TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 1 febbraio 2018

Alfieri politico



Una vita controcorrente e coraggiosa quella di Vittorio Alfieri interamente giocata fra Italia, Francia e Inghilterra. Un grande intellettuale a cavallo fra Europa dei lumi e rivoluzione giacobina che la vulgata scolastica ha ridotto a figurina secondo il mutare delle culture politiche.

Giulio Azzolini

Giacobino, liberal o eroe dell’Italia unita. I mille volti di Alfieri


Lo stesso raggio luminoso passando per prismi diversi dà rifrazioni di luce diversa: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni dei singoli prismi».

Quest’annotazione carceraria di Gramsci descrive bene il gioco di specchi sapientemente ricostruito da Stefano De Luca nel suo Alfieri politico(Rubbettino).

Il raggio in questione è quello di Vittorio Alfieri; i prismi sono le culture politiche che, nell’Italia otto e novecentesca, lo hanno interpretato a loro immagine e somiglianza; le rifrazioni sono duplici, perché restituiscono il raggio come i prismi; le rettificazioni appartengono agli ultimi decenni, quando Alfieri è divenuto oggetto di studio, non più di contesa. Storicizzandolo nel costituzionalismo dell’epoca, la critica odierna tende ad analizzarlo nelle sue tensioni, tra Illuminismo e Romanticismo.

La ricerca di De Luca, professore di Storia delle dottrine politiche all’Università Suor Orsola Benincasa, è preziosa perché consente di guardare alla nostra storia da una prospettiva originale e acuta. Sviluppato con erudizione e chiarezza, l’assunto di partenza è che una peculiarità italiana sia lo stretto legame tra pratica letteraria e sapere politico. 


Invano si cercheranno qui trattati sistematici di calibro paragonabile al Leviatano di Hobbes o al Contratto sociale di Rousseau, ai Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel o alla Teoria della giustizia di Rawls. È invece la grande letteratura la culla del miglior pensiero politico italiano, da Dante a Machiavelli, da Foscolo a Manzoni. Alfieri non fa eccezione, ma il suo caso è particolarmente interessante perché nessuno come lui è stato “usato” in maniere tanto disparate.

Dallo scoppio della Rivoluzione francese fino all’apogeo del regime bonapartista, Alfieri è l’emblema del rivoluzionario, giacobino ante litteram. Per gli uomini del Risorgimento, è soprattutto il profeta della nazione libera dal dominio straniero: un’immagine condivisa dai laici liberali (Francesco De Sanctis su tutti), dai laici democratici (il giovane Mazzini e il giovane Carducci), dai cattolici liberali (come Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti). Ma dall’Unità sino alla fine dell’Ottocento, la figura di Alfieri vede smussati i tratti radicali e repubblicani: un’operazione troppo artificiosa, che Emilio Bertana smonterà senza tema di smentita.

Il primo Novecento, quindi, si apre all’insegna della svalutazione dell’Alfieri politico: è così per Benedetto Croce, che pure apprezza il poeta e il moralista; è così per il socialista Umberto Calosso, che denuncia un anarchismo di fondo. Sarà Piero Gobetti a rilanciare l’immagine di Alfieri come filosofo politico, stella polare del suo liberalismo volontaristico, rivoluzionario. Ma nei primi tre decenni della Repubblica le culture cattolica, marxista e neo-illuminista schiacceranno l’eredità alfieriana (come pure, del resto, quella gobettiana).

Finisce il gioco di specchi. Col risultato di leggere meglio Alfieri, e peggio l’Italia

La repubblica – 22 gennaio 2018