TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 18 dicembre 2009

Francesco Biamonti: Grandi, sconcertanti silenzi


Francesco Biamonti

Vento largo ha un mese di vita. Come per tutti i neonati è un momento importante. Lo celebriamo riprendendo la bella intervista concessa nel 1993 da Francesco Biamonti al prof. Francesco Improta e agli sudenti del Liceo "Aprosio" di Ventimiglia.

Grandi, sconcertanti silenzi

Nell’aprile del 1993 avvenne al Liceo Aprosio di Ventimiglia un incontro tra lo scrittore e gli studenti, fortemente voluto e quindi organizzato dall’allora professore di Italiano del Classico, Francesco Improta. Quello che segue è il resoconto fedele tratto dalla registrazione del colloquio appassionato tra professori, allievi e Biamonti.

Come è nato “Vento largo” e quali sono i suoi modelli culturali?
Ho scritto questo romanzo ascoltando la musica di Debussy e pensando alla pittura di Cézanne, le matrici culturali del libro sono proprio in questa pittura ed in questa musica. Con “Vento largo” ho cercato di rappresentare la condizione umana, erratica, provvisoria, priva di certezze eppure attraversata da un rivolo di pietà, da un certo stupore e da grandi silenzi. La storia, infatti, non si conclude ed i personaggi non emergono troppo proprio perché riflettono la nostra vita mutilata, il nostro cuore lacerato, l’animo pieno di dubbi.

Quali sono gli elementi peculiari di questo secondo romanzo?
La fuga verso un altrove non meglio definito, perché il paese più bello è sempre quello in cui non si vive. La vera frontiera non è quella che delimita due territori, ma quella che è dentro di noi e che cerchiamo di attraversare per strapparci al peso della natalità, delle origini e per portarci in una zona dell’intelligenza e del sentimento. Il viaggio, infatti, è metafora di una condizione umana difficile, ostica, invalicabile. Da qui scaturisce anche quel tono elegiaco che è connesso, appunto, alla poetica delle rovine.

Non crede che questo secondo libro sia più commerciale del primo?

Non lo credo assolutamente, forse è più facile da leggere perché la scrittura è più musicale, ma è senz’altro più difficile da capire anche per la conclusione sospesa e per la frequenza delle ellissi. Se avessi voluto fare un libro commerciale avrei dato più spazio alle scene di violenza o di sesso, invece il mio libro è tramato di grandi, sconcertanti silenzi ed è permeato della spiritualità che circola nella natura e nel paesaggio circostante.

Sembra, da una frase pronunciata da uno dei personaggi, che lei non nutra troppa fiducia nei giovani, che nei suoi romanzi appaiono sempre privi di speranze, come mai?

Le generazioni precedenti approdavano al sentimento del nulla solo dopo lunghissime ed amare esperienze di vita, oggi, invece, ci si arriva molto più velocemente. Non do, tuttavia, una valutazione negativa a questa accelerazione della vita, anche perché la vita comincia dall’altro lato della disperazione. Un artista, inoltre, non deve esprimere giudizi se non provvisori e può anche contraddirsi perché così è la vita. La frase alla quale faceva riferimento lei, non è né una condanna né un duro monito ma solo la constatazione di una realtà che è sotto gli occhi di tutti.

Perché nel romanzo vi sono tanti silenzi e che significato hanno?

Le cose più importanti l’uomo le dice a se stesso in lunghi soliloqui o le tace apertamente, del resto noi viviamo in un mondo in cui diventa sempre più difficile esprimersi e comunicare ed il silenzio diventa la cifra della frantumazione del mondo e della nostra solitudine. C’è un’altra considerazione da fare, il dialogare degli uomini presuppone sempre una monomaniacale ripetizione delle proprie ossessioni. Quando si dialoga in maniera logica e consequenziale si finisce necessariamente nella banalità anche perché il dialogo non convoglia più quello scarto che la vita ha sempre nei confronti dell’intelligenza chiara o della dialettica verbale. La parola per essere credibile deve affondare sempre nell’esistenzialità altrimenti si trasforma in chiacchiera priva di qualsiasi valore. Mi viene in mente la distinzione che faceva Merleau Ponty tra mot e parole, la parola attinge all’essere e mette in discussione la condizione fisica della vita, la chiacchiera è solo un riempitivo, apparentemente risponde ad una logica serrata ma in realtà non esprime e non comunica niente. In ogni frase ci deve essere una traslazione di senso che affondi le sue radici nel carattere fluido dell’esistenza.

Nei due romanzi si può parlare di poetica della rovina e di sinfonia dell’assenza?

Trattandosi di un mondo che frana continuamente, credo che non ci sia definizione più appropriata; va osservato, però, che nel primo romanzo “L’angelo di Avrigue” la rovina è nelle cose, in “Vento largo” è soprattutto nelle coscienze, in quanto è vissuta più interiormente. Per quanto riguarda l’assenza vorrei parafrasare un celebre verso di Montale «...una vita che dà barlumi/... quella che sola ci resta»; tutto è fondato sulla precarietà, è una realtà sospesa, inficiata da tutte le tentazioni del travalicamento e del nulla.

L’alternativa alla solitudine può essere la parola?

Sì, se la parola riesce a sottrarci alla sfera del banale, dell’insignificante e a portarci nella sfera dell’autentico, se riesce a comunicarci il senso della vita e non si limita ad echeggiare le banalità televisive o le frottole dei giornali, se, insomma, non si trasforma in chiacchiera. Ho accennato prima alla distinzione tra parola e chiacchiera ebbene la chiacchiera non ha alcun rapporto con le cose, con la realtà, è un mezzo per evadere, per non affrontare i problemi, per non dire nulla di sé, per non cogliere nulla del mondo. La parola, invece, ci consente di cogliere l’essenziale, le poche cose che contano, che hanno una resistenza che sopravvive all’attimo, e che superano la contingenza per toccare la sfera della psiche. Con la parola, quindi, si combatte la solitudine, prendendo atto di ciò che c’è di fondamentale nell’ambito umano. Qui indubbiamente la parola è spezzata per la legge stessa del vento, frammentaria ma volutamente frammentaria perché non bisogna esplicitare troppo le cose altrimenti diventerebbero banali. Troppe parole nascondono le cose. Bisogna scrivere per soprassalti, racchiudere l’idea, l’immagine in pochi lampi.

Nei dialoghi molte domande rimangono senza risposta, perché?

Io credo che la formulazione di una domanda sia già sufficiente per evocare una possibile risposta. La domanda, di per sé, è evocativa, è l’introduzione di un sospetto di realtà diversa; è sufficiente per evocare la realtà o una certa assenza di realtà. La risposta può scatenare zuffe verbali o tentativi di sopraffazione, la domanda è un modo per andare insieme verso la ricerca di una realtà.

La vita è instabile, provvisoria, c’è qualche valore che possa dare stabilità ad una vita così precaria?

Se un giovane riesce lucidamente a rappresentare la sua situazione e a raccontare a se stesso i suoi soliloqui ha già riscattato la sua vita. Non esistono certezze; ogni verità non è che la faccia di una menzogna raffinata. La vita è un percorso continuo di rivelazione di verità parziali. Non esistono, secondo me, verità superiori e l’uomo deve trovare in se stesso elementi di difesa, deve, quindi, interrogarsi di continuo e cercare lo stile che possa rappresentare la sua situazione.

Ci sono differenze tra le figure femminili del primo e del secondo romanzo?
Ci sono differenze nell’impostazione, in “Vento largo” la donna è più lontana, se si esclude una breve apparizione; da qui il tono dell’elegia , tipico della poesia provenzale, penso a J. Rudel e al suo amor de lohn , anche nella tradizione stilnovistica, petrarchesca e montaliana l’amore si nutre esclusivamente di rimpianti; la donna, infatti, è l’apparizione che compare e scompare e lascia un gorgo di nostalgia. Nel primo romanzo la donna ha contorni più reali ed è più presente, più legata alla terra, alle rocce su cui è modulata del resto la scrittura. In “Vento largo”, conformemente alla poetica della fuga e dell’assenza, tutto si allontana, trascinato via dal vento, anche la terra diventa una zattera sospesa tra il mare e il cielo e l’amore è tremolante e lontano.

Perché il protagonista è un passeur? Questa scelta ha un significato particolare?

Pur avendo conosciuto alcuni passeur e percorso i loro abituali sentieri non ho rispecchiato, nella figura del protagonista, nulla del loro mondo reale. Varì, interiorizzato al massimo, riflette una più generale condizione umana, non a caso non è un passeur di mestiere, eredita contro voglia questo lavoro ed è preso ogni volta da un gorgo di malinconia e da un sentimento di pietà. E’ un nocchiero della barca di Caronte, o della nave egizia dei morti, psicagogo nell’accezione etimologica del termine. La sua psicologia è del tutto inventata, del resto mi bastano poche suggestioni provenienti dalla realtà per lavorare secondo un moto dell’anima.

Nel primo romanzo il paesaggio è contrassegnato da ulivi, da rocce, da case diroccate, dai locali fumosi della Riviera; nel secondo, invece, la realtà sembra smaterializzarsi, prevale su tutto la luce riflessa, per quale motivo si assiste a questo radicale cambiamento?

Il cielo che si stinge nel mare e viceversa, le rocce che scompaiono, le cose polverizzate dalla luce rispondono sempre allo stesso progetto di rappresentare un’umanità che fugge, un mondo che si dilegua. Quel che dice, quindi, mi conforta, perché mi conferma nella convinzione di essere riuscito nel mio intento.

In “Vento largo” mi sembra che non ci siano riferimenti storici precisi, perché?

Non ci sono fatti, eventi, posizioni contrapposte perché ho cercato di descrivere questo fluire della vita, questo consumarsi giorno dopo giorno affidandomi soprattutto alle luci e alle ombre, ombre adamantine come sono state definite, in maniera molto suggestiva, da un critico francese. Il romanzo è fatto di cose impalpabili, di stati d’animo, di nostalgie, di intermittenze del cuore.

In quale dei due romanzi s’identifica di più e per quale motivo?

Forse nel secondo. Nel primo romanzo ho forzato di più, in “Vento largo” ero più me stesso, ho detto tutto quello che mi passava per la mente, cercando solo di dare una coordinata musicale; non mi interessavano né la completezza né l’impostazione drammatica ma soltanto il fluire della scrittura. E’ una prosa tenuta insieme da legami sensitivi. Senza preoccuparmi di altro volevo essere dolce e leggero, eliminare tutto ciò che è stridente o greve e raggiungere una certa grazia. Ognuno, poi, s’identifica con ciò che è più vicino. Anche quando la materia è disperata bisogna cercare di raggiungere questo stato di grazia, obbedire a leggi melodiche ed armoniose. In principio è sempre un’emozione, poi diventa parola; è la petit phrase di cui parla Proust e si scrive per circoscrivere, sviscerare questa piccola frase sfuggente, questa emozione che si rincorre, traspare e non traspare, balugina. E’ un inserimento nel buio di questa frase che dovrebbe sintetizzare la condizione umana in un momento di emozione.

E’ vero che questo secondo libro è più pessimistico del primo?

Nel primo romanzo vi è una parte corale, affidata alla vita del paese, e più precisamente alla festa di San Sebastiano, patrono di Avrigue; si tratta di un sostegno morale, ancorato alle tradizioni più antiche della civiltà contadina. Nel secondo romanzo questo sostegno diventa labile, aereo: un richiamo perduto. Quella che era la nostra speranza, il nostro ancoraggio vacilla. C’è più vertigine, più capogiro, manca quel sostegno morale, forte e leggermente plateale, che vi era in “L’angelo di Avrigue”. Non ci sono più posizioni nette, non si rilevano contrapposizioni, la stessa luce si smorza nell’ombra. Le cose fluiscono senza più sostenere la vita, rappresentano richiami e messaggi perduti come nella “Bufera ed altro” di E. Montale. La salvezza è sempre più difficile ed affidata al filo invisibile della poesia. Questa civiltà contadina, che era solida e positiva, è andata sempre più scomparendo; restano rimasugli, parvenze scialbe. Sono stato ospite dei frati che vivono a Saint Honorat ed ho finito con l’apprezzare quella serie di operazioni formali che ogni giorno compiono con molta serietà, rigore e devozione: si inginocchiano, cantano, pregano e raggiungono una grande serenità formale. Mi sono commosso dinanzi allo spirito di sacrificio e di ricerca della forma di questo ordine religioso, una sorta di ripetizione dolorosa ma rassicurante. Se ci guardiamo intorno che cosa vediamo? Cortei, manifestazioni isteriche, orrende di conformismo o di fanatismo; lo spirito deve cercare, deve sentire e raccogliere solo ciò che vi è di poetico e che è radicato nell’intimità e nell’essere profondo dell’uomo.

Leggendo il romanzo ho avuto l’impressione che Sabèl sia profondamente contraddittoria: ama Varì ma si allontana da lui senza una spiegazione, vorrebbe tornare a casa ma rimane nell’isola prigioniera dei suoi stessi ricordi, dovrebbe nella sua funzione di angelo visitatore, salvare Varì ma non riesce neppure a salvare se stessa. Perché tutto questo?

Sabèl, come abbiamo già detto, ha la vaghezza di un richiamo lontano ed è contraddittoria perché la natura umana è tale. Il richiamo, del resto, alla bellezza della vita è un richiamo crudele ma anche il più dolce che ci sia. Petrarca dice testualmente: “…un bel viso legato in dura sorte” e Truffaut in uno dei suoi film più famosi: “Sei così bella che guardarti è una sofferenza”.

Pur rimanendo affascinati dalla lettura si ha l’impressione che manchi qualcosa, che la storia sia incompleta, come mai?

Le scene sono appena abbozzate o poco sviluppate ma non per questo il romanzo è incompleto. Vi è, infatti, un doppio registro, quando, ad esempio, Varì nell’ultimo capitolo parla con il professore, dal loro dialogo nasce una nuova storia e l’evocazione completa il dialogo, lo stesso succede durante alcune passeggiate. Ciò che l’uomo fa o dice non è nulla rispetto a ciò che non dice e non fa o rispetto a ciò che è già stato o può essere. Bisognerebbe fare in modo che gli episodi piccoli della nostra vita convoglino un significato secondo, una seconda realtà.

Secondo lei l’artista deve avere una funzione sociale?

Assolutamente No. Per me l’impegno sociale è una fuga, il vero impegno è quello metastorico e metafisico. Un corpo a corpo con l’angoscia umana, con il carattere avventuroso e sognante dell’esistenza. L’impegno sociale non ha niente a che fare con l’arte e, per giunta, è legato al momento. Vale più un quadro di Cézanne che tutta l’opera di Zola. Gli scrittori, cosiddetti impegnati, sono noiosissimi illustratori; l’artista , invece, deve porsi di fronte al mondo e deve guardarlo senza schemi precostituiti o prefabbricati. Il sociale entra nell’arte come riflesso non come impegno programmatico, l’arte, infatti, non è nel carattere del contenuto ma nella profondità con la quale la materia vibra attraverso la parola e l’impegno è la lotta con il proprio profondo. Nella montagna di Sant Victoire di Cézanne, che è tutta una roccia bianca frammista al cielo, c’è tutto Cézanne con la sua disperazione e i suoi sogni mentre nei quadri di David o di altri pittori impegnati socialmente vi è solo freddezza di illustratori. C’ è più verità, sacralità e senso della vita in un candelabro di Morandi che in tutto Guttuso.


Francesco Improta
(La Gazzetta di San Biagio, n.33, settembre 2002)