TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 23 maggio 2019

A proposito di cattivi maestri (ancora su Nanni Balestrini e non solo)





Giorgio Amico

A proposito di cattivi maestri (ancora su Nanni Balestrini e non solo)

Quando va via un compagno, con cui hai condiviso momenti, speranze, emozioni e anche delusioni e rabbia, ti viene di pensare a te stesso e agli anni della tua vita, alle cose belle che hai fatto, ma anche a ciò che non hai fatto e che invece potevi fare. Hai passato i settant'anni, sai di essere vecchio, qualcuno addirittura lo te getta in faccia come un insulto (è esperienza recentissima) e quindi sai che il tempo che ti resta, per lungo che possa essere, non ti basterà a recuperare errori e omissioni. Insomma, la morte di un amico ti interroga sul senso della tua vita. A me in poco tempo è capitato tre volte, con Bruno Mozzone, Ugo Tombesi e Piero Pentenero. Compagni negli anni della rivolta, del tempo in cui amavamo la sovversione e il disordine, se ordine era lo sfruttamento, la miseria, la riduzione degli uomini a a numeri. Un amore, insieme tenero e violento, come è solo l'amore vero.
Perché se il mondo che vedevamo era la pace, allora noi volevamo la guerra. Lo cantavamo e lo credevamo, fermamente.
Siamo stati per questo cattivi maestri? Ci pensavo in questi giorni, riprendendo in mano i libri di Nanni Balestrini che di quella generazione, che poi è la mia, fu una delle voci più intense.
Di sicuro siamo stati motivo di scandalo, ma cattivi maestri no. Se maestri di qualcosa si è stati, allora di etica si deve parlare. Perché di quello si tratta, quando si pensa e si vive a partire dal noi e non dall'io.
Lo avevamo imparato dalla generazione che ci aveva preceduto, da chi si era formato nella guerra partigiana, che non era solo liberazione dal fascismo o dall'occupazione, ma soprattutto liberazione da tutto quello che rende la vita insopportabile agli uomini. Quella, almeno, era la speranza.

E allora, se la vecchiaia è il tempo dei bilanci, il mio lo ritrovo in due righe, straordinarie, di Italo Calvino:

“La mia generazione è stata una bella generazione, anche se non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto. Certo, per noi, per anni la politica ha avuto un'importanza magari esagerata, mentre la vita è fatta di tante cose. Ma questa passione civile ha dato un'ossatura alla nostra formazione culturale; se ci siamo interessati di tante cose è stato per quello. Anche se mi guardo attorno, in Europa, in America, coi nostri coetanei e con quelli più giovani, devo dire che noi eravamo più in gamba. Tra i giovani che sono venuti su dopo di noi negli ultimi anni, in Italia, i migliori ne sanno più di noi, ma sono tutti più teorici, hanno una passione ideologica tutta fatta sui libri; noi avevamo per prima cosa una passione a operare; e questo non vuol dire essere superficiali, anzi.”

Era il '60, poi sarebbe venuto il '68. A smentirlo, perché la triste passione ideologica sarebbe diventata gioia di vivere e lottare. L'inverno delle nostre vite oggi convive con l'inverno della società. Che torni presto il tempo delle passioni violente e dei teneri amori e che, come con Calvino, una nuova generazione sappia smentirci.