TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 18 novembre 2021

L'economia schiavistica nel Sud degli Stati Uniti

 


Assieme allo sterminio dei nativi americani, la schiavitù prima e la politica della segregazione razziale poi rappresentano una macchia indelebile nella storia degli Stati Uniti. In questa parte si tratterà dell'economia schiavistica degli Stati del Sud e dei mezzi messi in atto dagli schiavi per riuscire a mantenere un minimo di vita normale nel contesto della piantagione. Centrale fu in quest'opera di autodifesa, vera e propria rivolta silenziosa, il ruolo delle donne. Avvertiamo, come sempre, che nel corso della trattazione viene quasi costantemente usata dagli autori citati il termine “negro/negri”. Ovviamente non esiste alcun intento denigratorio nell'uso del termine che rispecchia il momento culturale in cui quelle opere furono redatte o tradotte in italiano. Trattandosi di citazioni, abbiamo ritenuto corretto mantenere il termine originario e non procedere a censure postume in nome di quello che oggi si considera un linguaggio politicamente corretto.

Giorgio Amico

L'economia schiavistica nel Sud degli Stati Uniti


Mentre ,come si è visto, alla fine del '700 l'economia schiavista è ormai una palla al piede per lo sviluppo di una moderna società industriale, nel Sud degli Stati Uniti la schiavitù fa un enorme passo avanti, diventando la base di un tipo di economia atipico. Infatti mentre per anni si era discusso sulle caratteristiche dell'economia di piantagione del " Deep South ", definendola di volta in volta una società agraria in lotta contro gli abusi dell'industrialismo, oppure una forma particolare di economia capitalistica, si è dovuto aspettare la pubblicazione dell'opera di Eugene Genovese sull'economia politica della schiavitù per riuscire ad averne una definizione esatta. Per Genovese l'economia del Sud ha caratteristiche sue proprie, di tipo essenzialmente precapitalistico e aristocratico.

«Nata come semplice appendice del capitalismo inglese, quella dei piantatori finì con il diventare una società potente e in larga misura autonoma, con pretese e possibilità di tipo aristocratico - anche se pur sempre legata al mondo capitalistico dai vincoli inevitabilmente connessi alla produzione di merci. L'elemento essenziale in questa particolare società era la posizione di assoluto predominio goduta dai proprietari di schiavi». (18)

Questo impetuoso sviluppo era dovuto ad alcune innovazioni tecniche che avevano permesso uno sfruttamento industriale del cotone. Nel 1764 viene costruita in Inghilterra la “Jenny”, primo rozzo esempio di filatoio meccanico, che permetteva di utilizzare contemporaneamente sedici fusi. Nel 1777 al filatoio meccanico viene applicata la forza del vapore, permettendo di meccanizzare l'intera operazione della cardatura e della filatura del cotone. Ciò permise un intensissimo sviluppo della industria cotoniera inglese, che divenne l'industria capitalistica per eccellenza. Il cotone del Sud degli Stati Uniti diventò la materia prima fondamentale dell'industria tessile inglese. Sempre secondo i dati di Williams, mentre negli anni 1786-1789 il cotone americano equivaleva a 1/100 dell'import inglese; nel periodo 1846-1850 esso assorbiva ben i 4/5 delle importazioni britanniche. Anche negli Stati Uniti era stata un 'innovazione tecnica a permettere ai piantatori di tenere i1 passo con la crescente richiesta di cotone proveniente dalle industrie inglesi: l'invenzione, nel 1794, della sgranatrice meccanica. Secondo Carles e Comolli:

«In relazione allo sviluppo dell'industria tessile in Inghilterra. la coltivazione del cotone prese un enorme slancio e il Sud degli Stati Uniti divenne il regno esclusivo e il fornitore nel mondo intero del cotone. I piantatori - circa 400.000 - si trasformarono in capitalisti sfruttando immensi territori e disponendo di armate di schiavi. Il valore di mercato del "pezzo di ebano" (negro ideale di m.1,80, di età dai 18 ai 35 anni) salì dai 100-200 dollari degli anni anteriori al 1800, fino ai 2000 dollari del 1870, anno in cui gli schiavi raggiunsero il numero di 4.000.000». (19)

Le catene della schiavitù, nonostante il sorgere di attive società abolizioniste, venivano quindi rinsaldate proprio dalle stesse cause economiche che le spezzavano per gli schiavi delle colonie inglesi delle Antille.

«Il re cotone , come lo si cominciò a chiamare allora, era il vero signore. L'invenzione, avvenuta in Inghilterra, attorno al 1814, di uno speciale telaio per tessere la fibra di cotone, ne rese ancora più remunerativa la coltivazione e allo stesso tempo rese indispensabile la manodopera negra per produrre su vasta scala e ad un prezzo economico». (20)

Le condizioni di vita degli schiavi

Il libro di George P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all 'alba, basato su interviste fatte ad ex schiavi neri negli anni ' 20 e '30 documenta la nascita di comportamenti culturali, politici e sociali alternativi a quelli richiesti dai padroni bianchi. Rawick polemizza con tutta una storiografia tendente a dimostrare che non esiste una storia degli schiavi neri americani indipendente da quella dei bianchi. Esiste, invece, una molteplicità di documenti degli ex schiavi fuggitivi sufficiente ad attestare la realtà di una cultura alternativa nelle piantagioni americane una vera e propria cultura degli schiavi che rinnovava adattandola alle nuove condizioni l'originaria cultura africana. Gli schiavi usarono quello che avevano portato con sé dall'Africa per far fronte alla nuova condizione in cui erano costretti a vivere: crearono nuove forme sociali e modelli di comportamento che mescolavano, nelle particolari condizioni della vita in schiavitù nel nuovo mondo, elementi africani e americani .

Notevoli furono però le difficoltà nella creazione di una cultura e comunità nera indipendente. Rawick dimostra come vi sia per lo schiavo una contraddizione interna, derivata da motivi psicologici, che gli fa contemporaneamente accettare ed odiare il padrone, desiderare e temere la libertà. Dalla narrazione di un ex schiavo fuggito viene messa in evidenza tale contraddizione: egli aveva. sempre risposto affermativamente a chi gli domandava se avesse un padrone buono. Ciò dimostra che aveva in parte assimilato la volontà del padrone. E la cosa si spiega benissimo in termini di equilibrio mentale. Lo schiavo era inevitabilmente costretto a trovare un adattamento psicologico alla sua situazione, a pensare che la schiavitù fosse la condizione naturale per quelli come lui. Rawick mette in luce le difficoltà di creare una cultura nuova nelle condizioni della piantagione. Se i coloni bianchi poterono portare con sé tutti gli strumenti della loro cultura originaria e furono liberi di conservarne o mutarne gli aspetti, lo schiavo africano possedeva solo il ricordo della sue cultura, che doveva ora adattare alle nuove esigenze; senza contare come fossero tra loro diverse le culture africane che venivano a contatto. Di qui nasceva la difficoltà per gli schiavi di adattarsi l'uno all'altro e di far sorgere una cultura comune, indipendente, senza possedere alcun modello di riferimento. Nonostante tutte queste difficoltà, il nero - come Rawick sostiene insistentemente - non fu 1a "vittima infantilizzata" che l'immaginario bianco ha costruito, ma un uomo integrale portatore comunque di una sua cultura originale.

La religione degli schiavi

Lo schiavo lavorava dall'alba al tramonto, ma aveva comunque momenti per sé che dedicava alla. creazione e ricreazione della propria personalità e alla comunità. Dal tramonto all'alba, la domenica, i giorni di festa, e in tutte le occasioni in cui non lavorava - e talvolta anche durante il lavoro – egli si dedicava a creare situazioni che in qualche modo rinsaldassero una immagine positiva di sé. Solo comprendendo questo aspetto della vita dello schiavo è possibile capire come la sua personalità fu salvata dalla distruzione e in che modo riuscì anche in quelle condizioni a costruire una nuova comunità in cui riconoscersi. Il senso del sacro fu l'arma segreta degli schiavi. Nelle tribù africane non c'era distinzione tra attività religiose e secolari, e l'elemento sacro era presente in tutte le attività: la religione era una considerevole forza sociale. Anche per spezzare questi legami, i bianchi tentarono di imporre agli schiavi il cristianesimo come forma. di controllo sociale e manipolazione culturale, ma non ebbero fortuna perché questi continuarono segretamente la pratica delle riunioni di preghiera notturna. La preghiera per lo schiavo è stata intesa da molti come mezzo di evasione dalla dura realtà della piantagione, come la speranza in una futura salvezza. Essa era al contrario lo strumento per sviluppare la resistenza alla propria oppressione, creando le condizioni per la lotta per la libertà e rendendo sopportabile la vita in schiavitù. Le riunioni avevano luogo a tarda notte in una delle baracche degli schiavi, una volta alla settimana essi pregavano, cantavano e si sentivano "felici".Queste riunioni rafforzavano i legami tra le persone, rinsaldavano la comunità. I padroni bianchi vietarono di riunirsi e pregare per paura. ohe ciò facilitasse la possibilità di rivolte, ma gli schiavi trovarono comunque sempre il modo di riunirsi. In queste adunanze religiose gli schiavi discutevano i fatti del giorno, ricavano la forza per tirare avanti e concertavano strategie di sopravvivenza. La religione degli schiavi neri non era più solo africana, ma un composto sincretico delle culture africane e del cristianesimo imposto dai padroni. Gli schiavi rielaborarono contenuti africani mescolandoli con elementi della vita religiosa protestante o cattolica.

La famiglia nera durante la schiavitù

Per molti studiosi, gli schiavi usavano la casa, il più delle volte un tugurio ad una sola stanza, solo per trascorrervi la notte e ripararsi in caso di cattivo tempo. Secondo questa teoria, l'abitazione non era il centro di una attiva vita familiare. Una tesi che ha alimentato il mito che gli schiavi non avessero una vita familiare normale, e che, per la maggior parte, vivessero promiscuamente senza legami stabili fra di loro. Rawick sottolinea invece la forza di questi legami e in particolare quelli tra madre e figli, più forti di quelli fra padre e figli, anche perché i padri potevano essere venduti e separatamente e allontanati dai loro bambini, mentre le madri, in caso di vendita, venivano offerte con i figli piccoli ancora bisognosi di cure.

Anche se agli schiavi non era permesso stipulare un contratto di matrimonio legale, uomini e donne in schiavitù non procreavano semplicemente in modo promiscuo, ma tra loro vi erano rapporti socialmente approvati. La cerimonia nuziale era molto semplice. Lo schiavo doveva chiedere il permesso al padrone, e , se la ragazza era di un'altra piantagione, bisognava chiederlo anche al padrone di questa. Quindi veniva loro chiesto se si amavano e, dopo la risposta affermativa, dovevano ,secondo una vecchia usanza, saltare una scopa. Era il padrone che eseguiva il semplice rito; molto raramente veniva. impiegato un pastore.

Talvolta si provvedeva ad un allevamento di schiavi: il padrone sceglieva un uomo robusto, una bella ragazza e li metteva assieme, perché facessero razza. La studiosa Jessie Bernard afferma che il matrimonio tra i neri era così poco comune che quasi tutti i bambini neri nascevano al di fuori dei vincoli matrimoniali, poiché pochi padroni incoraggiavano il matrimonio degli schiavi. Inoltre non era mai richiesto voto di fedeltà per la vita, e il legame era fragile, fondato sulla attrazione reciproca. Questa tesi sembra essere contraddetta da molte testimonianze degli schiavi, che, dopo la guerra civile, andarono in cerca dei parenti e li trovarono; inoltre molti degli schiavi intervistati conoscevano la storia della loro famiglia.

Un eminente studioso, Franklin Frazier, ha tentato di mettere in evidenza elementi che confermassero la tesi secondo la quale gli schiavi neri lottarono per mantenere una. struttura familiare coerente, contro l'opposizione dei padroni che spesso ne smembravano la famiglia. Frazier afferma che lo schiavo creò una vita sociale con quasi tutti i caratteri di una qualsiasi altra società. La comunità degli schiavi funzionava come un esteso sistema di parentela entro il quale tutti gli adulti badavano a tutti i bambini, e ciò era. molto utile nella. condizione della schiavitù in cui sia il padre che la madre lavoravano nei campi. Inoltre c'era sempre qualche persona anziana che assumeva il ruolo dei genitori nella cura dei bimbi ed i bambini più grandi avevano grande responsabilità nella cura dei più piccoli. Va sottolineato come questo sistema di cura collettiva dei bambini corrispondesse a quanto gli antropologi hanno appurato riguardo i costumi tribali africani. Dunque, anche in questo caso, come nei culti religiosi, gli schiavi riprodussero nella vita di piantagione elementi propri della propria esperienza africana. E ciò avvenne non solo per la prima generazione, ma per trasmissione soprattutto materna anche nelle generazioni successive fino all'abolizione del regime schiavista.

Lo schiavo e il padrone: la resistenza

L'esistenza della cosiddetta “bush mail”, cioè di un sistema orale, ovviamente clandestino, di trasmissione delle notizie, rappresenta un fattore centrale nella resistenza degli schiavi all'oppressione padronale. Per quanto fosse considerato illegale insegnare a leggere a a scrivere agli schiavi, molti di essi, sia da piccoli che da adulti, imparavano a leggere ed alcuni anche a scrivere.

I neri liberi diffondevano le idee sull'abolizione e sull'orgoglio nero. Fin dall'inizio a dispetto delle differenze sociali e di status, vi fu una comune unità d'esperienza tra i neri americani schiavi e liberi. Gli afroamericani liberi degli Stati del Nord crearono il movimento della National Negro Convention, che collegava tra loro varie organizzazioni di neri liberi attive in diversi Stati dell'Unione. Il giornale dell'abolizionista bianco William Lloyd Garrison era sostenuto in primo luogo da neri liberi che costituivano la maggioranza dei suoi abbonati. Va detto anche che i neri liberi erano spesso le maggiori vittime del sistema poiché non vi era per loro alcuna garanzia economica o sociale .Non esistendo di fatto alcun canale di assimilazione gli ex schiavi o i neri nati già liberi vivevano ai margini della società bianca, relegati il più delle volte e non solo negli Stati del Sud in una condizione di paria inferiore anche ai più poveri dei bianchi. Da questa posizione di minorità essi impararono molto dei modi di funzionamento della società bianca e dunque anche i mezzi più adatti a combattere le loro lotte all'interno di questa società. Il movimento abolizionista, il più delle volte presentato come un movimento di soli intellettuali bianchi, fu invece in larga parte un prodotto di queste comunità di neri liberi, sebbene i bianchi abbiano avuto una parte non piccola nell'azione di propaganda fra i cittadini bianchi. Come ormai dimostrato dalla ricerca storica degli ultimi decenni, il movimento abolizionista fu in ogni momento egemonizzato da esponenti della comunità afroamericana.

Anche le rivolte degli schiavi, numerose e molto violente, affondavano le loro radici nella religione degli schiavi, proprio in quanto potente fattore di coesione comunitaria. Ripercorrendo la storia delle tre più importante rivolte di schiavi della storia del Sud, troviamo che due di esse furono guidate dai cosiddetti "esortatori", pastori laici che svolgevano un ruolo centrale nelle riunioni religiose dei neri, mentre la terza fu guidata da un nero libero, che aveva comunque come consigliere ed aiutante un esortatore.

Note

18) E. Genovese, L'economia politica della schiavitù. Torino 1972, p. 18.

19) P.C. Carle- J.-L.Comolli, op. cit., pp. 80-81

.20) C. Gorlier, Storia dei negri degli Stati Uniti, Firenze 1963, p. 18.


3. continua