Si fa presto a dire vino. Ma solo un vero bevitore sa quanti significati questa parola può contenere. Joseph Roth ne sapeva qualcosa, tanto che ci scrisse il suo libro più bello. Ma è sempre piacevole parlarne.
Luca Amico
E se parlassimo di vino?
Il vino è un’altra cosa. Ma andiamo con ordine.
Quando ero piccolo, negli anni ottanta, il vino era la bevanda dei pasti. Non si facevano tante chiacchiere, annusate, scrollate di bicchiere: si metteva sempre in tavola il bottiglione – rosso, fermo, temperatura ambiente: ad agosto in caraffa con qualche cubetto di ghiaccio – e lo si allungava sovente con l’acqua. Del rubinetto.
Il vino in cartone non era disprezzato. Acquistato per cucinare, in mancanza di meglio finiva anche sulla tavola. Non c’erano grandi ritualità, né esibizioni, né ricerca di storie o emozioni. Il vino era un alimento. Un alimento fondamentale, però: sulla tavola – come in una comunione laica - non poteva mancare mai, come l’acqua, o il pane.
Quando sono cresciuto e, con l’adolescenza, ho scoperto le gioie ed i dolori (postumi) dell’alcool, il vino non andava di moda tra i giovani e giovanissimi. Si beveva prevalentemente birra – al pub, in latteria, a casa, ovunque insomma – e immondi intrugli a base di super alcolici quando si voleva scivolare più rapidamente nell’ebrezza dionisiaca.
Dopo il 2000 il vino è entrato nella mia vita a piccoli, ma decisi, sorsi: io stavo cambiando, non più scapestrato e goliardico studente dalla chioma lunga e spettinata e con truculente magliette inneggianti all’heavy metal, ma tonsurato praticante avvocato desideroso di vedermi e di farmi guardare come uomo maturo, di gusto, di classe. Cambiava in quegli anni – o così mi pare oggi in retrospettiva – anche l’estetica del vino, sempre più associata al buon vivere borghese (per un attimo volevo scriverlo in francese) e sempre meno all’osteria (nella mia Savona, alla Società di Mutuo Soccorso).
Cambiavo io – che volevo essere, o sembrare, adulto – e cambiava il vino, che, come me, desiderava darsi un tono e presentarsi con una nuova veste.
Non sono un alimento. Diceva ora il vino. Sono un’opera d’arte.
E le opere d’arte, si sa, le capiscono solo i critici, che poi le spiegano – con termini esoterici e gesti magici – al popolo. Il quale impara così a distinguere il capolavoro – il vino d’elite – dalla crosta – il vinello popolare.
Così è cominciato il periodo aureo dei degustatori e delle degustazioni: ruotare il bicchiere, infilarci il naso dentro, inclinare il tutto su tovaglioli immacolati e infine tornare a casa ubriachi e senza dignità (a volte anche senza le chiavi, perse chissà dove), macchiati di viola ovunque, dopo dieci assaggi generosi trangugiati all’insegna del “mi rincresce lasciarlo nel bicchiere” (e, dopo tutto, sono ligure).
Sulle degustazioni e sui degustatori andrebbe detto molto di più. Quei prestigiatori dall’eloquio celeste, sovente dotati di un bel tono baritonale e di una impeccabile camicia bianca, auscultano il vino come un paziente ammalato grave, con serietà e professionalità. E quindi, dopo aver ipnotizzato la folla con rapidi gesti delle mani, con aria compunta, emettono la diagnosi. Sentori di cacao, tabacco. E via fin dove arriva la fantasia olfattiva umana. Io una volta ho azzardato un profumo di pane, di brioches, e sono stato preso a bastonate. Qualche volta, invece, lo Yoda enologico rassicura il padawan con un, sufficiente,” ognuno ci sente quello che vuole”, che, in realtà, significa: “povero grullo privo di naso”.
Degustare, comunque, è divertentissimo. I degustatori, molto meno. Mentre il vino diventava vieppiù mistica e artistica io ampliavo il mio palato e le mie conoscenze. Non so cosa lui pensasse di me, ma io oramai ero preso senza via d’uscita. Voglio dire, quando si arriva ad andare in vacanza a Bordeaux, si è chiaramente imboccata una china irrimediabile.
A proposito. Museo del Vino: ne ho visti due. Quello di Barolo: semplicemente meraviglioso, ludico, interattivo, una vera Disneyland enologica. Ci mostra la storia del vino e lo fa in un contesto principesco (un castello…in mezzo alle langhe…sigh). E poi ho visto quello di Bordeaux: ENCICLOPEDICO. In una architettura che ricorda un gigantesco decanter c’è tutto (o quasi) quello che si può immaginare sul vino. E, in effetti, più che un museo (termine che ha il sapore di teche polverose e mummie dimenticate), è un “laboratorio” (non volevo scrivere workshop ma ora l’ho fatto, seppur tra parentesi) dove studiare, assaggiare, capire.
Già. Un laboratorio. Perché spingendosi nelle degustazioni e nello studio il vino diventa, da mistica, scienza. Improvvisamente tutto si fa chiaro. Quella sostanza meravigliosa non è un regalo degli Dei (o della Natura, per i bioamanti) ma il risultato di precisi processi biologici e chimici, governati dalla sapiente mano umana. Poi subentra il marketing…e i degustatori. Ma non divaghiamo: si spalancano abissi e arrivano le vertigini nello scorgere quanto è profondo e complesso il mondo del vino. E improvvisamente il prestigiatore/sommelier, con il suo gesticolare da bramino e il suo complesso eloquio fatto di “sentori e terroir”, ci sembra più un bravo illusionista che non un reale stregone.
Arrivato a questo punto ho avuto una specie di lampo: più che degustare, mi piaceva gustare. E grazie al piffero, vi sento esclamare in coro.
Allora ecco che il vino, già alimento, poi arte e quindi scienza…diventa piacere. Un piacere enorme, fatto di colori meravigliosi, profumi indescrivibili e storie meravigliose. Perchè, infine, vuoi sapere tutto. Vuoi il racconto della terra e dei vigneti, del tempo che faceva in quella annata, della cantina e delle botti in cui il vino è stato. Vuoi capire come il mondo si sia infilato nella bottiglia.
E, in tutto questo piacere fatto di storie e sensazioni…ancora non l’hai bevuto. Insomma ecco che il vino dice: ora hai capito cosa sono? Sono una ESPERIENZA. E ha ragione. Per Bacco, se ha ragione.