TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 12 febbraio 2018

Il '68 in ritardo delle femministe genovesi



Un libro ripercorre le storie delle protagoniste di quegli anni

Donatella Alfonso

Il '68 in ritardo delle femministe genovesi

Francesca Dagnino, una delle fondatrici del piccolissimo “nucleo femminista” del manifesto genovese, racconta così la scoperta dell’essere donne e di quella che sarà la stagione del femminismo. Siamo già nel 1972, il ’68 delle donne arriva con maggior lentezza: ma arriva. Ed è stato un processo collettivo, come collettivi erano la scoperta della propria femminilità, il rifiuto del patriarcato e delle imposizioni, l’apertura a nuovi stili di vita in cui essere protagoniste. E collettivo è il libro curato da Silvia Neonato, giornalista e femminista genovese, “La ragazza che ero, la riconosco. Schegge di autobiografie femministe” ( Iacobelli editore) che sarà presentato mercoledì 14 alle 16.45 alla Biblioteca Universitaria.

Un ritratto collettivo, quindi: firmato da Maria Alacevich, Marta Baiardi, Rossana Cirillo, Maria Pia Conte, Marina Olivari, Giulia Richebuono, Giovanna Sissa. In copertina, una bella donna, ragazza di ieri per capelli bianchi, di oggi per il sorriso; Genova è lo sfondo delle gru del porto, lei, appoggiata a un’Ape rossa, ha un libro in mano. «Lei è una di noi e rappresenta la dinamicità, l’anticonformismo dell’andare su un’Ape, ad esempio.

Il titolo è tratto da un verso di Wyslawa Szymborska, e ci è sembrato appropriato — spiega Silvia neonato — Genova c’è profondamente, in queste testimonianze; anzi, vorrei dire che è stata forse la città in cui il movimento femminista è stato più interclassista che in altre realtà. Il Collettivo, dove sono girate almeno 400 donne, non è stato un luogo di ragazze borghesi e universitarie ».

« Nel Collettivo femminista trovavo un clima diverso, aperto, mi pareva ci fosse posto per tutto, questo scambio tra donne mi pareva che rendesse tutto possibile. Sì, io avrei potuto essere e fare qualunque cosa, il mio io si allargava senza trovare confini » , scrive Maria Pia Conte, allora studentessa di Medicina, poi psicoanalista e impegnata nell’ascolto alle donne in difficoltà. « In pochi anni ero passata dalla mia vecchia scuola di suore delle elementari — dalla gelida mentalità pre Concilio vaticano II — a uno spumeggiante ginnasio in pieno ‘ 68. Vivevo a cavallo fra gli amici scelti ancora da mia madre e l’universo in ebollizione del mio liceo classico, lo stesso di Fabrizio De André » , racconta Giovanna Sissa, studentessa di fisica e poi ricercatrice ed esperta di nuove tecnologie.

E ancora: « Noi ragazze non potevamo andare a scuola in pantaloni, ma portavamo minigonne vertiginose, l’importante era avere le calze, in qualunque stagione. Era d’obbligo la gonna, anche nei campi scout o nei giri in moto. Finché dopo una nevicata nell’inverno del 1970, siamo andate a scuola in pantaloni e nessuno è più riuscito a impedirci di indossarli: ora potevamo finalmente sederci al primo banco, senza temere gli sguardi di alcuni professori. Ho sempre odiato chi mi diceva cosa dovevo o cosa non potevo mettermi addosso: la libertà era certamente senza grembiule». Niente grembiule, i pantaloni come conquista.

Ma ben altre ne sarebbero arrivate, di conquiste, come capire il sesso, e parlarne. Scrive Giulia Richebuono, una vita da assistente sociale in fabbrica ma anche con le donne per l’applicazione della legge 194, quella sull’aborto, uno dei temi fondamentali delle donne negli anni Settanta. « Anch’io ho partecipato al gruppo di autocoscienza ed è così che ho cominciato a capirmi nella mia sessualità. Non c’era giudizio da parte delle altre. Ho cominciato a capire quanto ero repressa e sconosciuta a me stessa nelle mie fantasie e nella mia realtà sessuale. Buona parte delle mie pulsioni erano rimaste soffocate e sconosciute».

Ma prima di arrivare a questa consapevolezza bisogna farne di strada, come conferma l’esperienza di Marta Baiardi, che viene da una famiglia operaia, poi docente e storica: «Al liceo anch’io sono seria, forse solo repressa penso ora, ma sono serissima. Fino a vent’anni convivo con una sessualità asfittica. Il mio corpo è chiuso e imbozzolato, dall’accurata educazione ricevuta dalle donne di casa.

Il messaggio è chiarissimo: se vuoi essere autorevole, brava, importante e rispettata, devi fare come noi, la sessualità deve stare in fondo o meglio stare fuori dalla tua vita, la sessualità rende fragili, toglie potere, Puoi frequentare le sedi politiche degli estremisti, vai pure, distribuire i volantini all’alba, fare i picchetti davanti a scuola, vai pure. Stai nel Gos di Sampierdarena, diventi un’attivista degli studenti medi di Potere Operaio (solo la sera perché a giorno non ti fanno uscire) va bene. Puoi parlare in assemblea, anzi, devi, sennò cosa ci vai a fare, la scemetta? Ma le vasche in via Cantore, no, quelle sono per ragazze poco serie che vogliono ‘mettersi in vetrina’». Ne hanno fatto di strada, le ragazze.

« Pensavo — conclude Silvia Neonato — che quelle donne hanno viaggiato dal Canada al Pakistan, dalla Svizzera all’Australia e questo è veramente un taglio con il passato: le nostre madri andavano al massimo a Novi Ligure o a Venezia… ».

La Repubblica – 11 febbraio 2018