TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 26 settembre 2019

Ligures 3. “Il santuario delle nostre genti” il Monte Bego




Come per i celti d'Inghilterra l'antica Stonehenge, anche noi Liguri abbiamo alle nostre origini un antico santuario, una vasta area sacra: il Monte Bego e le sue valli.

Giorgio Amico

Ligures. “Il santuario delle nostre genti” il Monte Bego


Il Monte Bego (2872m. slm) è con le valli che lo circondano un immenso altare di pietra. La sua vetta è spesso coperta di nubi e sconvolta da tempeste terribili. Alle sue falde il viaggiatore incontra enormi massi erratici segnati dai fulmini, laghi e sorgenti. Un luogo di una bellezza straordinaria che ha qualcosa che immediatamente attrae e affascina. Non c'è da stupirsi che i nostri antichi progenitori avvertissero così forte la presenza del sacro da trasformarlo in un gigantesco tempio a cielo aperto.

La montagna e le valli circostanti (Valle delle Meraviglie, Val Fontanalba, Val Masca e Val d'Inferno) sono luoghi ricchi di incisioni rupestri, (oltre 40 mila) soprattutto sui costoni rocciosi nudi ed esposti, sottoposti ad erosione dalle glaciazioni quaternarie. Un tipo di pietra liscia che si presenta come una perfetta lavagna che anno dopo anno, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio rappresentò l'immaginario profondo di quegli uomini (soprattutto pastori) che di lì passarono o addirittura si radunarono in momenti precisi dell'anno per compiere grandi riti e ottenere la fertilità delle donne, degli animali, dei campi. In una parola, che la vita potesse continuare e garantire a ciascuno un'esistenza serena.



Il luogo è impervio e fa sentire chi lo percorre l'insignificanza della condizione umana di fronte alla grandezza e al mistero della montagna e del cosmo. Niente, come una notte in quelle valli sotto un cielo bianco di stelle e l'ombra gigantesca della montagna, fa sentire piccoli e insignificanti e fa nascere domande sul senso vero e profondo della nostra esistenza.

Una realtà molto varia, con valli verdi, ricche d'acqua e di laghi (Fontanalba) e altre pietrose e quasi impraticabili, come la Val d'Inferno di cui lo storico e geografo Emanuele Celesia (1821-1889) scrive:

« Valle d’Inferno, nome che ben le si addice per la desolazione che regna d’ intorno, pel tetrico color delle rupi che d’ogni banda l’accerchiano, per il difetto di ogni vegetazione da poche erbe infuori nell’estiva stagione e per l’orridezza del luogo. Il pauroso silenzio di quella sconsolata vallea non è rotto che dagli stridi dei falchi e delle aquile che formano tra quei dirupi i lor nidi ».

In realtà le prime descrizioni sono molto più antiche. Possiamo trovare un primo riferimento scritto nel 1460 in un lettera di Pierre de Monfort che scrive. "C'etatit lieu infernal avec que figures de diables et mille démones partout taillez en rochiers" (Era un luogo infernale con figure di diavoli e mille demoni scolpiti nelle rocce). da qui il nome che gli resterà di Val d'Inferno.

In una guida del 1650 il nizzardo Pietro Gioffredo (1629-1692), autore di una monumentale storia delle Alpi Marittime (oggi comodamente leggibile su Internet), descrive i luoghi sulla base della relazione di Onorato Lorenzo, parroco del paese di Belvedere.

"I laghi su menzionati sono detti laghi delle Meraviglie perché nei loro pressi sono state rinvenute, e ciò è motivo di grande meraviglia nei visitatori, rocce di vari colori, quasi levigate, che portano incise un migliaio di figure".

Nel XIX secolo è la volta di numerosi naturalisti, storici, geologi che osservano, rilevano e interpretano quelle sorprendenti incisioni. Per il grande geografo francese Elisée Reclus (1830-1905) le incisioni sono il ricordo del passaggio di Annibale attraverso le Alpi. Una teoria molto immaginifica a cui risponde il genovese Arturo Issel (1842-1922), primo vero grande studioso delle caverne del Finalese:

"L’ipotesi che attribuisce i bizzarri geroglifici ad Annibale, raccolta da Elisée Reclus, come quella che li vuol tracciati per opera dei Cartaginesi guidati dai duci che militavano col celebre condottiere, caldeggiata da Fodérè, son prive di ogni sussidio storico, etnografico ed archeologico. Superfluo il dimostrare, pur ammettendo il transito pel varco di Tenda di un’oste cartaginese, quanto è assurdo supporre che si sia indugiata a scolpir migliaia di figure sulle rupi, in regione lontana da ogni via praticabile e nella quale regna quasi perennemente il rigor dell’ inverno".

Se non erano cartaginesi, le incisioni erano di origine fenicia. Questa la tesi di Emanuele Celesia, secondo cui gli autori delle incisioni di Val d’Inferno e di Val Fontanalba erano Fenici approdati in tempi antichi, per ragioni di commercio, ai lidi della Liguria e saliti poi sulle Alpi alla ricerca di metalli.

Per una soluzione definitiva del mistero delle incisioni occorre attendere il 1897 e l'arrivo di un inglese, un po' stravagante almeno agli occhi degli indigeni, Clarence Bicknell (1842-1918).



Clarence è un pastore anglicano, scienziato naturalista per passione, dotato di buone risorse economiche. Nel 1878 si stabilisce a Bordighera e subito si dedicò allo studio della flora, non solo della riviera, ma anche delle vicine Alpi Marittime. Nel 1881 sale in val Fontanalba, sul Monte Bego, per studiare la flora locale e nota alcune incisioni rupestri. Dal 1897 al 1918 passa le estati a Casterino documentando per la prima volta in modo scientifico le incisioni. Del suo lavoro restano ben 16 mila calchi e migliaia di fotografie.

Arturo Issel, di cui abbiamo già parlato, studia i materiali di Bicknell e nel 1907 trae le sue conclusioni:

I. Le figure incise risalgono a tempi remotissimi. Alcuni dei manufatti rappresentati si riferiscono a tipi propri alla così detta prima età del bronzo.
II. Esse furono eseguite da gente dedita all’agricoltura e alla pastorizia, ben più che alla caccia e alla guerra. Le immagini di aratri e di erpici escludono che gli artefici fossero esclusivamente pastori. Tali immagini, associate ad altre assai più numerose di teste e corpi cornuti, le prime provviste di orecchie o senza, i secondi muniti o no di gambe e di coda, dimostrano che queste figure cornute non sono il noto emblema fenicio, ma rappresentano bovi liberi od aggiogati per servire a lavori campestri.
III. Mentre molte figure rappresentano manufatti, animali od uomini, altre sono indubbiamente ridotti a schemi ed avevano, secondo ogni verosimiglianza, significato simbolico.
IV. Gli artefici delle incisioni non vivevano abitualmente nelle alte valli in cui tracciarono quelle misteriose figure, ma in ragioni coltivabili, più ospitali dal punto di vista del clima e delle produzioni; non provenivano però dalla Liguria Marittima. I territori più vicini in cui si danno le condizioni opportune per la prosperità di tribù dedite all’agricoltura sono le valli della Vesubia e della Roia a sud, quelle del Vermenagna e d’altri affluenti del Po a nord.
V. Non v’ha una sola figura che rappresenti con sicurezza un animale esotico.
VI. Il numero delle figure, il lungo e malagevole lavoro a prezzo del quale furono ottenute, le condizioni climatologiche, l’asprezza e la sterilità dei luoghi, disadatti alla dimora dell’uomo, porgono chiara prova che si annetteva loro grande importanza e furono eseguite a gran distanza dalle abitazioni in territori remoti, difficilmente accessibili, inospitali, per preservarle dal pericolo di andar distrutti e forse anche per sottrarle alla vana curiosità degli estranei. Un tal sentimento si concilia agevolmente co’ supposto che i geroglifici avessero un significato religioso o politico.
VII. Lo stile dei disegni si accosta principalmente a quello delle figure che si vedono scolpite o graffite in buon numero di monumenti megalitici (dolmen e menhir), sui quali bene spesso sono rappresentati l’accetta di bronzo inmanicata, rozzi stemmi (cartouches), ornamenti svariati, come circoletti, spirali ecc. ed anche immagini d’uomini e d’animali.
VIII. La mancanza di avanzi umani sepolti o combusti presso le rupi scolpite, ed altri caratteri, escludono assolutamente il sospetto che si tratti di iscrizioni funerarie.
Le ipotesi da tenersi in maggior conto, circa il significato delle nostre scolture, sarebbero a parer mio le seguenti : а) Che fossero destinate a perpetuare la memoria di un culto misterioso o di sacrifizi offerti alla divinità.
b) Che fossero in certo modo un archivio destinato a conservare il ricordo di eventi memorabili, come vittorie conseguite, paci o tregue concluse, controversie composte, nuovi ordinamenti amministrativi o politici, alleanze, matrimoni.
c) Che avessero per oggetto di determinare i confini di territori soggetti a singole tribù o nazioni, o di definire titoli di proprietà o diritti di pascolo, che fossero in certo modo lodi, giudizi arbitrali, trattati, intesi a risolvere contestazioni tra popoli o tribù.

Grazie al lavoro di Bicknell e poi di Issell subito dopo la prima guerra mondiale finalmente lo Stato italiano (allora la zona del Bego era ancora italiana, diventerà francese dopo la seconda guerra mondiale nel 1947 con il Trattato di pace) inizia a farsi carico del problema della catalogazione e dello studio sistematico delle incisioni.



Il primo lavoro archeologico sistematico è avviato nel 1920 da Piero Barocelli (1887-1981). Animato da una visione lungimirante, l'archeologo costruisce un rifugio a 2000 metri di altitudine nei pressi del Lago Lungo Superiore per ospitare le spedizioni di studio che, negli anni successivi, saranno necessarie per interpretare l'immensa quantità di incisioni. Nel 1930 conferisce l‘incarico di iniziare i lavori a Carlo Conti, scultore di Borgosesia che ispeziona le valli intorno al Monte Bego e scopre migliaia di rocce incise, ne fa l’inventario, le riproduce,  ne realizza dei calchi in gesso. È il primo a creare un sistema di riferimento per situarle nello spazio: divide la regione in settori, i settori in zone, le zone in gruppi e attribuisce un numero a ogni roccia incisa secondo un preciso percorso geografico. Il suo “Corpus della zona I” è stato pubblicato nel 1972.

La guerra interrompe queste ricerche. Le valli e gli stessi crinali del Bego sono devastati dalla costruzione di strade militari, fortini, casermette ancora oggi visibili. Molte delle incisioni vengono distrutte o fortemente danneggiate.

Nel 1967, il francese (come si è visto, si tratta ormai di territorio francese) Henry de Lumley riprende lo studio delle incisioni della regione del Monte Bego con l’obiettivo di realizzarne un corpus completo e dettagliato. Il ricercatore, basandosi sulla cartografia di Carlo Conti, riprende la sua spartizione in zone e gruppi. Nel 2003 vengono pubblicati i primi due tomi, dei ventiquattro complessivi, della monografia del Monte Bego,  Ogni volume presenta una zona sotto tutti gli aspetti: geologia, geomorfologia, vegetazione, rilevazione di tutte le rocce incise, protostoriche e storiche, lo studio delle incisioni, le mappe dei diversi ricoveri sotto massi e delle costruzioni militari, come pure un tentativo di interpretazione del sito.

Secondo questa metodologia le incisioni possono essere suddivise in tre grandi categorie: corniformi (80%, bovidi), armi (7.5%, pugnali e alabarde), reticolati (12.5%, reticoli ortogonali e incisioni topografiche).



Le incisioni più antiche sono quelle geometriche, interpretabili come composizioni topografiche così come quelle simili della Val Camonica; risalgono al Neolitico (V-IV millennio a.C.). Ad esse seguono numerose figure di armi, in particolare pugnali e alabarde le quali, grazie ai confronti archeologici, possono essere attribuite all'età del Rame (III millennio a.C.), e in misura minore all'antica età del Bronzo (2200-1800 a.C.).
Le rappresentazioni di armi indicano tuttavia che è durante l’Età del Rame, verso il 3300 a.C., che vengono realizzate la maggior parte delle incisioni rupestri della zona del Monte Bego. Gli uomini della prima Età del Bronzo continuano l’opera scolpita dai loro antenati mantenendo e attualizzandoli, i simboli.

Questo millenario lavoro di incisione si interrompe in epoca storica, tra la fine della prima Età del Bronzo e il periodo dell’impero romano: un’incisione del II secolo d.C. attesta, infatti, il passaggio di un uomo, che incide una frase scurrile “Hoc qui scripsit patri mei filium pedicavit“, un po' come un tempo si faceva nei gabinetti pubblici e oggi, purtroppo, su.... Facebook. Poi, fino al Medioevo più nulla. In questa epoca e nei secoli seguenti, sono incise sulle rocce iscrizioni e figure schematiche, a volte, appena visibili, rappresentanti pastori, militari, viandanti, forse anche pellegrini sul cammino di san Giacomo, e perfino immagini di barche. Le incisioni sono spesso accompagnate da date che ne determinano con precisione il periodo. di nuovo il Bego diventa un grande santuario all'aperto, questa volta cristiano. Marinai scampati a naufragi e tempeste salgono fin lassù per incidere sulle pietre rozzi ex-voto. Una dimostrazione della sacralità intrinseca dei luoghi, al di là dell'avvicendarsi delle religioni.

Perchè il Bego è una montagna sacra. Il luogo dove si manifesta in tutta la sua potenza (il fulmine) il numinoso, il luogo dell'incontro con Dio. proprio come il Monte Sinai dove Mosè ricevette le tavole della Legge o il tibetano Monte Meru centro dell'universo dove si trova il Paradiso, o il monte Olimpo degli antichi greci. Per millenni luogo di raduno di pastori transumanti provenienti dall'attuale Provenza, Liguria di Ponente e Piemonte Occidentale, ossia dalle terre dei Liguri. In quelle occasioni le tribù sparse ritrovavano la loro antica origine comune, rinsaldavano legami di alleanza, regolavano l'so dei pascoli, delle fonti e delle vie di passaggio.

Per questo Nino Lamboglia ha definito il Bego “il santuario delle nostre genti”, una definizione che coglie perfettamente la natura di quei luoghi e lo spirito di coloro che si spingono fin lassù. Perchè salire sul Bego o attraversare le valli che lo serrano in un abbraccio, non è una escursione in montagna come le altre. Quei luoghi, quelle incisioni, così cariche di mistero producono sensazioni che è difficile far comprendere a chi non c'è stato.



Una magia profonda, già dal nome, che viene dall'indoeuropeo Beg. La stessa radice è alla base del nome del monte Beigua, dove non a caso si trovano incisioni dello stesso tipo. Un luogo sacro al signore delle tempeste, fecondatore della terra che fa scendere la pioggia a fecondare la terra, far crescere l'erba e gli armenti. Da qui le corna, simbolo universale del potere fecondante, simboleggiato poi dal pugnale, dalla lama che trafigge come un raggio solare, segno della potenza celeste fonte di vita e di luce.

In due figure, quella del mago e quella dell'orante, ritroviamo questa simbologia ed una traccia di quegli antichi riti. L'orante diventa l'axis mundi, il mediatore tra cielo e terra, come l'albero cosmico o appunto la montagna sacra. La vetta, avvolta da nubi e sconvolta dal rombo di tuoni e dal bagliore accecante dei fulmini, è il luogo della ierofania, dello sposalizio rituale del cielo con la terra, il punto di congiunzione dell'elemento maschile e di quello femminile, l'origine della vita.

Visto così, davvero, anche per noi moderni, disincantati e laici, il monte Beigua rappresenta ancora "il santuario delle nostre genti".

Avvertenza:
Per un corretto approccio al materiale ricordiamo ancora che si tratta solo di appunti per un ciclo di lezioni svolte negli anni scorsi e non di materiali strutturati.

3. Continua