TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 5 novembre 2020

Bordiga sconosciuto (1926-1944) 1. La messa fuorilegge del Pcd'I e l'arresto di Bordiga

 

Nella storia politica ed umana di Amadeo Bordiga, fondatore e primo capo del Partito comunista d'Italia, esiste un buco nero di 14 anni, dal 1930 al 1944, su cui si sa pochissimo e di cui egli non parlò mai se non per accenni minimi. In una recente commemorazione del cinquantenario dalla scomparsa del teorico marxista, se ne accenna sinteticamente. “All'opposizione nel partito e nell'Internazionale Comunista (IC), dopo i tre anni di confino, decise di ritirarsi dalla vita politica attiva e tornare alla sua professione d'ingegnere”. (Amadeo Bordiga, Lotta comunista, numero 602, ottobre 2020). Ed in effetti fu proprio così. Questo “ritiro”, sfruttato dagli stalinisti per una campagna di calunnie che ancora circolano e fonte di imbarazzo per i “bordighisti”, può essere tuttavia ricostruito nei suoi passaggi essenziali a patto di lasciare da parte il mito, sia positivo che negativo, che sulla figura di Bordiga seguaci e detrattori hanno costruito negli anni e basarsi sui materiali esistenti che comunque non sono pochi. È quello che abbiamo cercato di fare con la ricerca di cui oggi iniziamo la pubblicazione. Con una avvertenza necessaria: pensati per diventare un libro, che poi non si fece, questi materiali mantengono in molti passaggi il loro carattere di bozze di lavoro e di questo ci scusiamo con chi avrà comunque la pazienza di leggerli.

Giorgio Amico

La messa fuorilegge del Pcd'I e l'arresto di Bordiga


Il 31 ottobre 1926 a Bologna un adolescente, il quindicenne Anteo Zamboni attenta alla vita di Mussolini. Il fallito attentato, le cui dinamiche restano ancora oggi poco chiare, è il pretesto cercato dal regime per dare il colpo di grazia all'opposizione. «Un regime rivoluzionario ha le sue leggi rivoluzionarie inesorabili che lo salvaguardano», scrive «Il Popolo d'Italia», mentre viene dato ordine ai prefetti di «sospendere fino a nuova disposizione per misura di ordine pubblico tutti i giornali d'opposizione». Il 5 novembre il governo decreta misure drastiche: la temporanea sospensione della validità dei passaporti per l'estero; l'inasprimento delle pene per espatrio clandestino, la sospensione di tutte le pubblicazioni considerate ostili al regime; lo scioglimento di tutti i partiti, associazioni, e organizzazioni che svolgano a qualsiasi titolo attività antifasciste considerate ipso facto antinazionali; l'istituzione del confino di polizia «per quanti manifestassero il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire gli ordinamenti costituiti dello Stato » ; l'istituzione di una polizia segreta mirata alla repressione del dissenso.

Privato dell'immunità, l'intero gruppo parlamentare comunista è arrestato, sfuggono all'arresto solo in tre tra cui Ruggero Grieco. Solo a Milano gli arresti furono quasi 2000, a Torino 350, a Roma 6000 in massima parte fermi provvisori. Sono i dati drammatici contenuti in una lettera che Camilla Ravera invia a Togliatti, allora a Mosca, scritta tra il 16 e il 19 novembre e in cui si forniscono informazioni dettagliate su come il partito cerca di attrezzarsi per l'azione illegale.

“Ai rapporti scritti sono sostituiti i rapporti personali: sono distrutti tutti gli archivi periferici, i documenti di Partito finora in circolazione e le tessere di Partito e di tutte le altre organizzazioni. (…) Il lavoro nelle fabbriche continua nella direzione stabilita. I comitati di agitazione permangono; sarà però evitata una organizzazione nazionale stretta; saranno stabiliti dei rapporti e collegamenti nazionali opportuni e possibili. Il lavoro di agitazione e propaganda sarà fatto secondo le direttive precedenti; e soprattutto attraverso foglietti e manifestini ill. e stampati localmente. Stiamo attrezzando le organizzazioni in modo che la stampa possa essere al massimo decentrata e sia evitato ogni smistamento e trasporto da un luogo all'altro di materiale. Tendiamo a dare a ogni settore almeno un poligrafo. Il contenuto di questa stampa sarà in parte trasmesso dal centro e in parte preparato localmente”. [1]

L'entrata in clandestinità è anche l'occasione per il Centro, avviato ormai sulla strada di un totale allineamento alle tesi del Partito russo ormai saldamente in mano a Stalin, per la liquidazione definitiva della minoranza, cioè della componente raccolta attorno a Amadeo Bordiga uscita sconfitta dal Terzo Congresso del partito tenutosi clandestinamente a Lione dal 20 al 26 gennaio 1926. In merito Camilla Ravera è categorica:

“Come sai, permane nel nostro P. un piccolo, ristretto gruppo di elementi «sinistri», settari, irriducibili (…) [ verso i quali, nda] abbiamo stabilito: i «sinistri» i quali in questo momento si assoggetteranno a lavorare secondo nostre precise disposizioni e saranno disciplinati e non creeranno difficoltà potranno continuare a far parte del Partito; tutti quelli che invece tenteranno di dare noie e di creare dei guai e che continueranno le loro atteggiamento settario irriducibile, e dannoso o pericoloso per la nostra organizzazione, saranno allontanati; senza eccezione alcuna, per nessun caso”. [2]

    Camilla Ravera con Palmiro Togliatti

Nella lettera si tratta anche di Amadeo Bordiga. La proposta è di farlo espatriare in Russia e di impegnarlo nelle attività della Direzione dell'Internazionale Comunista con l'intenzione dichiarata di toglierselo dai piedi:

“Si pone, nello stesso modo, il caso di Amadeo. Egli è fra quelli che hanno avuto la casa devastata e distrutta; ora sta nascosto. Alla C. [Centrale, nda] avevamo stabilito di affidargli un lavoro di Partito; tale che potesse svolgerlo e che gli si potesse proporre senza che ciò potesse apparire come una provocazione. Questo perchè occorreva toglierlo dalla sua posizione e costringerlo a essere fra quei «sinistri» che osservano la disciplina e gli obblighi del P.; e possono quindi essere mantenuti nelle nostre file. Ora nella nuova situazione qui non potevamo far lavorare Amadeo. Pensiamo, perciò che debba essere richiamato costì e incaricato di qualche lavoro. Su questo argomento scrivici subito, dopo averne parlato coi compagni di costì”. [3]

Alla fine del 1926 si può ritenere che oltre un terzo dei militanti del Pcd'I sia in prigione, anche se alcune migliaia di fermati, considerati semplici tesserati non particolarmente pericolosi, verranno presto rilasciati. Quando, all'inizio del 1927, gli organi dirigenti saranno in grado di tirare un bilancio più preciso il quadro sarà questo: circa mille i militanti arrestati e poi incarcerati o «deportati» al confino di polizia; un centinaio i dirigenti o «quadri» di partito «emigrati», circa cinquemila militanti ancora attivi e collegati in qualche modo con il Centro. [4] Il Partito ha subito un colpo durissimo, ma non è stato annientato. Nonostante la feroce e sistematica opera repressiva del regime, il Pcd'I è ancora presente e attivo nel Paese soprattutto fra i lavoratori dei centri industriali. Così come continua a circolare la stampa comunista. In febbraio «L'Unità» ha una diffusione di 10.000 copie in Lombardia, di 8000 in Piemonte, di 500 a Bologna, di 1000 a Roma, di 700 a Trieste, di 1000 a Napoli, il tutto per un totale complessivo di oltre 23.000 copie. [5]

Dunque Bordiga era riuscito a sfuggire alla cattura, mentre la sua casa veniva devastata dagli squadristi. Pur nella sua drammaticità l'episodio non è privo di aspetti farseschi.

“Una squadraccia di manganellatori irruppe nella casa di Amadeo Bordiga al Vicolo Piliero, sul fronte del porto, per impartire una lezione, dicevano quei forsennati, all'uomo politico reo di aver dato origine al partito comunista, con la secessione del gennaio '21 a Livorno. Dopo aver sfasciato a colpi di manganello e di calcio di moschetto tutto quanto aveva l'apparenza di politico o culturale, gli incursori si trovarono di fronte al busto di Marx. Attimi di perplessità, poi la storica sentenza del caposquadra, nutrito di sane letture patriottiche: «Questo lasciatelo stare. Garibaldi non si tocca». Su questo clamoroso errore di persona, da attribuirsi, per estensione, all'iconografia del regime fascista, che in ogni personaggio con la barba identificava Garibaldi, Mazzini o al massimo Verdi, Amadeo Bordiga scherzava volentieri con i rari amici che nel periodo successivo al suo rientro dal confino di Ponza, andavano a visitarlo nella sua casa del Piliero”.[6]

Si trattò comunque di una latitanza di breve durata. Il 20 novembre Bordiga fu arrestato, Gramsci era già carcere dal giorno 8. La procedura fu celerissima. Solo due giorni dopo, il 22, la Commissione provinciale per il confino di polizia di Napoli condannò Amadeo Bordiga a tre anni di confino per “aver commesso ed anche manifestato spesso il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti Nazionali, sociali ed economici costituiti nello Stato, ed a contrastare altresì l'azione dei Poteri dello Stato in modo dannoso agli interessi Nazionali”.

Iniziava il periodo del confino, prima a Ustica e poi a Ponza, destinato a durare fino alla fine del 1929. ma di questo parleremo nella prossima puntata.


Note

1. Dalla lettera a firma Micheli (Camilla Ravera), ad Ercoli (Togliatti), del 16 o 19 novembre 1926, pubblicata in «Rinascita», a. XXI, n. 48, 5 dicembre 1964.

2. Ibidem.

3. Ibidem.

4. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano II. Gli anni della clandestinità, Einaudi, «Reprints», Torino 1976, p. 70.

5. Ivi, p. 71.

6. Guido Botta, Com'era Bordiga visto nell'intimità domestica, Paese Sera, 25 febbraio 1981.

1. Continua.