Una vita
controcorrente e coraggiosa quella di Vittorio Alfieri interamente
giocata fra Italia, Francia e Inghilterra. Un grande intellettuale a
cavallo fra Europa dei lumi e rivoluzione giacobina che la vulgata
scolastica ha ridotto a figurina secondo il mutare delle culture
politiche.
Giulio Azzolini
Giacobino, liberal o
eroe dell’Italia unita. I mille volti di Alfieri
Lo stesso raggio luminoso
passando per prismi diversi dà rifrazioni di luce diversa: se si
vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni
dei singoli prismi».
Quest’annotazione
carceraria di Gramsci descrive bene il gioco di specchi sapientemente
ricostruito da Stefano De Luca nel suo Alfieri
politico(Rubbettino).
Il raggio in questione è
quello di Vittorio Alfieri; i prismi sono le culture politiche che,
nell’Italia otto e novecentesca, lo hanno interpretato a loro
immagine e somiglianza; le rifrazioni sono duplici, perché
restituiscono il raggio come i prismi; le rettificazioni appartengono
agli ultimi decenni, quando Alfieri è divenuto oggetto di studio,
non più di contesa. Storicizzandolo nel costituzionalismo
dell’epoca, la critica odierna tende ad analizzarlo nelle sue
tensioni, tra Illuminismo e Romanticismo.
La ricerca di De Luca,
professore di Storia delle dottrine politiche all’Università Suor
Orsola Benincasa, è preziosa perché consente di guardare alla
nostra storia da una prospettiva originale e acuta. Sviluppato con
erudizione e chiarezza, l’assunto di partenza è che una
peculiarità italiana sia lo stretto legame tra pratica letteraria e
sapere politico.
Invano si cercheranno qui trattati sistematici di
calibro paragonabile al Leviatano di Hobbes o al Contratto
sociale di Rousseau, ai Lineamenti di filosofia del
diritto di Hegel o alla Teoria della giustizia di
Rawls. È invece la grande letteratura la culla del miglior pensiero
politico italiano, da Dante a Machiavelli, da Foscolo a Manzoni.
Alfieri non fa eccezione, ma il suo caso è particolarmente
interessante perché nessuno come lui è stato “usato” in maniere
tanto disparate.
Dallo scoppio della
Rivoluzione francese fino all’apogeo del regime bonapartista,
Alfieri è l’emblema del rivoluzionario, giacobino ante litteram.
Per gli uomini del Risorgimento, è soprattutto il profeta della
nazione libera dal dominio straniero: un’immagine condivisa dai
laici liberali (Francesco De Sanctis su tutti), dai laici democratici
(il giovane Mazzini e il giovane Carducci), dai cattolici liberali
(come Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti). Ma dall’Unità sino alla
fine dell’Ottocento, la figura di Alfieri vede smussati i tratti
radicali e repubblicani: un’operazione troppo artificiosa, che
Emilio Bertana smonterà senza tema di smentita.
Il primo Novecento,
quindi, si apre all’insegna della svalutazione dell’Alfieri
politico: è così per Benedetto Croce, che pure apprezza il poeta e
il moralista; è così per il socialista Umberto Calosso, che
denuncia un anarchismo di fondo. Sarà Piero Gobetti a rilanciare
l’immagine di Alfieri come filosofo politico, stella polare del suo
liberalismo volontaristico, rivoluzionario. Ma nei primi tre decenni
della Repubblica le culture cattolica, marxista e neo-illuminista
schiacceranno l’eredità alfieriana (come pure, del resto, quella
gobettiana).
Finisce il gioco di
specchi. Col risultato di leggere meglio Alfieri, e peggio l’Italia
La repubblica – 22
gennaio 2018