TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 10 dicembre 2009

Nel vecchio borgo

 

Giorgio Amico

Nel vecchio borgo 

Scese in paese che era già pomeriggio avanzato. Non sapeva neppure lui perché avesse preso quella decisione. In realtà nulla lo costringeva a farlo. I suoi affari lo portavano piuttosto verso la città sulla costa. Ma, all'improvviso, mentre girava per la casa osservando vecchi oggetti che un tempo gli erano stati familiari, lo aveva preso fortissimo il desiderio di visitare ancora una volta quei luoghi che l'avevano visto bambino. Senza pensarci si era trovato fuori di casa, di nuovo sul sentiero assolato, immerso nel frinire ossessivo delle cicale. A ciassa grande, il parcheggio costruito proprio sotto le vecchie mura del borgo, rigurgitava come sempre di macchine. Molte erano degli olandesi che da qualche anno stavano sistematicamente, un casolare dopo l'altro, una frazione dopo l'altra, colonizzando quel lembo sperduto di Liguria. Erano partiti timidamente, quasi di soppiatto, ad acquistare per pochi soldi cascinali isolati, vecchi fienili, persino squinternati seccatoi per le castagne. Alla gente del posto non era parso vero di liberarsi di vecchie catapecchie abbandonate, covi di serpi, vestigia di un'antica miseria che ancora bruciava nel ricordo di molti. Ed ora che frazioni intere si erano trasformate in villaggi telematici, come con triste neologismo scrivevano i giornali, selve di paraboliche e grappoli di piscine, qualcuno al bar della piazza incominciava a dire sottovoce che forse non era stato poi un così grande affare. Appoggiati al parapetto, che dava sulla vallata, un gruppo di vecchi guardava con sguardo immobile il via vai incessante di camion sul grande viadotto grigio dell'autostrada che si ergeva altissimo a scavalcare la valle (…). Tugnin fu il primo ad accorgersi di lui: - Oh, là, bell'uomo, non vi avevo riconosciuto. Cosa fate da queste parti? Da lontano vi avevo preso per un foresto. Purtroppo non ho più gli occhi di una volta. Eh, gli anni passano. Rispose con poche parole di circostanza e poi, a sciogliere l'imbarazzo, con una battuta in dialetto sull'inesorabile trascorrere del tempo, sulla vita che lentamente scorre via. - A l'è cuscì – disse uno dei vecchi e gli altri risero quasi ad esorcizzare l'idea della morte che ormai da tempo li aveva afferrati e non li abbandonava.
- Bona – Salutò e si avviò verso la vecchia porta che, come una antica ferita, rompeva la monotonia delle mura del borgo. Alle sue spalle Tugnin spiegava pazientemente ai compagni chi fosse quello straniero, da dove venisse, chi erano stati i suoi vecchi. Poche parole, ma bastanti agli altri per collocarlo nel loro tempo e in quello spazio, per conferirgli un nome e un'identità riconoscibile, per inserirlo di nuovo in quel mondo arcaico da cui si era un giorno separato. - U l'è u fiu du Batista di Ciei. U scritù, quellu che u vive in Fransa. Saliva per il vicolo che portava alla chiesa (si chiamava u carugiu du ventu) e intanto pensava al suo paese, a come era cambiato, a come era restato sempre uguale. Un pugno di case abbarbicate alla roccia. Edifici grigi, dai vecchi muri fatti di pietre screpolate. Case che parevano dormire un sonno senza fine. Un borgo silenzioso, abitato solo più da vecchi e dal vento. Stretto attorno alla sua chiesa come le dita di un pugno chiuso. Eppure, una volta, quelle antiche pietre avevano conosciuto un loro splendore. Allora il borgo era stato importante e dai paesi vicini lungo le mulattiere mercanti e contadini erano venuti nei giorni di festa ad affollare le sue piazzette e i suoi vicoli, a vendere e a comprare. Da lì partiva la vecchia strada del sale che al passo scavalcava la montagna diretta alla grande pianura al di là della linea azzurrina dei monti, verso terre lontane che pochi avevano visto davvero. Tempi finiti da un pezzo di cui restava qualche sbiadita traccia qua e là; un pezzo di intonaco sbrecciato, la ringhiera di ferro battuto di un poggiolo, un portale d'ardesia, gli affreschi smangiati dall'umidità della chiesa. (…)
All'improvviso si trovò fuori dell'abitato, sul versante nord che dava sulla montagna. Sulla piazzetta antistante quella che da tempo immemorabile tutti in paese chiamavano Porta Tramontana poche auto e un paio di panchine solitarie dalla vernice scrostata. Si sentiva stanco, come chi avesse percorso un lungo cammino. Avvertiva il peso degli anni e delle memorie. Si sedette a riposare all'ombra dei vecchi tigli. Quietamente il sole calava ad Occidente mentre il volo dei pipistrelli annunciava l'arrivo della sera. Da una finestra aperta in alto sulle mura gli giungeva attutito il suono di una chitarra. Ritmico lamento per amore perduti, storie finite, nuove solitudini. Quel suono risvegliava in lui antichi echi. Aveva sempre pensato al suo paese come a un mondo immobile, un universo claustrofobico al cui interno non esisteva possibilità di salvezza. Ripetizione stanca di atti primordiali, il quotidiano vivere in quell'antico borgo aveva ben presto assunto per lui la fissità della pietra, l'immutabilità raggelante delle cose morte. Un mondo apparentemente senza speranza. Uno spazio chiuso, aperto solo verso il mare. E verso il mare lui, appena aveva potuto, era fuggito. Dapprima ad accoglierlo era stata la città sulla costa. Suoni, luci e vita che lo avevano attirato con una forza irresistibile. Poi la vicina Francia col suo atavico richiamo. Mentone, Nizza, Marsiglia: luoghi dove perdersi e ritrovarsi. Luoghi del desiderio e del sogno diventati ora con gli anni luoghi della memoria. Riprese la strada di strada, questa volta per la strada dei morti, il sentiero a settentrione che costeggiava il piccolo camposanto invaso dalle erbacce. Mentre saliva con le prime ombre del crepuscolo, sentiva le foglie secche scricchiolare sotto le sue scarpe e di nuovo la tristezza invadere il suo cuore. E intanto pensava che aveva ragione chi aveva detto che il male non è spettacolare ed è sempre umano. Quella terra stava a dimostrarlo. Una terra aspra che testimoniava del secolare rapporto d'amore e d'odio con l'uomo, di una feroce fatica del vivere che neppure la morte riusciva davvero a pacificare. Una terra di uomini silenziosi, aggrappati a quelle fasce sassose come a una speranza. Una terra avara, del colore grigio della pietra e degli ulivi, di una natura arcigna, restia a concedersi, ma di una bellezza tanto crudele quanto inesprimibile. Terra di confine, la sua terra. Pensava a questo mentre lentamente saliva verso la sua casa e il mare lontano era diventato ormai una macchia scura dietro la linea d'ombra delle colline. 

 (Dal romanzo di Giorgio Amico, Le illusioni d'Itaca, Erranze, Milano 2005)