Pubblicati gli articoli che Isaac Babel' pubblicò nel 1918 sul giornale di Gorkij, vicino ai bolscevichi ma
critico degli atteggiamenti intolleranti e dispotici che già si
manifestavano nei primi mesi della rivoluzione. Ne esce un quadro
drammatico, ma umanissimo di un paese in tempesta e un'attenzione
compassionevole verso gli ultimi che Babel aveva preso da Cechov. Autore soprattutto di racconti, Babel fu ridotto al silenzio in epoca staliniana e poi
fucilato come spia trotskista.
Riccardo De Gennaro
Babel’, macabro e
pietas a Pietrogrado dopo la Rivoluzione
«E’ ormai
assolutamente chiaro che lei, caro signore, non sa proprio niente, ma
riesce a indovinare molte cose. Sarà bene, quindi, che se ne vada un
po’ tra la gente». Queste le parole con le quali l’autorevole e
celebrato Maksim Gor’kij congedò il giovane Isaak Babel’ dopo
due ore di colloquio, «due ore indimenticabili – scrisse poi
Babel’ – che decisero il mio destino di scrittore».
Era il 1917, Babel’ si
arruola volontario nell’esercito russo e viene assegnato a una
divisione di artiglieria che opera sul fronte rumeno. L’anno
successivo, colpito dalla malaria, fa ritorno a Odessa, la sua città.
Una volta guarito, parte per Kiev e, attraverso un viaggio
avventuroso, raggiunge Pietrogrado, dove incontra nuovamente Gor’kij,
il quale lo manda, appunto, «tra la gente» e gli offre una
collaborazione al suo giornale,Vita nuova, che è su posizioni
mensceviche.
Babel’ produce
diciassette articoli giornalistici sulla vita quotidiana a
Pietrogrado e gli effetti della rivoluzione, raccolti ora in un
volumetto sotto il titolo Cronache dell’anno 1918 (Skira
«Nota d’autore», pp. 91, € 13,00), unitamente a tre altre
corrispondenze uscite su rivista (gli stessi articoli sono stati
pubblicati trentotto anni fa da Garzanti nella raccolta Il sangue e
l’inchiostro, un volume ormai introvabile).
Cronache è la
definizione esatta. Che cosa fa Babel’? Prende a girare per la
città, entra negli uffici pubblici, nelle carceri, nei pronto
soccorso, nelle assemblee dei disoccupati, va al Commissariato per
l’assistenza sociale o all’Ospizio per soldati ciechi e racconta,
esclusivamente, senza commenti né retorica, ciò che vede: «Sulla
targhetta è scritto: ‘Ospizio per soldati ciechi’. Ho suonato
all’alta porta di quercia. Nessuno ha risposto. La porta era
aperta. Sono entrato ed ecco quello che ho visto».
Il suo stile è asciutto,
essenziale, fotografico, come si conviene alla rivista del suo
«maestro». Sarà poi con L’Armata a cavallo e
i Racconti di Odessa che Babel’ lo arricchirà di
metafore, caricandolo di lirismo (per la prima volta, tre anni dopo,
con «Il re», che aprirà il ciclo dei racconti odessiti).
Anche in queste cronache,
tuttavia, c’è molto di quello che caratterizzerà il Babel’ più
maturo, come l’orientamento al documentarismo, il ricorso alla
lingua parlata, l’amore per il macabro, la pietas.
Nel ’18 Babel’ è
ancora una «creatura» di Gor’kij, un attento e curioso
osservatore della società e delle sue dinamiche, uno spirito
anticlericale e antibolscevico allo stesso tempo.
«Oggi non esiste più
ciò che un tempo si chiamava mattatoio di Pietrogrado. Nel cortile
del macello non viene più portato un solo bue, un solo vitello»,
scrive Babel’ in una delle prime cronache. Ci trova solo cavalli e
i loro macellatori, i tatari, perché «i nostri macellatori rimasti
senza lavoro non hanno ancora potuto decidersi di abbattere i
cavalli. Non ci riescono, gliene manca il cuore». Prima della
rivoluzione si macellavano trenta-quaranta cavalli al giorno, ora ne
arrivano quotidianamente cinque o seicento. I tatari pagano bene un
cavallo, ma il boom della macellazione equina è dovuto alla mancanza
di foraggio. Successivamente, a un pronto soccorso, Babel’ scopre
che non ci sono ambulanze. Qui manca la benzina.
C’è un libro, uno
solo: il registro dei rifiuti, ovvero l’elenco di tutti coloro che
non si sono potuti soccorrere. Nella clinica dei bambini nati
prematuramente, le nutrici sono poche (cinque per trenta lattanti) e
hanno sempre meno latte, «un ulteriore, quasi impercettibile segno
della nostra agonia».
La Casa della Maternità,
invece, funziona ed è un’idea straordinaria, sottolinea Babel’.
«Le donne – spiega – entreranno nel Palazzo all’ottavo mese di
gravidanza. Trascorreranno l’ultimo mese e mezzo prima del parto in
condizioni di tranquillità, sazietà, moderato lavoro. Non dovranno
pagare niente. Mettere al mondo dei bambini è un tributo allo
Stato». Si tratta di un’idea che «va realizzata fino in fondo»
perché «prima o poi la rivoluzione va fatta».
Ed è questa la
rivoluzione che Babel’ concepisce. Scrive: «Imbracciare il fucile
e mettersi a sparare gli uni contro gli altri a volte può non essere
uno sbaglio. Ma non è ancora una rivoluzione. Chissà forse non è
affatto la rivoluzione».
Babel’ fu fucilato il
27 gennaio 1940 dopo un processo i cui capi di accusa erano tre:
spionaggio, terrorismo e trockismo. Le sue ceneri furono tumulate in
una fossa comune insieme a quelle del grande regista teatrale
Vsevolod Mejerchol’d. Dove siano non si sa ancora oggi.
Durante il processo,
tipico dell’epoca staliniana, ma in questo caso preceduto da una
lunga istruttoria, Babel’ – che invano chiese fossero sentiti
alcuni suoi amici, tra i quali Ehrenburg e Voronskij – proclamò:
«Non sono colpevole. Non sono stato una spia. Non ho mai commesso
reati contro l’Unione sovietica. Nelle mie deposizioni mi sono
dichiarato colpevole. Ho accusato me stesso e altre persone perché
costretto». Sembra di leggere un suo racconto.
Il Manifesto/Alias – 14
gennaio 2018