TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 2 ottobre 2017

3. Karl Korsch e la rivoluzione tedesca (1919-1920)



Qualche anno fa, uscì per la la Colibrì di Milano, Il "rinnegato" Korsch. Storia di un'eresia comunista, prima (e ci risulta ancora unica) biografia italiana del filosofo e esponente del comunismo dei consigli tedesco. Il libro andò subito esaurito e non è stato più ristampato. In attesa di una possibile riedizione aggiornata del libro, ne riproniamo il contenuto. Oggi presentiamo il secondo capitolo relativo alla prima definizione di una teoria dei consigli operai.

Giorgio Amico

Karl Korsch. Il periodo consiliare (1919-1920)

Come abbiamo visto agli inizi del 1919 in Germania tutte le organizzazioni politiche che si richiamano al socialismo, indipendentemente dalle loro divergenze rivendicano la nazionalizzazione delle imprese. Le differenze si evidenziano semmai sul piano del metodo, i socialdemocratici ribadendo la scelta della democrazia parlamentare come terreno privilegiato d’azione e i comunisti insistendo invece sulla necessità di una rottura violenta degli assetti istituzionali borghesi come preludio all’instaurazione di una dittatura proletaria sul modello russo. Quanto agli indipendenti, essi, lacerati da aspri contrasti interni, oscillano fra le due posizioni. In questo contesto si colloca il primo contributo teorico di un certo respiro di Korsch. Con un lungo articolo su Che cos’è la socializzazione? Un programma di socialismo pratico, pubblicato sotto forma di opuscolo nel marzo 1919 dalle edizioni Freies Deutschlands, egli, che della corrente del socialismo pratico è uno dei principali esponenti, cerca di fare il punto sul dibattito in corso, definendo con chiarezza ambiti e modalità della socializzazione. Egli procede da una critica da sinistra alle posizione ultrariformiste di chi come Bernstein di fatto tende ad equiparare “politica sociale” e “socializzazione” o, come Kautsky, pensa che la socializzazione possa limitarsi ad una partecipazione dei proletari agli utili dell’impresa.

“In sostanza –scrive- si potrebbe socializzare sottraendo i mezzi di produzione all’ambito di potere del singolo capitalista (espropriazione) e subordinandoli all’ambito di potere di pubblici funzionari (nazionalizzazione, municipalizzazione e altre forme da trattare). Si potrebbe anche socializzare senza ricorrere all’espropriazione dei proprietari, trasformando interiormente il contenuto della proprietà privata dei mezzi di produzione, trattando sempre più la produzione […] come una questione di diritto pubblico la cui regolamentazione non spetta più esclusivamente al proprietario di diritto privato sulla base del suo proprio diritto, ma spetta invece, oltre che a lui, anche a determinati organismi di diritto pubblico: alle associazioni articolate settorialmente e territorialmente degli operai, degli imprenditori e degli operai e degli imprenditori associati (comunità di lavoro, camere del lavoro)”. 1

Egli ha buon gioco a dimostrare come in realtà questo modo di concepire il superamento della proprietà privata non solo non vada oltre l’aspetto meramente giuridico del problema, rendendone così impossibile la soluzione, ma addirittura si collochi nella linea di sviluppo della stessa società borghese, dove i diritti di proprietà del singolo sono stati via via limitati da disposizioni e divieti di carattere giuridico pubblico. Vincoli pensati nell’interesse della “collettività”, cioè del capitale inteso come totalità, da uno Stato che interviene sempre più decisamente nel controllo della vita economica. Ciò che occorre, insiste Korsch, è “un salto e una svolta radicale” di contro ad una visione meramente evoluzionistica del cambiamento che non tocca il cuore del problema, cioè l’organizzazione capitalistica del lavoro nel suo insieme. Ma se la socializzazione che si limita alla semplice statizzazione delle imprese di fatto non fa che generare “una nuova forma di capitalismo”, il capitalismo di stato in cui “il proprietario capitalistico privato viene sostituito dai funzionari dello stato” mentre l’operaio “rimane invece operaio salariato com’era in precedenza”, 2 allora cosa si deve fare per garantire una reale transizione al socialismo? Per i “socialisti pratici” la soluzione consiste in una radicale trasformazione interna del concetto stesso di proprietà, cioè nella

“totale subordinazione di ogni proprietà particolare al punto di vista dell’interesse comune della collettività […] solo in questo modo l’evoluzione dei rapporti sociali di produzione procede dalla ‘proprietà privata’ di singole persone, attraverso la ‘proprietà particolare’ di singole parti della società, alla ‘proprietà collettiva’ dell’intera società”. 3

Korsch chiama questo processo “autonomia industriale” e ne spiega così le modalità di funzionamento:

“ L’autonomia industriale consiste nel fatto che in ogni industria a esercitare il potere sul processo di produzione, invece del tradizionale proprietario privato o del direttore da lui prescelto, sono chiamati i rappresentanti di tutti coloro che partecipano attivamente alla produzione; in pari tempo le limitazioni della proprietà già imposte alla proprietà capitalistica privata dei mezzi di produzione dalla ‘politica sociale’ dello stato, vengono ulteriormente sviluppate fino a divenire un’effettiva proprietà superiore della collettività”. 4


Come si vede, quella dell’autonomia industriale è una formulazione ancora ambigua che, se ha il pregio di porre l’accento sul ruolo autonomo dei produttori, non sa andare oltre il tema democratico della partecipazione per affrontare quello autenticamente socialista del controllo operaio. Korsch mostra in questo suo primo tentativo teorico ancora una grande fragilità politica. Egli imposta il problema in termini corretti, ma si dimostra ancora incapace di trovare una soluzione, prigioniero di una visione esclusivamente giuridica della realtà. I rapporti di forza fra le classi sociali non sono minimamente presi in considerazione, quasi che la situazione, certamente molto complessa, sia destinata ad evolvere positivamente in modo quasi spontaneo, indipendentemente dalla coscienza e dall’azione degli uomini. Pur criticando duramente le illusioni riformistiche della socialdemocrazia, egli pare ancora in qualche modo pensare ad una progressiva evoluzione dalla socializzazione (nazionalizzazione) dei mezzi di produzione alla emancipazione del lavoro, realizzabile nell’ambito dello stato borghese, quasi come prosecuzione naturale della politica sociale delle sinistre. Non escludendo a questo scopo nessuna delle diverse vie praticabili legalmente all’interno del sistema capitalistico:

“Per il conseguimento di questi fini, quindi per la realizzazione di una vera economia collettivistica – scrive in conclusione del suo saggio – […] si possono seguire diverse vie. […] in primo luogo l’azione politica per l’attuazione della socializzazione di singoli rami della produzione attraverso la legislazione statale e le ordinanze comunali, in secondo luogo la stimolante partecipazione agli sforzi di tipo cooperativo messi in opera senza costrizione seguendo la via della libera concorrenza, in terzo luogo anche l’azione di politica economica della classe operaia che si propone di favorire la trasformazione interna della proprietà privata capitalistica con la conclusione di contratti collettivi e con l’imposizione del riconoscimento contrattuale dei diritti di codecisione delle associazioni operaie e delle rappresentanze operaie elette nelle singole aziende”. 5

Impacciato da una visione ancora molto accademica dei problemi economici, Korsch espone qui una versione radicale del cosiddetto modello “combinatorio”, una concezione della socializzazione sostenuta soprattutto dagli austromarxisti Max Adler e Otto Bauer 6 che prevede una reciprocatra programmazione dall’alto e controllo dal basso da parte dei consigli dei produttori e dei rappresentanti dei consumatori. Un modello che gode in quel momento grande fortuna fra gli economisti socialisti, perché sembra armonizzare alla perfezione, senza salti bruschi e rotture, i vari interessi in gioco: quello dei produttori, quello dei consumatori, quello della collettività, quello delle imprese. In realtà, messo alla prova proprio nel caotico laboratorio sociale weimariano, questo modello rivelerà immediatamente la sua pressochè totale inefficacia pratica. Tradotto in termini concreti nella particolare situazione della Germania dei primi anni Venti dove gli interessi in gioco sono tanti e ferocemente in contrasto fra loro, il modello combinatorio determina la costituzione di una miriade di commissioni miste che a tutti i livelli tentano l’impossibile: armonizzare fra loro interessi inconciliabili. Il tutto in un crescendo di chiacchere, di sterili deliberazioni, di proclami e di prese di posizione che evitano accuratamente la questione principale: come espropriare le aziende e con quale risorse farle funzionare. Questo essendo in effetti il vero nodo del problema che rimanda però immediatamente alla questione di fondo del potere politico. 

Chi nella Germania del 1919 esercita realmente il potere e nell’interesse di quale classe? E soprattutto: con quali strumenti? Il pensiero politico borghese aveva chiarito fin dai suoi primordi il destino tragico che attende i “profeti disarmati”. 7 Korsch non pare essere consapevole di questa contraddizione. Pur essendo fortemente affascinato dall’esperienza della rivoluzione russa e attratto dalle posizioni degli Spartachisti, egli continua a non vedere la centralità del tema della rottura rivoluzionaria da preparare con un lavoro concreto e sistematico di organizzazione e coordinamento delle lotte operaie. Influenzato dal suo passato fabiano, egli imposta la questione in modo fortemente idealistico. Quasi che, per usare le sue parole, una “instancabile attività educativa svolta in direzione della generazione che sta crescendo” 8 sia in grado di per se di rappresentare la soluzione adeguata al problema, drammatico nella sua evidenza, della mancanza di una chiara coscienza degli obiettivi strategici di classe da parte delle masse proletarie ancora in larga parte inquadrate e dirette dalla socialdemocrazia. Sfugge sostanzialmente a Korsch quello che invece fin dall’inizio era apparso chiaro al leader spartachista Karl Liebknecht: la vittoria delle masse operaie e dei soldati nel novembre 1918 non era ascrivibile tanto alla forza della loro offensiva quanto al crollo interno della Germania imperiale. 

La rivoluzione vera era ancora da fare e le forze disponibili tragicamente inadeguate. La forma politica stessa assunta dalla rivoluzione democratica, un’effimera repubblica dei consigli degli operai e dei soldati, mostra fin dall’inizio tutti i suoi limiti. Non essendo tanto il frutto dell’azione cosciente delle masse quanto la risultante dell’implosione del precedente sistema e della ritirata spontanea delle classi dominanti che – ha scritto uno storico illustre - “desiderose di sottrarsi ad ogni responsabilità, lasciano con un sospiro di sollievo al proletariato il compito di liquidare la loro bancarotta, sperando in questo modo di sfuggire alla rivoluzione sociale i cui sintomi premonitori procuravano loro momenti di vera angoscia” 9 Una situazione destinata a durare in un frenetico alternarsi di accelerazioni rivoluzionarie e di bruschi salti indietro per quattro lunghi anni fino alla definitiva stabilizzazione moderata della fine del 1923. Una situazione rivoluzionaria per mille versi simile alla realtà del febbraio 1917 in Russia, incapace però a differenza di questa di trovare la via del suo “Ottobre”. 10



Korsch, Gramsci e i consigli operai

Spinto dallo stesso rapido precipitare della situazione politica e sociale tedesca che non si può di certo considerare normalizzata con la repressione del moto spartachista del gennaio e l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, ma anche dal suo crescente identificarsi con la contemporanea
esperienza sovietica del comunismo di guerra, Korsch non si attarderà su queste posizioni. Già pochi mesi più tardi il modello combinatorio è abbandonato e la soluzione della contraddizione fra statizzazione e socializzazione, fra “controllo dall’alto” e “controllo dal basso” viene individuata nel pieno dispiegamento di un “sistema consiliare” dove le decisioni sui processi lavorativi vengono prese dalla “democrazia operaia sovrana” nelle

“assemblee aziendali che si tengono in ogni fabbrica e nel sistema dei consigli degli operai dell’industria strutturati dal basso verso l’alto […] In tal modo, attraverso l’indispensabile liberazione degli uomini attivi nella produzione, ci si assicura di non recare alcun danno alle leggi economiche della forma di produzione più moderna e fruttuosa. La macchina però, e con essa l’intero meccanismo vitale del lavoro e della sua organizzazione, deve cessare di schiavizzare l’uomo. Gli uomini che svolgono la loro funzione all’interno del meccanismo fondato sulle macchine non devono essere strumenti privi di volontà, ma devono invece poter affermare la loro umanità attraverso la viva coscienza del fatto che, pur servendo individualmente chi controlla il meccanismo complessivo come se fossero suoi ingranaggi, nella loro totalità sono padroni del meccanismo e di chi lo guida. Questa è la democrazia industriale, questa è la reale proprietà collettiva sui mezzi di produzione e quindi il vero socialismo”. 11

Solo così i proletari possono realmente affermare il loro potere. Solo in questo modo il lavoro umano perde il suo carattere di merce per diventare libera attività di una collettività di produttori democraticamente organizzata. Per Korsch, dunque, nonostante i limiti evidenziati, di cui come vedremo egli inizia peraltro ad essere cosciente, il movimento consiliare segna il momento definitivo di passaggio dalla vecchia concezione del socialismo, legalitaria e verticistica, tipica della socialdemocrazia tedesca dei Bernstein e dei Kautsky, ad una nuova visione del socialismo. Un socialismo “dal basso”, operaio e militante, il cui significato e le cui finalità egli cerca ora di definire nelle sue linee essenziali, delineando così una concezione della transizione rivoluzionaria che per molti aspetti appare assai vicina a quella che nello stesso periodo Gramsci sta sviluppando in Italia. 12

“ […] nella coscienza di vasti strati della classe operaia – scrive ad esempio nella primavera del 1919- la vecchia teoria socialista che dapprima si proponeva di conquistare il ‘potere politico’ nello stato attraverso la scheda elettorale, per poi decretare il ‘passaggio dei mezzi di produzione alla collettività’ attraverso mezzi legali, cioè in sostanza attraverso la nazionalizzazione e la municipalizzazione, è stata vieppiù soppiantata da una tutt’altra concezione della natura della ‘socializzazione’ richiesta dal socialismo moderno. Si può affermare che oggi un piano di socializzazione, comunque si presenti, non verrà accettato come realizzazione soddisfacente dell’idea della socializzazione se nell’una o nell’altra forma non tiene conto in larga misura dell’idea della ‘democrazia industriale’, dunque dell’idea del controllo e dell’amministrazione diretta in ogni ramo dell’industria, se non addirittura in ogni singola azienda, da parte della collettività di coloro che partecipano attivamente all’idea produttiva dell’azienda e da parte degli organi che essa si è scelta. Se oggi si rivendica la ‘socializzazione’, dietro questo termine non c’è più soltanto la richiesta generale e astratta del trasferimento dei mezzi di produzione nelle mani della collettività. La richiesta di socializzazione oggi si riassume piuttosto nella rivendicazione più concreta che tale trasferimento dei mezzi di produzione nelle mani della collettività abbia luogo in modo tale che ovunque la massa dei lavoratori partecipi direttamente e in misura determinante alla gestione delle aziende o, quanto meno al controllo di tale gestione”. 13



Come si è detto, accenti analoghi si ritrovano nella riflessione gramsciana a partire almeno dalla significativa esperienza dell’occupazione delle fabbriche dell’ottobre 1920, quando il gruppo torinese de l’Ordine Nuovo ha occasione di fare esperienza diretta della critica proletaria al capitale. Quando il comunismo non è più teoria, ma si trasforma in carne e sangue del movimento reale, pratica viva, quotidiana di una umanità determinata a non subire più passivamente il peso dello stato di cose esistente. Come Korsch, anche Gramsci vede nell’autonoma azione delle masse proletarie il segno di un radicale superamento della vecchia logica, gradualista e riformista, dei gruppi dirigenti, politici e sindacali, del movimento operaio. L’azione di classe sempre impulsata dall’alto e dall’esterno della fabbrica, questa volta si è realizzata a partire dal basso. Posti di fronte ai compiti dell’ora, i proletari hanno saputo con chiaro senso di classe andare oltre le loro direzioni esitanti. Si tratta, Gramsci ne è sicuro, di un cambiamento di portata storica:

“Attività della classe operaia, iniziativa di produzione, di ordine interno, di difesa militare da parte della classe operaia! Le gerarchie sociali sono spezzate, i valori storici sono invertiti; le classi ‘esecutive’, le classi ‘strumentali’, sono divenute classi ‘dirigenti’, si sono poste a capo di se stesse, hanno trovato in se stesse gli uomini da investire del potere di governo, gli uomini che si assumono tutte le funzioni che di un aggregato elementare e meccanico fanno una compagine organica, fanno una creatura vivente […] Ciò che gli operai hanno fatto ha un’immensa portata storica, che deve essere compresa in tutta la sua pienezza dalla classe operaia”.14

Corretto nel respingere il “metodo delle facili assimilazioni”, Danilo Montaldi ci appare nello scritto dedicato a Korsch e polemicamente sottotitolato “Contro un facile spirito di assimilazione”, troppo sbrigativo nel suo fermo diniego che esista relazione tra Gramsci e Korsch. 15 Pur rifiutando con un certo fastidio l’etichetta di “bordighista”, 16 Montaldi sembra essere ancora eccessivamente condizionato dalla immagine riduttiva che del rivoluzionario sardo ha sempre dato la sinistra comunista italiana 17 quando, lo ripetiamo, un po’ troppo sbrigativamente scrive in polemica con Eugenio Garin che

“ le fragili spalle di Antonio Gramsci vengono via via caricate di strane attribuzioni, nella probabile intenzione di riscattarne la figura dalla fissa formula precedente nella quale era stata sopravvalutata e circoscritta la sua funzione di leader precursore della via nazionale, italiana, al socialismo.” 18
Decisamente più convincente ci pare a questo proposito essere l’opinione di chi ha visto nel “ritorno ad Hegel” e cioè nella rottura con il determinismo della Seconda Internazionale il filo comune che lega fra di loro pensatori marxisti, per altri versi assai differenti, come Korsch e Gramsci. Certo, nel caso di quest’ultimo va tenuto conto del peso che l’idealismo gentiliano e crociano ebbero nella formazione del suo pensiero. Tuttavia, l’attenzione costante al rapporto fra teoria e pratica e l’assoluta rilevanza data da entrambi alla rivalutazione del significato dell’ «ideologia» e di conseguenza del fattore «soggettivo», frutto anche dell’influsso profondo esercitato su di loro (e su Lukács) da Sorel, trova il suo naturale campo d’applicazione nello studio minuzioso che Korsch e Gramsci compiono della prassi direttamente rivoluzionaria del movimento dei consigli ad Amburgo come a Torino. 19

E’ un bilancio critico, che si interroga sul perché la classe operaia sia stata sconfitta. Un bilancio necessario, che non nega affatto, come scriverà anni più tardi Korsch a proposito della rivoluzione spagnola, le “incertezze e imprevidenze che sono umanamente presenti in ogni azione rivoluzionaria”, 20 ma che va fatto, se si vuole “servire la storia della rivoluzione” e cioè “impararare dalle azioni e dagli errori della storia passata la lezione per il futuro, le vie e i modi per la realizzazione dei fini della classe operaia rivoluzionaria”. 21

“Sono trascorsi sei anni – scrive Gramsci nel momento in cui più dura si fa sentire sulla classe operaia la morsa della controrivoluzione fascista, quando alla democrazia borghese si è ormai sostituita la dittatura aperta del capitale - dal settembre 1920. In questo frattempo molte cose sono cambiate in mezzo alle masse operaie che nel settembre 1920 occuparono le fabbriche dell’industria metallurgica […] Tuttavia l’occupazione delle fabbriche non è stata dimenticata […] Essa è stata la prova generale della classe rivoluzionaria italiana la quale, come classe, ha dimostrato di essere matura, di essere capace di iniziativa, di possedere una inestimabile ricchezza di energie creative e
organizzative”. 22

Tre sono per Gramsci gli aspetti “positivi” dell’uccupazione delle fabbriche: 1) La capacità di autogoverno della classe operaia; 2) la capacità della massa operaia di mantenere e superare il livello di produzione capitalistico; 3) la capacità illimitata mostrata dalle masse lavoratrici nel fuoco della lotta di saper assumere l’iniziativa e di rispondere creativamente ai problemi posti dalla gestione delle aziende. Ma ci sono anche gli aspetti negativi, I problemi irrisolti, i compiti a cui il proletariato non ha saputo fare fronte:

“Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all’altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l’immaturità delle masse; in realtà i dirigenti era immaturi e incapaci, non la classe”. 23

Sono i problemi che si pone Korsch. Capire perché il movimento non ha raggiunto i suoi obiettivi, dove e perché si è sbagliato. Per quali motivi, nonostante le speranze suscitate, il potere dei consigli si è ridotto nelle realtà in cui ancora in qualche modo funziona ad una sorta di consiliarismo “municipale”. Malinconico simulacro di una “democrazia operaia” del tutto priva di poteri e di mezzi. La risposta non è molto diversa da quella di Gramsci. Lasciati soli, dal partito socialista e dai sindacati, ai consigli

“mancò quasi del tutto una giusta conoscenza tanto delle basi organizzative quanto anche dei compiti essenziali che un sistema consiliare rivoluzionario ha da svolgere … I consigli ‘sovrani’ si accontentarono spesso o per lo più di un controllo assolutamente inefficace, mentre avrebbero dovuto avvalersi del pieno potere legislativo, esecutivo e giudiziario. A causa di tale autolimitazione non solo fu preparato il terreno per la successiva soppressione e messa in disparte dei consigli ad opera dei ricostituiti organi democratici del potere statale ma furono anche lasciate persistere una gran parte delle autorità prerivoluzionarie…”. 24

Sbaglierebbe, tuttavia, chi, fermandosi ad una lettura superficiale di questo passo, pensasse ad una visione riduttiva e svalutante della rivoluzione del 1919. Korsch ha ormai ben chiaro come il problema non sia nè quello della maturità rivoluzionaria della classe operaia, né tantomeno quello della validità del sistema consiliare in se, quanto quello della direzione politica dei consigli. Ma cosa fare, allora, per mettere i consigli in grado di svolgere pienamente il loro compito rivoluzionario ? Proprio riflettendo su questo interrogativo Korsch compie un altro importante passo in avanti nella sua maturazione politica.



Consigli di fabbrica e partito di classe

La riflessione sull’esperienza consiliare occupa dunque un posto di primo piano nella produzione korskiana di questo periodo e trova una sua sistemazione definitiva nell’ampio studio teorico sulla Legislazione del lavoro per i consigli di fabbrica. L’opera, composta nel 1922 e pubblicata come opuscolo a Berlino nei primi mesi del 1923, si ricollega direttamente a Che cos’è la socializazione? e rappresenta il più alto livello di riflessione raggiunto da Korsch sul tema della democratizzazione radicale del processo di produzione.

Scritta per i consigli di fabbrica, l’opera si propone di fornire ai militanti operai d’avanguardia gli strumenti teorici fondamentali per poter compiutamente utilizzare in chiave rivoluzionaria gli spazi che la legge sui consigli di fabbrica e la legislazione sociale weimariana apre alle “rappresentanze aziendali”. Ciò è ancora più importante se si considera come per Korsch la crisi rivoluzionaria apertasi in Germania nel novembre 1918 non si sia ancora chiusa. Il paese attraversa una fase di transizione che sta rapidamente ponendo le premesse per il pieno dispiegamento della lotta decisiva tra la classe borghese e quella proletaria. In questo contesto, caratterizzato da un sostanziale equilibrio sociale in cui “due classi si confrontano senza che per il momento l’una possa pienamente predominare sull’altra o mantenere il suo predominio” , per Korsch i consigli rappresentano “l’avamposto più avanzato dell’esercito proletario”. Ma per poter assolvere tale compito i consigli debbono imparare a conoscere nel modo più preciso sia la propria “collocazione generale” all’interno della più complessiva organizzazione della società capitalistica, sia la propria “collocazione particolare” all’interno delle singole aziende.

“Solo allora – scrive Korsch- essi disporranno della strumentazione teorica necessaria ad assolvere appieno, sul terreno difensivo e su quello offensivo, i particolari compiti della lotta di classe che i loro compagni di classe hanno consegnato nelle loro mani. Sul terreno difensivo, in quanto non cedono un palmo della posizione di volta in volta conquistata, senza lottare. Sul terreno offensivo, in quanto da ogni posizione conquistata si spingono instancabilmente in avanti, finchè insieme alla massa dei compagni che si battono con loro hanno infine realmente espugnato la fortezza nemica”. 25

Essenziale è rompere con chi come la Fabian Society in Inghilterra o il “grande inquisitore dell’ortodossia del marxismo volgare” Karl Kautsky in Germania ritengono che la “democrazia industriale” possa compiutamente realizzarsi anche senza il “rovesciamento violento delle istituzioni statali democratico-borghesi esistenti”. Tutti costoro sostengono che la ‘questione sociale’ può trovare soluzione all’interno dell’ordinamento sociale capitalistico, dimostrando un’incompresione totale della stessa dinamica storica della democrazia borghese per cui:

“[…] il motivo determinante di ogni politica sociale fin qui praticata […] nell’insieme è sempre stato soltanto la pressione di classe del proletariato. Solo con estrema lentezza e a malincuore la classe borghese dominante, esposta alla pressione sempre più forte dell’esercito dei suoi schiavi salariati, ha fatto di volta in volta quel minimo di concessioni che non poteva più negargli senza esporsi a gravi rischi”. 26

Concessioni parziali e soprattutto temporanee, destinate ad essere revocate col cambiare dei rapporti di forza tra le classi, come la stessa tragica parabola della repubblica di Weimar dimostrerà di lì a pochi anni:

“Tutti questi diritti di compartecipazione trovano però il loro limite invalicabile nella società di classe capitalistica e nello stato della classe borghese; essi non possono essere sviluppati oltre il limite tollerato dagli interessi di profitto della società capitalistica. Se gli operai non comprendono che con tali diritti essi si sono conquistati soltanto dei punti d’appoggio per la preparazione dello scontro finale, tutti questi cosiddetti diritti di compartecipazione finiscono col fungere soltanto da paravento, un paravento dietri il quale la dittatura capitalista sulla ‘comunità del lavoro’ potrà nascondersi ancora, finchè un giorno le condizioni oggettive stesse costringeranno i capitalisti a toglierlo di mezzo e ad applicare senza veli la loro dittatura di classe”. 27

Proprio per dare più forza alle sue argomentazioni Korsch ricostruisce nel suo studio l’evoluzione storica dei diritti di compartecipazione degli operai considerati da ogni possibile angolazione: come cittadini, come venditori della merce forza-lavoro, come elementi del processo sociale di lavoro considerato nel suo insieme. Se in questo processo i consigli di fabbrica erano stati considerati un mero ‘organo ausiliario’ dei sindacati nella loro lotta per la difesa delle condizioni di vita dei lavoratori, oggi la loro natura è radicalmente mutata e:

“ […] il movimento dei consigli non appare più come una semplice azione preparatoria della futura battaglia decisiva della rivoluzione sociale, ma come il reale e definitivo inizio della stessa”. 28

A condizione, naturalmente, che gli operai, coscienti del loro ruolo, sappiano allontanare dalle posizioni dirigenti i ‘ rinnegati della lotta di classe’ e aprire una fase di lotta del tutto nuova. Proprio perché in Occidente ciò non è ancora avvenuto:

“[…] il movimento dei consigli esploso nell’una o nell’altra forma nell’ultima fase del periodo bellico e nell’immediato dopoguerra come movimento spontaneo di massa in quasi tutti i paesi si è arenato nella sua fase iniziale –con la sola eccezione della Russia sovietica- e infine è stato quasi ovunque completamente represso nel periodo di reazione iniziato attorno alla metà del 1919”. 29


L’opuscolo di Korsch riprende e approfondisce l’analisi che a poco più di un anno dal novembre 1918 egli aveva tentato del perché, nonostante il precipitare delle condizioni oggettive, la rivoluzione si fosse fermata agli inizi del suo svolgersi per poi ripiegare su se stessa e rifluire. Attento a non cadere in una visione piattamente soggettivistica dei processi sociali, Korsch si sofferma, più che sull’esitazione e la viltà dei gruppi dirigenti socialdemocratici che pure come abbiamo visto c’erano state e avevano pesantemente condizionato l’evolversi dei rapporti di forza tra le classi, sui balbettamenti di una teoria socialista incapace di realizzazione pratica:

“ Non si può quindi ricondurre a una casualità puramente esteriore il fatto che nei mesi decisivi succeduti a Novembre 1918, quando l’organizzazione del potere politico della borghesia aveva cessato di esistere ed esteriormente nulla impediva più la transizione dal capitalismo al socialismo, la grande ora sia in un primo tempo trascorsa senza che si cogliesse l’occasione; mancavano infatti in larga misura le premesse psicologico-sociali che avrebbero permesso di coglierla: nessuno nutriva una fiducia decisa, capace di trascinare le masse […] congiunta con la chiara comprensione dei passi preliminari da compiere. […] Oltre a questi fattori più esterni, fu però anche l’arretratezza […] della teoria socialista rispetto a tutti i problemi di realizzazione pratica a far si che il ‘grido per la socializzazione’, levatosi due o tre volte, a gran voce, nel corso dell’anno tra le masse e ascoltato con paura e tremore nel campo della classe borghese e del suo esercito di funzionari, non abbia dato luogo al benchè minimo effetto pratico…”. 30

Di fronte all’evidente bancarotta delle organizzazioni tradizionali, politiche e sindacali, della classe operaia, per Korsch, come per Gramsci, come per larga parte della generazione rivoluzionaria formatasi nell’incandescente biennio post-bellico l’interrogativo diventa ormai come conciliare l’azione spontanea e cosciente delle masse proletarie a livello della fabbrica con la sua necessaria efficacia politica a livello dell’intera società. Ma affrontare quelli che Gramsci chiama con espressione ancora imprecisa “ i grandi problemi nazionali e internazionali” rimanda immediatamente al problema del potere e della rottura rivoluzionaria. Lo Stato borghese, strumento diretto del dominio del capitale sulla società e sul proletariato, non può essere conquistato e utilizzato, ma deve essere radicalmente distrutto. E’ il succo dell’esperienza della Comune parigina riproposto ad un livello incommensurabilmente più alto dall’intero processo rivoluzionario apertosi in Europa con l’Ottobre.

Come Gramsci, Korsch brucia rapidamente in una situazione che sta rapidamente mutando a favore delle fazioni più aggressive e violente della borghesia l’intera sua esperienza consiliare per approdare ad una visione del partito leninista come unico strumento capace di assicurare quella determinazione rivoluzionaria, così carica di giacobina spietatezza, che le altre correnti socialiste avevano tanto tragicamente dimostrato di non possedere in Germania come in Italia. Nelle tempeste d’acciaio dei primi anni Venti l’adesione al bolscevismo assume così le caratteristiche di passaggio obbligato per un’intera generazione di quadri rivoluzionari che in tutta Europa lo affronterà con giovanile baldanza, inconsapevole dei rischi che esso comporta. Primo fra tutti di mitizzare l’esperienza bolscevica, di cui non si riesce nel fuoco dell’azione a comprendere la complessità e le contraddizioni, al fine di ricavarne una concezione della costruzione e del ruolo dirigente del partito destinata a divenire sotto il nome di “leninismo” la vulgata ufficiale della Terza Internazionale. E questo contribuisce a spiegare perché, come vedremo, negli anni successivi la “bolscevizzazione” dei giovani partiti comunisti incontri dappertutto così pochi ostacoli e come, nel caso italiano e tedesco, proprio, marxisti critici, come Gramsci e Korsch ne siano almeno inizialmente fra i primi, più entusiasti, sostenitori. 31

1 K. KORSCH, Che cos’è la socializzazione?. In Consigli…, cit., pp. 9-10.
2 Ivi, p. 14 e sgg.
3 Ivi p. 25
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 36.
6 Cfr. a questo proposito G. MARRAMAO, Tra bolscevismo e socialdemocrazia: Otto Bauer, in AA.VV., Storia del marxismo, vol. III.1, Einaudi, Torino, 1980, pp. 266 e sgg. Per una conoscenza più approfondita delle posizioni degli austromarxisti cfr. N. LESER, Teoria e prassi dell’austromarxismo, Mondo Operaio, Roma 1979; G. MARRAMAO, Austromarxismo e socialismo di sinistra fra le due guerre, La Pietra, Milano 1977; A. MOSCATO, La “terza via” dell’austromarxismo. Introduzione a R. ROSDOLSKY, Socialdemocrazia e tattica rivoluzionaria, Celuc, Milano 1979.
7 “È necessario, pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi, o se dependano da altri; cioè, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, ovvero possono forzare. Nel primo caso capitano sempre male, e non conducano cosa alcuna; ma, quando dependono da loro proprii e possono forzare, allora è che rare volte periclitano. Di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono. Perché, oltre alle cose dette, la natura de’ populi è varia; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che, quando e’ non credono più, si possa fare loro credere per forza.” (N. MACHIAVELLI, Il Principe, Rizzoli, Milano 1950, p. 34)
8 K. KORSCH, Consigli di fabbrica…, cit., p. 37.
9 Cfr. G. BADIA, Il movimento spartachista, Samonà e Savelli, Roma 1970, p. 157.
10 Per una dettagliata ricostruzione della rivoluzione di febbraio cfr. M. FERRO, La rivoluzione del 1917, Sansoni, Firenze 1974. Per una descrizione “giorno per giorno” della trascrescenza della rivoluzione russa da “democratica” a “socialista” cfr. i classici N. SUCHANOV,Cronache della rivoluzione russa, Editori Riuniti, Roma 1967 e L. TROTSKY, Storia della rivoluzione russa, Mondadori, Milano 1969. Una ricostruzione controcorrente dell’ascesa bolscevica a partire dall’osservatorio privilegiato di Pietrogrado si può trovare in A. RABINOWITCH, I bolscevichi al potere, Feltrinelli, Milano 1978.
11 K. KORSCH, Il programma di socializzazione socialista e quello sindacalista. In Consigli…, cit., pp. 60-61.
12 Sui rapporti fra Karl Korsch e Antonio Gramsci si può vedere fra gli altri: M.L. SALVADORI, Gramsci e il problema storico della democrazia, Einaudi, Torino 1973 (II ed.) e C. RIECHERS, Gramsci e le ideologie del suo tempo, Graphos, Genova 1993, pp.117-126.
13 K. KORSCH, Il programma di socializzazione…, cit., pp. 58-59.
14 A. GRAMSCI, Domenica rossa. In L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1975 (VI ed.), pp. 161-162.
15 D. MONTALDI, Korsch e i comunisti italiani, Savelli, Roma 1975.
16 “Non sono mai stato bordighista (se va avanti così, dovrò fare degli annunci sui maggiori giornali nazionali)...”. Ivi, p. 44. Per una conoscenza della vita e dell’opera di Montaldi cfr., oltre alla bella antologia pubblicata negli anni ‘90 dalla Cooperativa Colibrì (D. MONTALDI, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, Colibrì, Milano 1994), cfr. L. PARENTE (a cura di), Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, La Città del Sole, Napoli 1998 e A. MANGANO, L’altra linea. Fortini, Bosio, Montaldi e Panzieri e la nuova sinistra, Pullano, Catanzaro 1992.
17 Per una interpretazione “bordighista” di Gramsci è di grande interesse l’ormai “classica” antologia curata da A. PEREGALLI, Il comunismo di sinistra e Gramsci, Dedalo, Bari 1978. Un giudizio drasticamente negativo, anche se improntato a grande rispetto umano, di Gramsci come pensatore marxista è rintracciabile in O. DAMEN, Gramsci tra marxismo e idealismo, Edizioni Prometeo, Milano 1988.
18 D. MONTALDI, cit., p. 11.
19 Per un’interessante disamina critica del “soggettivismo” gramsciano, cfr. M.L. SALVADORI, Storia del pensiero comunista, cit., pp. 495-498.
20 K. KORSCH, Scritti politici, 2, cit., p. 289.
21 Ivi, p. 291-92.
22 A. GRAMSCI, Ancora delle capacità organiche della classe operaia. In La costruzione del partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1978 (V ed.), pp. 344-345.
23 Ivi, pp. 347-348.
24 K. KORSCH, Mutamenti del problema dei consigli politici operai in Germania. In Scritti politici, 1, cit., pp. 19-20.
25 K. KORSCH, Legislazione del lavoro per i consigli di fabbrica. In Consigli…, cit., p.243.
26 Ivi, p. 148.
27 Ivi, pp. 145-146.
28 Ivi, p. 208.
29 Ivi, p. 211.
30 K. KORSCH, Questioni fondamentali connesse con la socializzazione. In Consigli…, cit., pp. 84-85.
31 Sul rapporto fra Gramsci, Bordiga e la bolscevizzazione del Partito Comunista d’Italia rimandiamo al nostro Gramsci e Bordiga alle origini del comunismo italiano (1917-1926), CEDOC, Savona 1998 e alla raccolta di documenti Il partito decapitato, Edizioni L’Internazionale, Milano 1988. Per una visione “trotskista” del problema può essere utile la lettura di L. MAITAN, Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci, Nuove Edizioni Internazionali, Milano 1997.