TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 25 settembre 2020

Lo chiamavano Cimitero. Un capo partigiano tra Albenga e la Val Tanaro

 












È da poco disponibile il volume di Ferruccio Iebole e Pino Fragalà “Lo chiamavano Cimitero”, che ricostruisce la storia del leggendario comandante partigiano Bruno Schivo (Cimitero), terrore dei tedeschi e dei repubblichini nella vasta zona montuosa compresa fra Albenga e la Val Tanaro. Il volume ricostruisce sulla base di una vastissima documentazione anche fotografica (ben 450 immagini) episodi poco noti della lotta partigiana nell'albenganese e con estrema onestà storica e intellettuale anche le fucilazioni di torturatori, collaborazionisti e spie avvenute dopo il 25 aprile. Un libro da leggere, di cui riportiamo l'efficace introduzione di Giuliano Arnaldi.


Giuliano Arnaldi

Immaginate un ragazzo di vent'anni...

Immaginate un ragazzo di vent’anni, perché Bruno Schivo era questo, un ragazzo di vent’anni quando fece la scelta della vita, diventare Partigiano.

Immaginate una personalità appassionata e appassionante. Appassionata nel modo di agire.. istintivo, diretto, fisico. Abituato a far parlare i fatti, a fare scelte nette e sorprendenti ma non roboanti. Appassionante perché autorevolmente carismatico. Una di quelle persone destinate ad essere la benzina che infiamma la voglia di libertà dei popoli, incarnazione naturale di quella forza inesorabile ed inevitabile che c’e in ogni movimento che sia obbligato ad usare appunto la forza per cambiare una situazione insostenibile.

Immaginate che una persona cosi, con questo carattere, si trovi a vivere un momento storico unico.

Unico perché la storia raramente chiama a vivere un dramma netto, oppressivo, cattivo e banale come fu il fascismo. Ancora più del nazismo, il fascismo oltre alla drammatica ferocia di cui il nazismo era intriso, obbligò gli italiani a subire l’aggravante della mediocrità dell’italietta che tiene famiglia, gira la testa dall’altra parte pur di campare, di una italietta rassicurante rappresentata da un roboante pagliaccio nel quale ci si poteva riconoscere riconoscendone i propri peggiori difetti, a cominciare dalla arrogante mediocrità di chi ostenta la sicumera delle chiacchiere davanti a problemi che non sa risolvere e forse nemmeno capire.

Bruno Schivo, quell’impetuoso ragazzo di vent’anni, scelse d’istinto, come tantissimi suoi coetanei. Chi pensa che la scelta della Montagna fu ideologica sbaglia. Fu ideale, ed è profondamente diverso. L’ideale è intangibile ma non astratto. E’ come l’aria, non la tocchi, non la vedi ma se ti manca muori.

Quel ragazzo, quei ragazzi volevano avere il diritto alla felicità. Cioè amare, lavorare, agire secondo coscienza e non sotto minaccia. E per conquistarsi quel diritto Brun, insieme ad altri ragazzi, prese le armi.

Comprese subito che erano necessarie regole, le condivise, le rispettò e le fece rispettare. Ci credette. Credette ad un altro mondo possibile, mise la sua vita al servizio di quella possibilità. E pago’, subito, un prezzo altissimo, forse il più alto, quello di essere vigliaccamente e ferocemente colpito negli affetti più cari. Certo fu combattente implacabile, ma come non esserlo in quei tempi e in quella situazione? Si ritrovò ad incarnare il ruolo più difficile, quello di chi non teme l’impopolarità che spesso la responsabilità delle scelte porta con se, non si curo’ di essere prima odiato e temuto, poi trasformato in capro espiatorio per ogni nefandezza reale o immaginaria.

Immaginate un ragazzo così, inesorabilmente destinato al mito più che alla cronaca, testimone e protagonista di passioni nette e dure - amore, odio, vita, morte, coraggio, paura...implacabilmente coerente con se stesso, immaginate questo ragazzo davanti a ciò che furono i giorni, i mesi seguenti la Liberazione. Immaginatelo mentre si rende conto che non è come pensava, che l’altro mondo possibile nei posti che contano ha troppo spesso le stesse facce furbesche di chi c’era prima ed ha semplicemente cambiato casacca, di chi è pronto a seppellire con un fiume fangoso di parole la limpidezza della Costituzione scritta con il sangue e il futuro di tanti ragazzi. Una rivincita della dittatura della mediocrità, sconfitta dalla passione e dalle armi Partigiane ma nuovamente vincente nel trasformare i princìpi in parole e le parole in chiacchiere inutili. Immaginate quel ragazzo smarrito davanti alla impossibilita di constatare un percorso di cambiamento, e con la sgradevole sensazione di un calo di tensione ideale del suo stesso mondo, di scelte fatte di compromessi non comprensibili e non autorevolmente spiegati.

Non credo che Cimitero volesse tutto e subito, penso invece che percepì un andazzo e non riuscì a sopportarlo.

Pensate alla delusione di quel ragazzo, alla rabbia...alla sensazione di avere sprecato la sua gioventù per qualcuno ( e non per qualcosa) che non la meritava. Non c’e nulla di più osceno e pericoloso che calpestare i sogni di un ragazzo. E se la reazione consiste nell’essere presente durante una sventagliata di mitra esplosa nel momento e nel luogo sbagliato bisogna riflettere prima di giudicare. Incidentalmente per quell’errore lo Stato Democratico che Cimitero contribuì a costruire gli commino’ una pena quasi pari a quella stabilita per il Boia di Albenga... mi viene in mente una canzone di Guccini, e penso a Cimitero stesso come ad una Locomotiva, come una cosa viva lanciata a bomba contro l’ingiustizia... La delusione provocata da un sogno calpestato può creare grossi danni, oggi come ieri. Chi coltiva il sogno di una vita libera, vissuta liberamente dentro quel sistema di regole che si chiama democrazia, come può reagire davanti ad una democrazia che non rispetta se stessa e le regole che si è data? Saprà discernere tra il valore profondo del principio democratico e i limiti di chi, pur chiamato a tradurlo in gesti concreti, non vuole o non può essere all’altezza del compito a cui è chiamato? Ecco un problema, oggi come ieri. Un problema che genera veleni mortali come l’indifferenza quando servirebbe impegno, paura quando servirebbe coraggio, egoismo quando servirebbe senso di comunità. E sono tutti veleni più subdoli e mortali della rabbia. 

Sono onorato e grato a Ferruccio Iebole e a Pino Fragala’ per avermi chiesto di introdurre questo libro. Cimitero vuol dire Resistenza , e Resistenza vuol dire Cimitero: mancava una riflessione coraggiosa e precisa. Spero essere stato all’altezza di un compito cosi importante. Scrivere queste poche righe mi ha obbligato a riflettere senza retorica su questioni vitali ieri come oggi, sul fatto che la banalità del male si alimenta sempre nelle singole scelte delle singole coscienze come in ogni singola coscienza è custodita la responsabilità del bene. Ma bisogna scegliere, sapere vedere la sostanza oltre la facilità delle apparenze. E non dimenticare che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Calpestare quei sogni probabilmente è peggio che morire.