TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 25 novembre 2018

Colonnati divini miti e misteri




Elementi simili in ogni parte del mondo a significare il modello cosmico dell'universo.

Raffaele K. Salinari

Colonnati divini miti e misteri


Dagli albori dell’Arte architettonica, i cui fondamenti esoterici nascono col tempo stesso dell’umanità,la colonna è stata la struttura portante per antonomasia. Molto più che altre componenti architravi, ogive, trabeazioni essa rappresenta infatti l’elevazione e, al tempo stesso, la forza, la stabilità e la bellezza, caratteristiche che la rendono centrale nella simbologia delle costruzioni sacre, basti pensare solo alle due grandi colonne, Jakin e Boaz, descritte nella Bibbia all’ingresso del Tempio di Salomone. Oggi ritroviamo queste stesse colonne, il cui nome significa rispettivamente «stabilità» e «forza», all’ingresso di ogni Tempio della Libera Muratoria, ispirata da quella stessa Arte che permette all’umanità di costruire il proprio Tempio interiore a modello di quello cosmico il cui ordinatore è, per questa tradizione, Il Grande Architetto dell’Universo.

La colonna assomma il sé dunque tutta una serie di significati metaforici che la pongono al centro dei miti fondativi in culture di ogni tempo e civilizzazione: quelle di Ercole, erette dall’eroe come finis terrae col monito non plus ultra ad intimare di non oltrepassare il termine del mondo conosciuto, o le fragili e colorate colonne dei templi scintoisti che si rivolgono come preghiere alla Grande Dea Amaterasu, divinità solare da cui discendono tutte le cose. Nelle Americhe precolombiane troviamo invece il Totem, colonna identitaria che ipostatizza tutto il complesso sistema delle relazioni che intercorrono tra le componenti di uno stesso bioma.

Nei capitelli delle colonne si nascondono spesso i più reconditi segreti; Marius Schneider scoprì le sottili corrispondenze tra i canti sacri e le figure effigiate su quelli romanici di San Cugat, di Gerona, di Ripoll. A saperle ascoltare forse tutte le colonne dei luoghi consacrati cantano ancora la musica delle Sfere Celesti. Ma, nella verticalità della colonna, il principio ascensionale verso il divino è forse sancito plasticamente dalle storie dei monaci stiliti, come San Simeone, che visse all’altezza di ben sedici metri per tutta la vita. Tanti altri esempi sarebbero possibili, ma quello che a noi particolarmente qui interessa non è tanto cosa una colonna può sostenere o raffigurare, quanto ciò che essa può celare.



La colonna alefica di Borges

Molte sono le storie che narrano di qualcosa contenuto all’interno di una colonna e che dunque propongono un altro aspetto dei suoi significati simbolici: la colonna come scrigno, forziere affatto speciale per materiali o immateriali che solo al suo interno possono, e devono, restare celati e protetti, protetti perché celati, celati perché protetti, fino a quando il momento arriva e la pietra può aprirsi per liberare il suo contenuto. La colonna è allora una sorta di clessidra di pietra all’interno della quale il tempo scorre misticamente, invisibile, silenzioso e segreto, sino al suo destino.

Un esempio di permanenza misteriosa ed occulta lo troviamo nel racconto l’Aleph di J.L. Borges, in cui il Maestro argentino sostiene che «i fedeli che si recano alla moschea Amr, al Cairo, sanno bene che l’universo è racchiuso nell’interno di una delle colonne di pietra che circondano il cortile centrale. Nessuno, certo, può vederlo, ma chi accosta l’orecchio alla superficie afferma di percepire, dopo un po’, il suo incessante rumore. Esiste questo Aleph all’interno di una pietra? L’ho visto quando vidi tutte le cose e l’ho dimenticato? La nostra mente è porosa per l’oblio».



Qui l’aura alefica è generata dalla presenza di una colonna affatto uguale alle altre in cui, però, è racchiuso il misterioso punto attraverso il quale è possibile vedere tutti i luoghi del cosmo da tutte le prospettive, senza sovrapposizioni, ed in tutti i tempi, passati presenti e futuri, contemporaneamente:questo è l’Aleph. È allora la natura stessa del colonnato, i suoi rimandi specchiali, ipnotici, le alternanze di luce ed ombra che si moltiplicano all’indefinito come i tasti bianche e neri di un immenso pianoforte, a chiamarci verso la scomparsa della nostra stessa ombra, risucchiata dal vortice di quella emanata da una delle colonne. Provare per credere, il gioco è tanto straniante, ovunque venga fatto, da evocare l’Aleph: il centro percettivo in cui tra noi ed il mondo non vi è più nessuna differenza, là dove il singolo torna al Tutto.

Anche nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna, dentro una delle colonne che sorreggono il mosaico dell’adorazione dei Magi, vi è celato un Aleph. Osservandola da una certa prospettiva si vede, infatti, come la figura di una entità alata, pronta a dischiudere, a chi sospende l’incredulità, come suggeriva Samuel Taylor Coleridge, il mistero dell’Uno: «trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione dell’incredulità che costituisce la fede poetica». La fede poetica dunque, nucleo di ogni conoscenza senza dogmi, racchiusa in una colonna.



La colonna alchemica

Siamo verso il 1600, nella chiesa di Erfurt, in Germania, avviene qualcosa che nei secoli ci è stato tramandato da diverse fonti: attraverso la breccia aperta da un fulmine improvviso, sarebbero usciti da una colonna i manoscritti dell’alchimista Basilio Valentino. Nell’opera di J.J. Mangeti Bibliotheca Chemica Curiosa, edita a Ginevra nel 1702, ne troviamo a pagina 47 del primo volume la descrizione in latino: «per ictum fulminis columna Templi Erfurtensis ‚ in cuius medio diffracto scriptum, delituerat» cioè un fulmine, rompendo una colonna del tempio di Erfurt, rivelò degli scritti nascosti.

Il brano è tratto dalla biografia di Basilio Valentino, per gli studiosi dell‘Arte Regia in realtà uno pseudonimo legato a due opere fondamentali: Azoth e le Dodici chiavi. Fulcanelli, probabilmente
l’ultimo alchimista contemporaneo che abbia avuto la possibilità di operare in diretta continuità con i Maestri del passato, chiarisce nel suo Le dimore filosofali, come «il nome Basilio Valentino unisce il greco Basileus, cioè re, al latino Valens, cioè valente, al fine di suggerire il sorprendente potere della Pietra Filosofale». La stessa interpretazione la troviamo nell’Edipo chimico di Leibniz, dal quale probabilmente Fulcanelli ha tratto la sua.

Il XVII secolo è particolarmente importante per l’espansione dell’Alchimia: Spinoza stesso ci dice dell’oro scaturito da una trasmutazione ad opera della «polvere di proiezione» lasciata al suo amico Johann Friedrich Schweitzer, detto Helvetius, noto medico olandese, da un misterioso personaggio. Il Seicento è anche segnato dai manifesti rosacruciani: nel 1614, infatti, era comparso a Kassel l’opuscolo anonimo Fama fraternitatis Rosae Crucis, che raccontando la vita di Christian Rosenkreuz (Cristiano Rosacroce), poneva le basi per una ulteriore tappa di quella Tradizione che, attraverso il simbolo dell’Ordine, una croce con al centro una sola rosa rossa, rimanda a quella conoscenza d’ordine cosmologico che può essere raggiunta attraverso l’ermetismo cristiano.


Ma ciò che simboleggia meglio l’opera di Basilio Valentino è forse proprio l’episodio della colonna: perché la storia dell’Alchimia ci tramanda questo avvenimento come fondamentale nella comprensione dei suoi segreti? Ebbene in Azoth, che come sottotitolo porta «L’occulta opera aurea dei filosofi», troviamo l’acronimo V.I.T.R.I.O.L.: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, cioè visita l’interno della terra e rettificando troverai la pietra nascosta. La scritta compare su tre immagini che, secondo l’interpretazione degli adepti, riassumono sotto forma simbolico-allegorica tutte le fasi dell’Opera.

L’acronimo si trova ancora nel Gabinetto di Riflessione delle Logge Muratorie nel quale il profano neofita, letteralmente pianta nuova, viene invitato a meditare le sue scelte prima di essere eventualmente iniziato. Anche Dante, che aveva perso la «retta via», nell’affrontare la salita del Purgatorio per ritrovarla, si descrive come «rifatto sì come piante novelle, rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salir alle stelle».

Ecco allora che il lavoro interiore, il visitare la propria terra dove questa simboleggia anche le scorie del corpo e della mente che bisogna conoscere per potersi così rettificare, tornare cioè sulla «retta via», corrisponde all’opera di dissoluzione e coagulazione degli elementi che cuociono nel crogiolo alchemico. Se il lavoro dentro e fuori di noi sarà costante, meditato, umile, ispirato dagli alti valori dell’Uguaglianza, della Fratellanze e della Libertà, ecco infine che si mostrerà, come i manoscritti usciti dalla colonna di pietra, l’Occultum Lapidem, la pietra della Salvezza, metafora di una individualità libera dal giogo delle passioni ed aperta verso la conoscenza delle cose ultime.


Le reliquie di San Marco e la spada di San Venceslao

Una colonna scissa miracolosamente la troviamo anche nella storia delle reliquie di San Marco. Sappiamo che furono due mercanti veneziani, Rustico da Torcello e Bono da Malamocco, che ne trafugarono le spoglie ad Alessandria e, celatele in una cesta contenente carne di maiale, impura per i musulmani, le riportarono in laguna, sua destinazione finale. L’Evangelista, infatti, era già stato a Venezia: giunto a Roma assieme a Pietro, viene da lui inviato ad Aquileia dove converte Ermagora che sarà così il primo vescovo della città. Dopo quest’opera apostolica Marco parte per Alessandria d’Egitto, ma viene costretto da una tempesta ad approdare alle «isole realtine», il nucleo della nascente Venezia, oggi in corrispondenza del ponte di Rialto. Addormentatosi viene visitato in sogno da un angelo che lo saluta con la nota frase «Pax tibi Marce, evangelista meus», e gli promette che in quell’isola avrebbe riposato fino al Giorno del Giudizio; giunto ad Alessandria ne diviene vescovo e subisce il martirio il 25 aprile del 78. È dunque da questa città che i due mercanti trafugano le sue reliquie nel 829.

L’onore, e l’onere, di poter ospitare le spoglie del Santo legato alla sua fondazione, spinse la Serenissima a costruire la chiesa omonima per consentirne la venerazione. Nel 1063 ebbero così inizio i lavori della Basilica di San Marco che subì, però, un incendio devastante, dovuto a moti politici, tanto che l’edificio dovette essere ricostruito. Nel 1094 la chiesa era finalmente pronta per essere consacrata a Dio e a San Marco. Purtroppo, in questa circostanza, si scoprì che la teca contenente le spoglie era scomparsa. Grande cordoglio e sgomento, ma il Doge Pietro Orseolo decise che la cerimonia restasse fissata, cosi che il 25 giugno del 1098, giorno della consacrazione, accadde il miracolo tramandato in diverse versioni negli annali e nei racconti di Venezia.

La prima ci narra di un braccio che, rompendo una colonna, indicò quella dentro la quale erano racchiuse le reliquie, un’altra che da una colonna apparve l’immagine stessa del Santo. Ma noi preferiamo quella del Fratello Giacomo Casanova che, nelle sue Memorie, ci dice: «Nel momento
culminante della celebrazione eucaristica, sulla colonna contenente i sacri reperti, apparve l’immagine del Leone alato, simbolo marciano. Subito venne scissa la colonna indicata e miracolosamente le reliquie riapparvero. E così la Serenissima salutò San Todaro, primo protettore  della città, per affidare le sue fortune e il suo orgoglio all’Evangelista dal Leone alato il cui libro aperto significa pace, chiuso, guerra».



Anche nella magica Praga, la città del Golem, che ancora oggi vaga di notte per le stradine strette di Stare Mesto, la città vecchia splendidamente descritta nell’omonimo libro di Angelo Maria Ripellino, è una delle colonne del ponte Carlo a custodire la spada invincibile di San Venceslao. Piantata originariamente in uno dei pilastri del ponte, ad un certo momento scomparve, forse trafugata da dei bambini, spiriti innocenti e vicini alla Fonte della Vita, custodi, da allora, delle fortune della città; oppure, dice un’altra versione della leggenda, inglobata all’interno della stessa colonna, custodita nello scrigno di pietra in attesa del momento in cui, se mai ce ne fosse bisogno, un eroe possa estrarla dalla sua vagina di pietra e brandirla: una Excalibur totalmente immersa nella roccia.

Quattro colonne, quattro storie, come i numeri che compongono la mistica tetraktis pitagorica.

Il manifesto/Alias – 24 novembre 2018