmutativa del loro uso. I più emblematici, a questo riguardo, sono certo quelli che descrivono la nascita dell’incenso, della mirra e del fiore di narciso.



Mirra e Incenso

Riguardo al primo, Ovidio, nelle sue Metamorfosi, narra come Il dio Sole fu il primo a sapere dell’adulterio di Venere con Marte e, indignato, lo raccontò a Vulcano, legittimo marito della dea. Questo, per coglierli in flagrante, fabbricò catene di bronzo, reti e lacci così sottili da sfuggire alla vista, poi li dispose intorno al letto e fece in modo che scattassero al minimo tocco. Una volta scoperti gli amanti, Vulcano chiamò tutti gli dei ad assistere alla scena, e questo fu motivo di chiacchiere per eoni nelle sale olimpiche. Qualche divinità, Mercurio in particolare, disse anche chiaramente che avrebbe voluto trovarsi al posto di Marte. Ma la dea decise di umiliare con un amore tragico chi l’aveva umiliata; ora, in quel tempo fuori dal tempo, il Sole era innamorato di Leucòtoe, figlia di Eurinome, la più bella ninfa che esistesse nel paese del re Orcamo. Si narra che una notte il dio entrò nella dimora della ragazza e, dopo aver mandato via le ancelle, le svelò la propria identità, possedendola con la forza. Ovidio ci dice che ella «subì la violenza senza lamentarsi». Qui entra in scena la sorella di Leucòtoe, la ninfa Clizia che, infiammata d’amore per il Sole da parte di Venere, e dunque ingelosita dell’accaduto, racconta tutto al padre che, furibondo, seppellisce viva Leucòtoe in una fossa coprendone il tumulo di macigni. Il sole cerca allora con i suoi raggi di liberare la fanciulla, ma gli sforzi non servono a niente, e così cosparge di nettare profumato la sepoltura; alcuni giorni dopo nasce un virgulto d’incenso che raggiunge il cielo e quindi il dio Sole. Clizia, a cui il Sole non volle mai avvicinarsi, presa dall’angoscia, per nove giorni non toccò cibo né acqua, non si mosse da terra ed il suo corpo iniziò ad aderire al suolo: si trasformò così in un girasole, il fiore che osserva e ammira il sole da lontano.

Qui l’incenso è l’essenza che simboleggia la mediazione tra due corpi essenziali, cioè tra l’elemento fisso e passivo per eccellenza, la terra, e quello massimamente mobile ed attivo, il fuoco, poiché, pur nella loro diversità, essi condividono la secchezza, una delle qualità degli elementi fondamentali insieme all’umidita, al calore ed al freddo. Nella visione alchemico latomistica dei quattro elementi, ognuno ha con un altro una qualità in comune: caratteristica fondamentale perché rappresenta la base della trasmutazione dell’uno nell’altro, e dunque la ciclicità della Vita. Ritroveremo più avanti la pienezza di questa immagine nelle cerimonie indù.

Anche nella storia dei Magi i doni hanno lo stesso valore simbolico archetipico: da una parte ritroviamo l’oro, cioè il Sole, il fuoco creatore, che simboleggia la regalità, l’eternità della Vita, della Zoé nella sua continuità, nell’insopprimibile ciclicità. Alla polarità opposta ecco invece la mirra: simbolo della morte e della rinascita, un’essenza con la quale si conservavano i corpi, di sapore amaro come il transito verso l’oltre tomba.

Anche la sua origine ce la racconta un mito: il brevissimo racconto dello Pseudo-Apollodoro dell’amore incestuoso tra Teia, un re assiro, e la figlia Smyrna, Mirra appunto, punita da Afrodite per la sua scarsa devozione con l’amore verso il genitore. La ragazza riesce con l’inganno a giacere col padre fino a quando egli non la scopre e la insegue per ucciderla. Smyrna fugge e gli dei la trasformano in un albero dalla resina profumata: la mirra appunto. Dopo nove mesi la pianta si apre e dal suo fusto viene alla luce il bellissimo Adone, a sua volta amato da Venere e Persefone, la cui nascita dall’albero-donna rappresenta, allo stesso modo della preziosa gommaresina, un mito di morte e resurrezione: il bel giovane morente, azzannato da un cinghiale, feconda la terra col suo sangue facendo così rinascere la primavera. Le Adonie venivano, infatti, festeggiate nell’antica Grecia in questo periodo.

Ed infine l’incenso, che bilancia gli altre due elementi; simbolo della purificazione, ovvero del percorso di una vita che vuole arrivare alla morte in modo consapevole, chiudendo un ciclo affinché se ne possa aprire un altro. La stessa visione la troviamo alla base di antiche religioni orientali come l’induismo, il buddismo ed il jainismo. Si parla di incenso già nei Veda, gli antichi testi sacri scritti nel 2200 a. C., dove se ne descrive l’impiego come vero e proprio farmaco della medicina ayurvedica. Ma l’uso religioso dell’incenso si manifesta appieno durante il rituale induista, buddista e jainista quando, durante laPuja, cioè la preghiera, viene offerto alla divinità per mostrargli devozione, per allontanare i demoni, oltre che in segno di purificazione interiore: l’incenso, bruciando, simboleggia il fuoco che trasmuta la materia in spirito.

    Eco e Narciso" (1903), di John William Waterhouse.



Narciso

Il mito di Narciso è indicativo della relazione che unisce profumo e ricongiungimento all’Origine. In questa storia troviamo come protagonisti la ninfa Eco e Narciso che, a differenza di come lo presenta Freud descrivendone la celebre nevrosi, non è un essere umano, in quanto figlio di una ninfa marina, Liriope, che significa «dagli occhi sfacciati», quelli che il figlio erediterà per guardare la sua immagine riflessa nella pozza d’acqua, e del dio del fiume Cefisio che l’aveva violentata.

Ora, rileggendo il mito, troviamo che il giovane Narciso si accosta, nel folto di un bosco, ad una pozza di acqua che Ovidio definisce incontaminata, cioè che nessun animale, umano o foglia, avevano mai toccata. Questo è un particolare importante nell’economia del mito, perché significa che siamo in presenza di un’acqua originaria, archetipica, l’acqua stessa della Creazione, la Madre delle acque, come avrebbe detto nelle Grandi Odi Paul Claudel.

Dunque siamo di fronte all’acqua come elemento essenziale, la stessa acqua di cui è composto Narciso che, osservando la sua immagine riflessa, non capisce subito il sentimento che lo accende: in realtà l’acqua dentro di lui vuole unirsi a quella fuori di lui. Il mito, allora, ci narra di un ricongiungimento mancato: “Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente. Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama: volere più distante chi amiamo!”.

La cecità di Narciso è evidente, ma questa è spiegata, in qualche modo, anche dalla sua postura originale, dal suo «sguardo orizzontale». Egli, infatti, incontra la sua immagine quando è steso sull’erba; è in quel momento che se ne invaghisce, non solo perché essa è ambigua, ma anche perché la posizione non gli consente la profondità: la sua, infatti, è una visione superficiale. E qui il mito ci porta verso una nozione iniziatica classica: il rapporto tra piano di esistenza orizzontale e quello verticale: in altre parole le due braccia nel simbolismo della croce. Guénon in questo è molto chiaro: mentre il piano orizzontale è quello sul quale il Principio creatore si riflette per generare uno specifico stato di esistenza – come un raggio verticale su di uno specchio orizzontale – l’essere contingente può, percorrendo l’esistenza in questo senso, arrivare a comprendere solo la parte determinata di se stesso e le sue relazioni con le altre forme condizionate. È il piano dei Piccoli Misteri della tradizione orfica. Il piano verticale è invece quello che bisogna risalire per il ricongiungimento col Principio, per trascendersi, e così tornare all’Origine che è anche la Meta: la realizzazione della Liberazione, i Grandi Misteri. Sintetizzando: se il piano orizzontale è analogico, quello verticale è anagogico.

Ecco allora che solo dopo essersi alzato, innalzato, Narciso coglie l’immagine nella sua reale profondità, capisce che è la sua, che si tratta cioè di acqua che vuole tornare alla sua fonte, ma è troppo tardi: l’illusione lo ha oramai totalmente in suo dominio, ne ha obnubilato la mente. Sarà solo nel morire che la comprensione si emenderà, raggiungerà il suo télos. Qui troviamo una metafora potente della nostra modernità mediatizzata: siamo irretiti da immagini superficiali di noi stessi. Come nel caso di Narciso dovremmo capire che solo raddrizzando lo sguardo torneremo sulla «retta via» dantesca, ritroveremo cioè il senso autentico dell’esistenza, la sua profondità, la sua Origine. Ed infatti il mito di Narciso, che Freud aveva ridotto ad un disturbo del singolo, è diventato oggi la cifra di una società massificata in cui troppi individui sono come distaccati dalla realtà di se stessi: siamo una civiltà narcisistica non tanto perché innamorati della nostra stessa immagine, ma perché la serviamo senza scrupoli, incapaci, per colpa di questa totalizzante soggezione, di vivere un’autentica relazione con quell’Acqua da cui tutti veniamo, ed alla quale tutti aneliamo a tornare.

Ma il mito va letto sino in fondo per trovare questa via. Ecco che allora gli dei pietosi trasformano il bel giovane nel fiore che porta il suo nome: il narciso essenza dell’oblio di se stessi, da cui il termine narcosi. E qui la narcosi è intesa come abbandono della coscienza razionale e lucida, per entrare nella rêverie ad occhi aperti. Per trasmutarsi Narciso entra trasognato nella sua materia per farsi sognareda essa. Certo a questa particolarità dell’immaginazione poetica si riferisce Shakespeare quando, nella Tempesta (atto IV), fa dire al mago Prospero: «Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni».

E allora, nell’ultimo viaggio, Narciso, il reveur della materia acqua, non rincorre solo un impossibile «narcisistico» amore per se stesso, ma un vero desiderio di ricongiungimento col Mondo attraverso l’essenza acquorea della sua natura. Ed in questo ricongiungimento totale e totalizzante la sua solitudine, invero sdoppiata, si ricompone, poiché, nella stessa immagine, convivono sia la madre che la ninfa Eco, riflesso aereo di quello acquoreo. Eco non è una ninfa lontana: vive infatti sul fondo della sorgente. Eco è dunque incessantemente con Narciso. È lui, ha la sua voce ed il suo viso: ciò che è in alto è come ciò che è in basso. Sarà allora trasportandoci in questo stato narcotico che il fiore del narciso ci consentirà di silenziare l’Ego-Eco, cioè quella parte ridondante del nostro essere che, secondo tutte le tradizioni sapienziali, va abbandonata se si vuole raggiungere la conoscenza.



Inferno, Paradiso e Grande Opera

La summa della relazione tra potere discendente ed ascendente degli odori è decisamente laCommedia dantesca. Il primo compare ovviamente nell‘Inferno, il secondo nel Paradiso. Per quanto riguarda quelli legati al mondo infero, nei Canti X e XI, ad esempio, dedicati agli eretici, Dante fa del fetore una componente centrale delle sue terzine. Qui il Poeta utilizza un’analogia tra la sgradevolezza dei miasmi e la gravità delle pene: tanto più aumentano le seconde, tanto più si fa sentire il puzzo che l’abisso infernale esala. È una sorta di legge del contrappasso olfattivo quella che Dante utilizza nella Commedia, una componente aromatica della formula V.I.T.R.I.O.L.: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, cioè visita la tua terra interiore e rettificandoti otterrai la pietra occulta, cioè la verità di te stesso. È questa la ricerca che spinge Dante ad avventurarsi nel suo viaggio, non a caso prima discendente, poi ascendente verso il Motore Immobile, ed è anche una indicazione chiara delle natura esoterica della Commedia.

Anche Fulcanelli nel Mistero delle cattedrali, ci parla dell’odore che individua le fasi dell’Opera: «La Terra è nera, l’Acqua è bianca; l’aria più si avvicina al Sole e più ingiallisce; l’etere è rosso. La morte è nera, la vita è piena di luce… Ora l’odore di un morto non è forse molesto all’odorato? Così l’odore fetido di cui parlano gli Alchimisti indica la fissazione; al contrario l’odore gradevole indica la volatilità, perché essa si avvicina alla vita ed al calore».

La stessa progressione nauseabonda si evidenzia chiaramente nel passaggio dal Canto IX. v. 31, quando dice: “Questa palude che ‘l gran puzzo spira”, al XI. v. 5: “Del puzzo che ‘l profondo abisso gitta”, per arrivare infine, nel XXIX. v. 50 al: “Tal era quivi, e tal puzzo n’usciva” tanto che, una volta cessato il dialogo con Farinata, i due viaggiatori sono costretti a ripararsi dietro il coperchio della tomba di Papa Anastasio II, “Traviato da Fotino fuori della diritta via della vera fede”, cercando così di scappare da un odore che li aggrediva quasi avesse una sua corporeità fisica.

Ma il puzzo che emana da questa tomba è oltremodo insopportabile, tristo fiato lo chiama Dante, perché Anastasio II, pontefice, forse, dal 496 al 498, era considerato da lui un eretico peggiore di Farinata, un semplice nobile e non il successore di Pietro. Se Dante non ha perdonato l’ateismo di Farinata e Cavalcante, come potrebbe perdonare quello di un Papa che del Cristo vedeva solo l’umanità? Era infatti il monofisismo la sua eresia, nel tentativo di ricomporre il primo scisma tra Oriente ed Occidente.

La natura, ed anche il senso, dei profumi, cambia decisamente nel Paradiso, in cui presso la Candida Rosa dei beati, nel Canto XXX, Beatrice conduce Dante verso il Primo Mobile. Sappiamo, perché ce lo fa capire magistralmente Borges nei suoi Nove saggi danteschi, che la Commedia altro non è che un tributo alla bellezza di Beatrice, la donna-angelo di Dante che, in quanto iniziato alla Confraternita dei Fedeli d’Amore, di impronta neoplatonica, vedeva nella donna angelicata il veicolo verso la Divinità:Beatrice, mentre egli taceva pur volendo parlare, lo conduce al centro della Rosa Eterna, che «emana un profumo di lode al sole che fa sempre primavera». Qui il vortice dei beati sembra come «inebriato da li odori»: immagine somma dell’essenza che giunge, finalmente al Divino per fumus.

Il Manifesto/Alias – 6 luglio 2019