Qualche anno fa, uscì
per la la Colibrì di Milano, Il "rinnegato" Korsch. Storia
di un'eresia comunista, prima (e ci risulta ancora unica) biografia
italiana del filosofo e esponente del comunismo dei consigli tedesco.
Il libro andò subito esaurito e non è stato più ristampato. In
attesa di una possibile riedizione aggiornata del libro, ne
riproniamo il contenuto. Oggi presentiamo il secondo capitolo
relativo alla prima definizione di una teoria dei consigli operai.
Giorgio Amico
Karl Korsch. Il
periodo consiliare (1919-1920)
Come abbiamo visto agli
inizi del 1919 in Germania tutte le organizzazioni politiche che si
richiamano al socialismo, indipendentemente dalle loro divergenze
rivendicano la nazionalizzazione delle imprese. Le differenze si
evidenziano semmai sul piano del metodo, i socialdemocratici
ribadendo la scelta della democrazia parlamentare come terreno
privilegiato d’azione e i comunisti insistendo invece sulla
necessità di una rottura violenta degli assetti istituzionali
borghesi come preludio all’instaurazione di una dittatura
proletaria sul modello russo. Quanto agli indipendenti, essi,
lacerati da aspri contrasti interni, oscillano fra le due posizioni.
In questo contesto si colloca il primo contributo teorico di un certo
respiro di Korsch. Con un lungo articolo su Che cos’è la
socializzazione? Un programma di socialismo pratico, pubblicato sotto
forma di opuscolo nel marzo 1919 dalle edizioni Freies Deutschlands,
egli, che della corrente del socialismo pratico è uno dei principali
esponenti, cerca di fare il punto sul dibattito in corso, definendo
con chiarezza ambiti e modalità della socializzazione. Egli procede
da una critica da sinistra alle posizione ultrariformiste di chi come
Bernstein di fatto tende ad equiparare “politica sociale” e
“socializzazione” o, come Kautsky, pensa che la socializzazione
possa limitarsi ad una partecipazione dei proletari agli utili
dell’impresa.
“In sostanza –scrive-
si potrebbe socializzare sottraendo i mezzi di produzione all’ambito
di potere del singolo capitalista (espropriazione) e subordinandoli
all’ambito di potere di pubblici funzionari (nazionalizzazione,
municipalizzazione e altre forme da trattare). Si potrebbe anche
socializzare senza ricorrere all’espropriazione dei proprietari,
trasformando interiormente il contenuto della proprietà privata dei
mezzi di produzione, trattando sempre più la produzione […] come
una questione di diritto pubblico la cui regolamentazione non spetta
più esclusivamente al proprietario di diritto privato sulla base del
suo proprio diritto, ma spetta invece, oltre che a lui, anche a
determinati organismi di diritto pubblico: alle associazioni
articolate settorialmente e territorialmente degli operai, degli
imprenditori e degli operai e degli imprenditori associati (comunità
di lavoro, camere del lavoro)”. 1
Egli ha buon gioco a
dimostrare come in realtà questo modo di concepire il superamento
della proprietà privata non solo non vada oltre l’aspetto
meramente giuridico del problema, rendendone così impossibile la
soluzione, ma addirittura si collochi nella linea di sviluppo della
stessa società borghese, dove i diritti di proprietà del singolo
sono stati via via limitati da disposizioni e divieti di carattere
giuridico pubblico. Vincoli pensati nell’interesse della
“collettività”, cioè del capitale inteso come totalità, da uno
Stato che interviene sempre più decisamente nel controllo della vita
economica. Ciò che occorre, insiste Korsch, è “un salto e una
svolta radicale” di contro ad una visione meramente evoluzionistica
del cambiamento che non tocca il cuore del problema, cioè
l’organizzazione capitalistica del lavoro nel suo insieme. Ma se la
socializzazione che si limita alla semplice statizzazione delle
imprese di fatto non fa che generare “una nuova forma di
capitalismo”, il capitalismo di stato in cui “il proprietario
capitalistico privato viene sostituito dai funzionari dello stato”
mentre l’operaio “rimane invece operaio salariato com’era in
precedenza”, 2 allora cosa si deve fare per garantire una reale
transizione al socialismo? Per i “socialisti pratici” la
soluzione consiste in una radicale trasformazione interna del
concetto stesso di proprietà, cioè nella
“totale subordinazione
di ogni proprietà particolare al punto di vista dell’interesse
comune della collettività […] solo in questo modo l’evoluzione
dei rapporti sociali di produzione procede dalla ‘proprietà
privata’ di singole persone, attraverso la ‘proprietà
particolare’ di singole parti della società, alla ‘proprietà
collettiva’ dell’intera società”. 3
Korsch chiama questo
processo “autonomia industriale” e ne spiega così le modalità
di funzionamento:
“ L’autonomia
industriale consiste nel fatto che in ogni industria a esercitare il
potere sul processo di produzione, invece del tradizionale
proprietario privato o del direttore da lui prescelto, sono chiamati
i rappresentanti di tutti coloro che partecipano attivamente alla
produzione; in pari tempo le limitazioni della proprietà già
imposte alla proprietà capitalistica privata dei mezzi di produzione
dalla ‘politica sociale’ dello stato, vengono ulteriormente
sviluppate fino a divenire un’effettiva proprietà superiore della
collettività”. 4
Come si vede, quella
dell’autonomia industriale è una formulazione ancora ambigua che,
se ha il pregio di porre l’accento sul ruolo autonomo dei
produttori, non sa andare oltre il tema democratico della
partecipazione per affrontare quello autenticamente socialista del
controllo operaio. Korsch mostra in questo suo primo tentativo
teorico ancora una grande fragilità politica. Egli imposta il
problema in termini corretti, ma si dimostra ancora incapace di
trovare una soluzione, prigioniero di una visione esclusivamente
giuridica della realtà. I rapporti di forza fra le classi sociali
non sono minimamente presi in considerazione, quasi che la
situazione, certamente molto complessa, sia destinata ad evolvere
positivamente in modo quasi spontaneo, indipendentemente dalla
coscienza e dall’azione degli uomini. Pur criticando duramente le
illusioni riformistiche della socialdemocrazia, egli pare ancora in
qualche modo pensare ad una progressiva evoluzione dalla
socializzazione (nazionalizzazione) dei mezzi di produzione alla
emancipazione del lavoro, realizzabile nell’ambito dello stato
borghese, quasi come prosecuzione naturale della politica sociale
delle sinistre. Non escludendo a questo scopo nessuna delle diverse
vie praticabili legalmente all’interno del sistema capitalistico:
“Per il conseguimento
di questi fini, quindi per la realizzazione di una vera economia
collettivistica – scrive in conclusione del suo saggio – […] si
possono seguire diverse vie. […] in primo luogo l’azione politica
per l’attuazione della socializzazione di singoli rami della
produzione attraverso la legislazione statale e le ordinanze
comunali, in secondo luogo la stimolante partecipazione agli sforzi
di tipo cooperativo messi in opera senza costrizione seguendo la via
della libera concorrenza, in terzo luogo anche l’azione di politica
economica della classe operaia che si propone di favorire la
trasformazione interna della proprietà privata capitalistica con la
conclusione di contratti collettivi e con l’imposizione del
riconoscimento contrattuale dei diritti di codecisione delle
associazioni operaie e delle rappresentanze operaie elette nelle
singole aziende”. 5
Impacciato da una visione
ancora molto accademica dei problemi economici, Korsch espone qui una
versione radicale del cosiddetto modello “combinatorio”, una
concezione della socializzazione sostenuta soprattutto dagli
austromarxisti Max Adler e Otto Bauer 6 che prevede una reciprocatra
programmazione dall’alto e controllo dal basso da parte dei
consigli dei produttori e dei rappresentanti dei consumatori. Un
modello che gode in quel momento grande fortuna fra gli economisti
socialisti, perché sembra armonizzare alla perfezione, senza salti
bruschi e rotture, i vari interessi in gioco: quello dei produttori,
quello dei consumatori, quello della collettività, quello delle
imprese. In realtà, messo alla prova proprio nel caotico laboratorio
sociale weimariano, questo modello rivelerà immediatamente la sua
pressochè totale inefficacia pratica. Tradotto in termini concreti
nella particolare situazione della Germania dei primi anni Venti dove
gli interessi in gioco sono tanti e ferocemente in contrasto fra
loro, il modello combinatorio determina la costituzione di una
miriade di commissioni miste che a tutti i livelli tentano
l’impossibile: armonizzare fra loro interessi inconciliabili. Il
tutto in un crescendo di chiacchere, di sterili deliberazioni, di
proclami e di prese di posizione che evitano accuratamente la
questione principale: come espropriare le aziende e con quale risorse
farle funzionare. Questo essendo in effetti il vero nodo del problema
che rimanda però immediatamente alla questione di fondo del potere
politico.
Chi nella Germania del 1919 esercita realmente il potere e
nell’interesse di quale classe? E soprattutto: con quali strumenti?
Il pensiero politico borghese aveva chiarito fin dai suoi primordi il
destino tragico che attende i “profeti disarmati”. 7 Korsch non
pare essere consapevole di questa contraddizione. Pur essendo
fortemente affascinato dall’esperienza della rivoluzione russa e
attratto dalle posizioni degli Spartachisti, egli continua a non
vedere la centralità del tema della rottura rivoluzionaria da
preparare con un lavoro concreto e sistematico di organizzazione e
coordinamento delle lotte operaie. Influenzato dal suo passato
fabiano, egli imposta la questione in modo fortemente idealistico.
Quasi che, per usare le sue parole, una “instancabile attività
educativa svolta in direzione della generazione che sta crescendo”
8 sia in grado di per se di rappresentare la soluzione adeguata al
problema, drammatico nella sua evidenza, della mancanza di una
chiara coscienza degli obiettivi strategici di classe da parte delle
masse proletarie ancora in larga parte inquadrate e dirette dalla
socialdemocrazia. Sfugge sostanzialmente a Korsch quello che invece
fin dall’inizio era apparso chiaro al leader spartachista Karl
Liebknecht: la vittoria delle masse operaie e dei soldati nel
novembre 1918 non era ascrivibile tanto alla forza della loro
offensiva quanto al crollo interno della Germania imperiale.
La
rivoluzione vera era ancora da fare e le forze disponibili
tragicamente inadeguate. La forma politica stessa assunta dalla
rivoluzione democratica, un’effimera repubblica dei consigli degli
operai e dei soldati, mostra fin dall’inizio tutti i suoi limiti.
Non essendo tanto il frutto dell’azione cosciente delle masse
quanto la risultante dell’implosione del precedente sistema e della
ritirata spontanea delle classi dominanti che – ha scritto uno
storico illustre - “desiderose di sottrarsi ad ogni responsabilità,
lasciano con un sospiro di sollievo al proletariato il compito di
liquidare la loro bancarotta, sperando in questo modo di sfuggire
alla rivoluzione sociale i cui sintomi premonitori procuravano loro
momenti di vera angoscia” 9 Una situazione destinata a durare in un
frenetico alternarsi di accelerazioni rivoluzionarie e di bruschi
salti indietro per quattro lunghi anni fino alla definitiva
stabilizzazione moderata della fine del 1923. Una situazione
rivoluzionaria per mille versi simile alla realtà del febbraio 1917
in Russia, incapace però a differenza di questa di trovare la via
del suo “Ottobre”. 10
Korsch, Gramsci e i
consigli operai
Spinto dallo stesso
rapido precipitare della situazione politica e sociale tedesca che
non si può di certo considerare normalizzata con la repressione del
moto spartachista del gennaio e l’assassinio di Rosa Luxemburg e
Karl Liebknecht, ma anche dal suo crescente identificarsi con la
contemporanea
esperienza sovietica del
comunismo di guerra, Korsch non si attarderà su queste posizioni.
Già pochi mesi più tardi il modello combinatorio è abbandonato e
la soluzione della contraddizione fra statizzazione e
socializzazione, fra “controllo dall’alto” e “controllo dal
basso” viene individuata nel pieno dispiegamento di un “sistema
consiliare” dove le decisioni sui processi lavorativi vengono prese
dalla “democrazia operaia sovrana” nelle
“assemblee aziendali
che si tengono in ogni fabbrica e nel sistema dei consigli degli
operai dell’industria strutturati dal basso verso l’alto […] In
tal modo, attraverso l’indispensabile liberazione degli uomini
attivi nella produzione, ci si assicura di non recare alcun danno
alle leggi economiche della forma di produzione più moderna e
fruttuosa. La macchina però, e con essa l’intero meccanismo vitale
del lavoro e della sua organizzazione, deve cessare di schiavizzare
l’uomo. Gli uomini che svolgono la loro funzione all’interno del
meccanismo fondato sulle macchine non devono essere strumenti privi
di volontà, ma devono invece poter affermare la loro umanità
attraverso la viva coscienza del fatto che, pur servendo
individualmente chi controlla il meccanismo complessivo come se
fossero suoi ingranaggi, nella loro totalità sono padroni del
meccanismo e di chi lo guida. Questa è la democrazia industriale,
questa è la reale proprietà collettiva sui mezzi di produzione e
quindi il vero socialismo”. 11
Solo così i proletari
possono realmente affermare il loro potere. Solo in questo modo il
lavoro umano perde il suo carattere di merce per diventare libera
attività di una collettività di produttori democraticamente
organizzata. Per Korsch, dunque, nonostante i limiti evidenziati, di
cui come vedremo egli inizia peraltro ad essere cosciente, il
movimento consiliare segna il momento definitivo di passaggio dalla
vecchia concezione del socialismo, legalitaria e verticistica, tipica
della socialdemocrazia tedesca dei Bernstein e dei Kautsky, ad una
nuova visione del socialismo. Un socialismo “dal basso”, operaio
e militante, il cui significato e le cui finalità egli cerca ora di
definire nelle sue linee essenziali, delineando così una concezione
della transizione rivoluzionaria che per molti aspetti appare assai
vicina a quella che nello stesso periodo Gramsci sta sviluppando in
Italia. 12
“ […] nella coscienza
di vasti strati della classe operaia – scrive ad esempio nella
primavera del 1919- la vecchia teoria socialista che dapprima si
proponeva di conquistare il ‘potere politico’ nello stato
attraverso la scheda elettorale, per poi decretare il ‘passaggio
dei mezzi di produzione alla collettività’ attraverso mezzi
legali, cioè in sostanza attraverso la nazionalizzazione e la
municipalizzazione, è stata vieppiù soppiantata da una tutt’altra
concezione della natura della ‘socializzazione’ richiesta dal
socialismo moderno. Si può affermare che oggi un piano di
socializzazione, comunque si presenti, non verrà accettato come
realizzazione soddisfacente dell’idea della socializzazione se
nell’una o nell’altra forma non tiene conto in larga misura
dell’idea della ‘democrazia industriale’, dunque dell’idea
del controllo e dell’amministrazione diretta in ogni ramo
dell’industria, se non addirittura in ogni singola azienda, da
parte della collettività di coloro che partecipano attivamente
all’idea produttiva dell’azienda e da parte degli organi che essa
si è scelta. Se oggi si rivendica la ‘socializzazione’, dietro
questo termine non c’è più soltanto la richiesta generale e
astratta del trasferimento dei mezzi di produzione nelle mani della
collettività. La richiesta di socializzazione oggi si riassume
piuttosto nella rivendicazione più concreta che tale trasferimento
dei mezzi di produzione nelle mani della collettività abbia luogo in
modo tale che ovunque la massa dei lavoratori partecipi direttamente
e in misura determinante alla gestione delle aziende o, quanto meno
al controllo di tale gestione”. 13
Come si è detto, accenti
analoghi si ritrovano nella riflessione gramsciana a partire almeno
dalla significativa esperienza dell’occupazione delle fabbriche
dell’ottobre 1920, quando il gruppo torinese de l’Ordine Nuovo ha
occasione di fare esperienza diretta della critica proletaria al
capitale. Quando il comunismo non è più teoria, ma si trasforma in
carne e sangue del movimento reale, pratica viva, quotidiana di una
umanità determinata a non subire più passivamente il peso dello
stato di cose esistente. Come Korsch, anche Gramsci vede
nell’autonoma azione delle masse proletarie il segno di un radicale
superamento della vecchia logica, gradualista e riformista, dei
gruppi dirigenti, politici e sindacali, del movimento operaio.
L’azione di classe sempre impulsata dall’alto e dall’esterno
della fabbrica, questa volta si è realizzata a partire dal basso.
Posti di fronte ai compiti dell’ora, i proletari hanno saputo con
chiaro senso di classe andare oltre le loro direzioni esitanti. Si
tratta, Gramsci ne è sicuro, di un cambiamento di portata storica:
“Attività della classe
operaia, iniziativa di produzione, di ordine interno, di difesa
militare da parte della classe operaia! Le gerarchie sociali sono
spezzate, i valori storici sono invertiti; le classi ‘esecutive’,
le classi ‘strumentali’, sono divenute classi ‘dirigenti’, si
sono poste a capo di se stesse, hanno trovato in se stesse gli uomini
da investire del potere di governo, gli uomini che si assumono tutte
le funzioni che di un aggregato elementare e meccanico fanno una
compagine organica, fanno una creatura vivente […] Ciò che gli
operai hanno fatto ha un’immensa portata storica, che deve essere
compresa in tutta la sua pienezza dalla classe operaia”.14
Corretto nel respingere
il “metodo delle facili assimilazioni”, Danilo Montaldi ci appare
nello scritto dedicato a Korsch e polemicamente sottotitolato “Contro
un facile spirito di assimilazione”, troppo sbrigativo nel suo
fermo diniego che esista relazione tra Gramsci e Korsch. 15 Pur
rifiutando con un certo fastidio l’etichetta di “bordighista”,
16 Montaldi sembra essere ancora eccessivamente condizionato dalla
immagine riduttiva che del rivoluzionario sardo ha sempre dato la
sinistra comunista italiana 17 quando, lo ripetiamo, un po’ troppo
sbrigativamente scrive in polemica con Eugenio Garin che
“ le fragili spalle di
Antonio Gramsci vengono via via caricate di strane attribuzioni,
nella probabile intenzione di riscattarne la figura dalla fissa
formula precedente nella quale era stata sopravvalutata e
circoscritta la sua funzione di leader precursore della via
nazionale, italiana, al socialismo.” 18
Decisamente più
convincente ci pare a questo proposito essere l’opinione di chi ha
visto nel “ritorno ad Hegel” e cioè nella rottura con il
determinismo della Seconda Internazionale il filo comune che lega fra
di loro pensatori marxisti, per altri versi assai differenti, come
Korsch e Gramsci. Certo, nel caso di quest’ultimo va tenuto conto
del peso che l’idealismo gentiliano e crociano ebbero nella
formazione del suo pensiero. Tuttavia, l’attenzione costante al
rapporto fra teoria e pratica e l’assoluta rilevanza data da
entrambi alla rivalutazione del significato dell’ «ideologia» e
di conseguenza del fattore «soggettivo», frutto anche dell’influsso
profondo esercitato su di loro (e su Lukács) da Sorel, trova il suo
naturale campo d’applicazione nello studio minuzioso che Korsch e
Gramsci compiono della prassi direttamente rivoluzionaria del
movimento dei consigli ad Amburgo come a Torino. 19
E’ un bilancio critico,
che si interroga sul perché la classe operaia sia stata sconfitta.
Un bilancio necessario, che non nega affatto, come scriverà anni più
tardi Korsch a proposito della rivoluzione spagnola, le “incertezze
e imprevidenze che sono umanamente presenti in ogni azione
rivoluzionaria”, 20 ma che va fatto, se si vuole “servire la
storia della rivoluzione” e cioè “impararare dalle azioni e
dagli errori della storia passata la lezione per il futuro, le vie e
i modi per la realizzazione dei fini della classe operaia
rivoluzionaria”. 21
“Sono trascorsi sei
anni – scrive Gramsci nel momento in cui più dura si fa sentire
sulla classe operaia la morsa della controrivoluzione fascista,
quando alla democrazia borghese si è ormai sostituita la dittatura
aperta del capitale - dal settembre 1920. In questo frattempo molte
cose sono cambiate in mezzo alle masse operaie che nel settembre 1920
occuparono le fabbriche dell’industria metallurgica […] Tuttavia
l’occupazione delle fabbriche non è stata dimenticata […] Essa è
stata la prova generale della classe rivoluzionaria italiana la
quale, come classe, ha dimostrato di essere matura, di essere capace
di iniziativa, di possedere una inestimabile ricchezza di energie
creative e
organizzative”. 22
Tre sono per Gramsci gli
aspetti “positivi” dell’uccupazione delle fabbriche: 1) La
capacità di autogoverno della classe operaia; 2) la capacità della
massa operaia di mantenere e superare il livello di produzione
capitalistico; 3) la capacità illimitata mostrata dalle masse
lavoratrici nel fuoco della lotta di saper assumere l’iniziativa e
di rispondere creativamente ai problemi posti dalla gestione delle
aziende. Ma ci sono anche gli aspetti negativi, I problemi irrisolti,
i compiti a cui il proletariato non ha saputo fare fronte:
“Come classe, gli
operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono
all’altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i
problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere
furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei
rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le
ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari
perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende
commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e
internazionali, perché non conquistarono il potere di stato. Questi
problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e
dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando
l’immaturità delle masse; in realtà i dirigenti era immaturi e
incapaci, non la classe”. 23
Sono i problemi che si
pone Korsch. Capire perché il movimento non ha raggiunto i suoi
obiettivi, dove e perché si è sbagliato. Per quali motivi,
nonostante le speranze suscitate, il potere dei consigli si è
ridotto nelle realtà in cui ancora in qualche modo funziona ad una
sorta di consiliarismo “municipale”. Malinconico simulacro di una
“democrazia operaia” del tutto priva di poteri e di mezzi. La
risposta non è molto diversa da quella di Gramsci. Lasciati soli,
dal partito socialista e dai sindacati, ai consigli
“mancò quasi del tutto
una giusta conoscenza tanto delle basi organizzative quanto anche dei
compiti essenziali che un sistema consiliare rivoluzionario ha da
svolgere … I consigli ‘sovrani’ si accontentarono spesso o per
lo più di un controllo assolutamente inefficace, mentre avrebbero
dovuto avvalersi del pieno potere legislativo, esecutivo e
giudiziario. A causa di tale autolimitazione non solo fu preparato il
terreno per la successiva soppressione e messa in disparte dei
consigli ad opera dei ricostituiti organi democratici del potere
statale ma furono anche lasciate persistere una gran parte delle
autorità prerivoluzionarie…”. 24
Sbaglierebbe, tuttavia,
chi, fermandosi ad una lettura superficiale di questo passo,
pensasse ad una visione riduttiva e svalutante della rivoluzione del
1919. Korsch ha ormai ben chiaro come il problema non sia nè quello
della maturità rivoluzionaria della classe operaia, né tantomeno
quello della validità del sistema consiliare in se, quanto quello
della direzione politica dei consigli. Ma cosa fare, allora, per
mettere i consigli in grado di svolgere pienamente il loro compito
rivoluzionario ? Proprio riflettendo su questo interrogativo Korsch
compie un altro importante passo in avanti nella sua maturazione
politica.
Consigli di fabbrica e
partito di classe
La riflessione
sull’esperienza consiliare occupa dunque un posto di primo piano
nella produzione korskiana di questo periodo e trova una sua
sistemazione definitiva nell’ampio studio teorico sulla
Legislazione del lavoro per i consigli di fabbrica. L’opera,
composta nel 1922 e pubblicata come opuscolo a Berlino nei primi mesi
del 1923, si ricollega direttamente a Che cos’è la socializazione?
e rappresenta il più alto livello di riflessione raggiunto da Korsch
sul tema della democratizzazione radicale del processo di produzione.
Scritta per i consigli di
fabbrica, l’opera si propone di fornire ai militanti operai
d’avanguardia gli strumenti teorici fondamentali per poter
compiutamente utilizzare in chiave rivoluzionaria gli spazi che la
legge sui consigli di fabbrica e la legislazione sociale weimariana
apre alle “rappresentanze aziendali”. Ciò è ancora più
importante se si considera come per Korsch la crisi rivoluzionaria
apertasi in Germania nel novembre 1918 non si sia ancora chiusa. Il
paese attraversa una fase di transizione che sta rapidamente ponendo
le premesse per il pieno dispiegamento della lotta decisiva tra la
classe borghese e quella proletaria. In questo contesto,
caratterizzato da un sostanziale equilibrio sociale in cui “due
classi si confrontano senza che per il momento l’una possa
pienamente predominare sull’altra o mantenere il suo predominio”
, per Korsch i consigli rappresentano “l’avamposto più avanzato
dell’esercito proletario”. Ma per poter assolvere tale compito i
consigli debbono imparare a conoscere nel modo più preciso sia la
propria “collocazione generale” all’interno della più
complessiva organizzazione della società capitalistica, sia la
propria “collocazione particolare” all’interno delle singole
aziende.
“Solo allora – scrive
Korsch- essi disporranno della strumentazione teorica necessaria ad
assolvere appieno, sul terreno difensivo e su quello offensivo, i
particolari compiti della lotta di classe che i loro compagni di
classe hanno consegnato nelle loro mani. Sul terreno difensivo, in
quanto non cedono un palmo della posizione di volta in volta
conquistata, senza lottare. Sul terreno offensivo, in quanto da ogni
posizione conquistata si spingono instancabilmente in avanti, finchè
insieme alla massa dei compagni che si battono con loro hanno infine
realmente espugnato la fortezza nemica”. 25
Essenziale è rompere con
chi come la Fabian Society in Inghilterra o il “grande inquisitore
dell’ortodossia del marxismo volgare” Karl Kautsky in Germania
ritengono che la “democrazia industriale” possa compiutamente
realizzarsi anche senza il “rovesciamento violento delle
istituzioni statali democratico-borghesi esistenti”. Tutti costoro
sostengono che la ‘questione sociale’ può trovare soluzione
all’interno dell’ordinamento sociale capitalistico, dimostrando
un’incompresione totale della stessa dinamica storica della
democrazia borghese per cui:
“[…] il motivo
determinante di ogni politica sociale fin qui praticata […]
nell’insieme è sempre stato soltanto la pressione di classe del
proletariato. Solo con estrema lentezza e a malincuore la classe
borghese dominante, esposta alla pressione sempre più forte
dell’esercito dei suoi schiavi salariati, ha fatto di volta in
volta quel minimo di concessioni che non poteva più negargli senza
esporsi a gravi rischi”. 26
Concessioni parziali e
soprattutto temporanee, destinate ad essere revocate col cambiare dei
rapporti di forza tra le classi, come la stessa tragica parabola
della repubblica di Weimar dimostrerà di lì a pochi anni:
“Tutti questi diritti
di compartecipazione trovano però il loro limite invalicabile nella
società di classe capitalistica e nello stato della classe borghese;
essi non possono essere sviluppati oltre il limite tollerato dagli
interessi di profitto della società capitalistica. Se gli operai non
comprendono che con tali diritti essi si sono conquistati soltanto
dei punti d’appoggio per la preparazione dello scontro finale,
tutti questi cosiddetti diritti di compartecipazione finiscono col
fungere soltanto da paravento, un paravento dietri il quale la
dittatura capitalista sulla ‘comunità del lavoro’ potrà
nascondersi ancora, finchè un giorno le condizioni oggettive stesse
costringeranno i capitalisti a toglierlo di mezzo e ad applicare
senza veli la loro dittatura di classe”. 27
Proprio per dare più
forza alle sue argomentazioni Korsch ricostruisce nel suo studio
l’evoluzione storica dei diritti di compartecipazione degli operai
considerati da ogni possibile angolazione: come cittadini, come
venditori della merce forza-lavoro, come elementi del processo
sociale di lavoro considerato nel suo insieme. Se in questo processo
i consigli di fabbrica erano stati considerati un mero ‘organo
ausiliario’ dei sindacati nella loro lotta per la difesa delle
condizioni di vita dei lavoratori, oggi la loro natura è
radicalmente mutata e:
“ […] il movimento
dei consigli non appare più come una semplice azione preparatoria
della futura battaglia decisiva della rivoluzione sociale, ma come il
reale e definitivo inizio della stessa”. 28
A condizione,
naturalmente, che gli operai, coscienti del loro ruolo, sappiano
allontanare dalle posizioni dirigenti i ‘ rinnegati della lotta di
classe’ e aprire una fase di lotta del tutto nuova. Proprio perché
in Occidente ciò non è ancora avvenuto:
“[…] il movimento dei
consigli esploso nell’una o nell’altra forma nell’ultima fase
del periodo bellico e nell’immediato dopoguerra come movimento
spontaneo di massa in quasi tutti i paesi si è arenato nella sua
fase iniziale –con la sola eccezione della Russia sovietica- e
infine è stato quasi ovunque completamente represso nel periodo di
reazione iniziato attorno alla metà del 1919”. 29
L’opuscolo di Korsch
riprende e approfondisce l’analisi che a poco più di un anno dal
novembre 1918 egli aveva tentato del perché, nonostante il
precipitare delle condizioni oggettive, la rivoluzione si fosse
fermata agli inizi del suo svolgersi per poi ripiegare su se stessa e
rifluire. Attento a non cadere in una visione piattamente
soggettivistica dei processi sociali, Korsch si sofferma, più che
sull’esitazione e la viltà dei gruppi dirigenti socialdemocratici
che pure come abbiamo visto c’erano state e avevano pesantemente
condizionato l’evolversi dei rapporti di forza tra le classi, sui
balbettamenti di una teoria socialista incapace di realizzazione
pratica:
“ Non si può quindi
ricondurre a una casualità puramente esteriore il fatto che nei mesi
decisivi succeduti a Novembre 1918, quando l’organizzazione del
potere politico della borghesia aveva cessato di esistere ed
esteriormente nulla impediva più la transizione dal capitalismo al
socialismo, la grande ora sia in un primo tempo trascorsa senza che
si cogliesse l’occasione; mancavano infatti in larga misura le
premesse psicologico-sociali che avrebbero permesso di coglierla:
nessuno nutriva una fiducia decisa, capace di trascinare le masse […]
congiunta con la chiara comprensione dei passi preliminari da
compiere. […] Oltre a questi fattori più esterni, fu però anche
l’arretratezza […] della teoria socialista rispetto a tutti i
problemi di realizzazione pratica a far si che il ‘grido per la
socializzazione’, levatosi due o tre volte, a gran voce, nel corso
dell’anno tra le masse e ascoltato con paura e tremore nel campo
della classe borghese e del suo esercito di funzionari, non abbia
dato luogo al benchè minimo effetto pratico…”. 30
Di fronte all’evidente
bancarotta delle organizzazioni tradizionali, politiche e sindacali,
della classe operaia, per Korsch, come per Gramsci, come per larga
parte della generazione rivoluzionaria formatasi nell’incandescente
biennio post-bellico l’interrogativo diventa ormai come conciliare
l’azione spontanea e cosciente delle masse proletarie a livello
della fabbrica con la sua necessaria efficacia politica a livello
dell’intera società. Ma affrontare quelli che Gramsci chiama con
espressione ancora imprecisa “ i grandi problemi nazionali e
internazionali” rimanda immediatamente al problema del potere e
della rottura rivoluzionaria. Lo Stato borghese, strumento diretto
del dominio del capitale sulla società e sul proletariato, non può
essere conquistato e utilizzato, ma deve essere radicalmente
distrutto. E’ il succo dell’esperienza della Comune parigina
riproposto ad un livello incommensurabilmente più alto dall’intero
processo rivoluzionario apertosi in Europa con l’Ottobre.
Come Gramsci, Korsch
brucia rapidamente in una situazione che sta rapidamente mutando a
favore delle fazioni più aggressive e violente della borghesia
l’intera sua esperienza consiliare per approdare ad una visione del
partito leninista come unico strumento capace di assicurare quella
determinazione rivoluzionaria, così carica di giacobina spietatezza,
che le altre correnti socialiste avevano tanto tragicamente
dimostrato di non possedere in Germania come in Italia. Nelle
tempeste d’acciaio dei primi anni Venti l’adesione al bolscevismo
assume così le caratteristiche di passaggio obbligato per un’intera
generazione di quadri rivoluzionari che in tutta Europa lo affronterà
con giovanile baldanza, inconsapevole dei rischi che esso comporta.
Primo fra tutti di mitizzare l’esperienza bolscevica, di cui non si
riesce nel fuoco dell’azione a comprendere la complessità e le
contraddizioni, al fine di ricavarne una concezione della
costruzione e del ruolo dirigente del partito destinata a divenire
sotto il nome di “leninismo” la vulgata ufficiale della Terza
Internazionale. E questo contribuisce a spiegare perché, come
vedremo, negli anni successivi la “bolscevizzazione” dei giovani
partiti comunisti incontri dappertutto così pochi ostacoli e come,
nel caso italiano e tedesco, proprio, marxisti critici, come Gramsci
e Korsch ne siano almeno inizialmente fra i primi, più entusiasti,
sostenitori. 31
1 K. KORSCH, Che cos’è
la socializzazione?. In Consigli…, cit., pp. 9-10.
2 Ivi, p. 14 e sgg.
3 Ivi p. 25
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 36.
6 Cfr. a questo
proposito G. MARRAMAO, Tra bolscevismo e socialdemocrazia: Otto
Bauer, in AA.VV., Storia del marxismo, vol. III.1, Einaudi, Torino,
1980, pp. 266 e sgg. Per una conoscenza più approfondita delle
posizioni degli austromarxisti cfr. N. LESER, Teoria e prassi
dell’austromarxismo, Mondo Operaio, Roma 1979; G. MARRAMAO,
Austromarxismo e socialismo di sinistra fra le due guerre, La Pietra,
Milano 1977; A. MOSCATO, La “terza via” dell’austromarxismo.
Introduzione a R. ROSDOLSKY, Socialdemocrazia e tattica
rivoluzionaria, Celuc, Milano 1979.
7 “È necessario,
pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi
innovatori stanno per loro medesimi, o se dependano da altri; cioè,
se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, ovvero possono
forzare. Nel primo caso capitano sempre male, e non conducano cosa
alcuna; ma, quando dependono da loro proprii e possono forzare,
allora è che rare volte periclitano. Di qui nacque che tutti e’
profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono. Perché, oltre alle
cose dette, la natura de’ populi è varia; ed è facile a
persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella
persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che, quando e’
non credono più, si possa fare loro credere per forza.” (N.
MACHIAVELLI, Il Principe, Rizzoli, Milano 1950, p. 34)
8 K. KORSCH, Consigli
di fabbrica…, cit., p. 37.
9 Cfr. G. BADIA, Il
movimento spartachista, Samonà e Savelli, Roma 1970, p. 157.
10 Per una dettagliata
ricostruzione della rivoluzione di febbraio cfr. M. FERRO, La
rivoluzione del 1917, Sansoni, Firenze 1974. Per una descrizione
“giorno per giorno” della trascrescenza della rivoluzione russa
da “democratica” a “socialista” cfr. i classici N.
SUCHANOV,Cronache della rivoluzione russa, Editori Riuniti, Roma 1967
e L. TROTSKY, Storia della rivoluzione russa, Mondadori, Milano 1969.
Una ricostruzione controcorrente dell’ascesa bolscevica a partire
dall’osservatorio privilegiato di Pietrogrado si può trovare in A.
RABINOWITCH, I bolscevichi al potere, Feltrinelli, Milano 1978.
11 K. KORSCH, Il
programma di socializzazione socialista e quello sindacalista. In
Consigli…, cit., pp. 60-61.
12 Sui rapporti fra Karl
Korsch e Antonio Gramsci si può vedere fra gli altri: M.L.
SALVADORI, Gramsci e il problema storico della democrazia, Einaudi,
Torino 1973 (II ed.) e C. RIECHERS, Gramsci e le ideologie del suo
tempo, Graphos, Genova 1993, pp.117-126.
13 K. KORSCH, Il
programma di socializzazione…, cit., pp. 58-59.
14 A. GRAMSCI, Domenica
rossa. In L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1975 (VI ed.),
pp. 161-162.
15 D. MONTALDI, Korsch e
i comunisti italiani, Savelli, Roma 1975.
16 “Non sono mai stato
bordighista (se va avanti così, dovrò fare degli annunci sui
maggiori giornali nazionali)...”. Ivi, p. 44. Per una conoscenza
della vita e dell’opera di Montaldi cfr., oltre alla bella
antologia pubblicata negli anni ‘90 dalla Cooperativa Colibrì (D.
MONTALDI, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, Colibrì, Milano 1994),
cfr. L. PARENTE (a cura di), Danilo Montaldi e la cultura di sinistra
del secondo dopoguerra, La Città del Sole, Napoli 1998 e A. MANGANO,
L’altra linea. Fortini, Bosio, Montaldi e Panzieri e la nuova
sinistra, Pullano, Catanzaro 1992.
17 Per una
interpretazione “bordighista” di Gramsci è di grande interesse
l’ormai “classica” antologia curata da A. PEREGALLI, Il
comunismo di sinistra e Gramsci, Dedalo, Bari 1978. Un giudizio
drasticamente negativo, anche se improntato a grande rispetto umano,
di Gramsci come pensatore marxista è rintracciabile in O. DAMEN,
Gramsci tra marxismo e idealismo, Edizioni Prometeo, Milano 1988.
18 D. MONTALDI, cit., p.
11.
19 Per un’interessante
disamina critica del “soggettivismo” gramsciano, cfr. M.L.
SALVADORI, Storia del pensiero comunista, cit., pp. 495-498.
20 K. KORSCH, Scritti
politici, 2, cit., p. 289.
21 Ivi, p. 291-92.
22 A. GRAMSCI, Ancora
delle capacità organiche della classe operaia. In La costruzione
del partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1978 (V ed.), pp.
344-345.
23 Ivi, pp. 347-348.
24 K. KORSCH, Mutamenti
del problema dei consigli politici operai in Germania. In Scritti
politici, 1, cit., pp. 19-20.
25 K. KORSCH,
Legislazione del lavoro per i consigli di fabbrica. In Consigli…,
cit., p.243.
26 Ivi, p. 148.
27 Ivi, pp. 145-146.
28 Ivi, p. 208.
29 Ivi, p. 211.
30 K. KORSCH, Questioni
fondamentali connesse con la socializzazione. In Consigli…, cit.,
pp. 84-85.
31 Sul rapporto fra
Gramsci, Bordiga e la bolscevizzazione del Partito Comunista d’Italia
rimandiamo al nostro Gramsci e Bordiga alle origini del comunismo
italiano (1917-1926), CEDOC, Savona 1998 e alla raccolta di documenti
Il partito decapitato, Edizioni L’Internazionale, Milano 1988. Per
una visione “trotskista” del problema può essere utile la
lettura di L. MAITAN, Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci,
Nuove Edizioni Internazionali, Milano 1997.